La fatica

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La fatica

Messaggioda Royalsapphire » 24/03/2015, 16:53



LOGICHE E CONSEGUENZE DELL'ATTIVITA' MUSCOLARE:
UN'ANALISI SINTETICA DEI MECCANISMI CHE PORTANO ALLA FATICA

A cura di Giorgio Fanò


1. Anatomia-funzionale del muscolo

Il termine muscolo deriva dalla parola latina "musculus" che significa piccolo topo ed effettivamente è un termine appropriato perché il muscolo che si contrae sotto la pelle dà proprio l'idea di un topolino che fugge. Il tessuto muscolare presente negli organismi animali è classificabile in tre categorie: liscio, cardiaco e scheletrico tenendo conto sia delle caratteristiche istologiche (presenza o meno di striature) che funzionali (correlazioni con il sistema nervoso e meccanismi contrattili), del tessuto.

Circa il 40-50% del peso totale dell'uomo (30-40% nella donna) è dovuto alla presenza del muscolo scheletrico, tessuto deputato ad almeno tre fondamentali funzioni:

Movimento: volontario o automatico di parti del corpo e/o dell'intero organismo

Postura: mantenimento della posizione del corpo nello spazio

Produzione di calore: necessario al mantenimento stabile della temperatura corporea

Altre funzioni meno note anche se non di importanza secondaria alle quali il muscolo scheletrico partecipa in posizione prevalente sono: il controllo volontario dello stato di apertura/chiusura dei tratti digestivi e urinari (sfinteri) e la formazione del pavimento e delle pareti addominali e delle cavità pelviche per supportare il peso dei visceri. Nel muscolo scheletrico è possibile riconoscere alcune proprietà tipiche che ne definiscono, di conseguenza, l'ambito funzionale:

eccitabilità: capacità di rispondere con una variazione della distribuzione delle cariche elettriche, a variazioni di energia applicata al muscolo direttamente (stimolazione della membrana) o indirettamente (tramite l'attivazione dei neuroni motori)

contrattilità: capacità di accorciarsi attivamente ed esercitare tensione sull'estremità tendinea

estensibilità. capacità di contrarsi oltre la lunghezza normale di riposo

elasticità: capacità di riprendere la lunghezza iniziale dopo una contrazione

L'insieme dei muscoli scheletrici viene generalmente, indicato con il termine di sistema muscolare intendendosi con questo l'insieme di tutti i muscoli che possono essere controllati volontariamente; è formato da circa 600 elementi ognuno dei quali e connesso al sistema scheletrico con due estremità connettivali detti tendini. Diversi sono stati nel corso degli anni, i modi scelti per denominare i muscoli: in base al numero dei capi di origine (bicipite, tricipite), della direzione delle fibre costituenti (traverso, obliquo), alla loro forma (trapezio, quadrato) ed altro ancora. Ogni muscolo è irrorato da uno o più rami arteriosi che penetrano al di sotto del connettivo di rivestimento dove si divide più volte dando luogo ad una più o meno ricca rete di capillari che hanno il compito di trasportare al muscolo gli anaboliti necessari alla sua funzione (ossigeno, glucosio, ecc..) e drenare i prodotti di rifiuto della sua attività (CO2, Acido lattico, ecc..). Nel muscolo esiste anche un polo nervoso contenente le fibre motorie che, originate nelle corna anteriori del midollo raggiungono con le loro divisioni ogni fibra, e quelle sensitive che partenti dai recettori muscolari e fusali, giungono alle corna posteriori. In realtà i rapporti tra sistema motorio e sistema muscolare sono definiti in maniera particolare dall'esistenza delle unità motrici: una struttura funzionale costituita da un singolo motoneurone, dalle diramazione del suo prolungamento assonale e dalle fibre muscolari sulle quali ogni prolungamento prende contatto. In pratica ogni cellula muscolare (fibra) riceve un solo ramo nervoso ma più fibre lavorano sinergicamente quando sono controllate dallo stesso motoneurone. Nell'uomo una singola unità motrice controlla la contrazione di un numero di fibre che va da 6-30 (nei muscoli estrinseci dell'occhio) a più di 1000 (nei muscoli generatori di forza delle gambe).

2. Anatomia microscopica

L'uso delle tecniche di anatomia microscopica evidenzia come il muscolo scheletrico sia costituito da cellule specializzate contenenti molti nuclei in periferia, chiamate fibre muscolari. Le fibre, la cui membrana prende il nome di sarcolemma, hanno generalmente una forma cilindrica con una lunghezza variabile, nell'uomo, tra 0.1 cm del muscolo stapedio dell'orecchio interno ai circa 30 cm del sartorio: muscolo della parte interna della coscia. Le fibre in realtà non sono una struttura omogenea ma il loro citoplasma (sarcoplasma) contiene pacchetti ben ordinati di piccoli fascetti di materiale proteico avvolti da una struttura membranosa: i fascetti prendono il nome di miofibrille e la struttura che le avvolge forma il reticolo sarcoplasmatico (RS). L'analisi ultrastrutturale al microscopio elettronico mostra che ogni miofibrilla è in realtà costituita da due ordini di filamenti formati da proteine contrattili (chiamate così perché partecipano alla contrazione): i filamenti spessi costituiti essenzialmente da un grossa proteina filamentosa detta miosina e i filamenti sottili formati da almeno tre proteine più piccole: actina tropomiosina e troponina.

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Con l'ausilio della microscopia elettronica è stato anche possibile definire la struttura del RS ed evidenziare che esso è costituito da formazioni allargate chiamate cisterne terminali e da una rete anastomizzata di tubuli chiamati tubuli longitudinali. Anche il sarcolemma non presenta un aspetto omogeneo perché in alcuni tratti si approfonda trasversalmente al diametro longitudinale della fibra (tubulo trasverso). Prende il nome di triade, struttura virtuale estremamente importante per la contrazione, l'unione di due cisterne terminali con il tubulo trasverso presente nel mezzo. Eseguendo una sezione longitudinale di una miofibrilla è anche fattibile definire i dettagli della disposizione delle proteine contrattili nei due ordini dei filamenti di cui abbiamo parlato. E' possibile così riconoscere l'esistenza di strutture che si replicano in maniera omogenea lungo tutto il decorso della miofibrilla e, trasversalmente, tra le miofibrille adiacenti. In pratica si riconosce quella che viene definita come l'unità morfo-funzionale del muscolo scheletrico e cioè il sarcomero che viene convenzionalmente definito come la regione miofibrillare compresa tra due bande che appaiono più scure al ME e che prendono il nome di strie Z e dalle quali prendono origine i Filamenti sottili che si continuano nella banda adiacente denominata banda I . Nella zona centrale del sarcomero si evidenzia una banda più scura (banda A) dovuta alla presenza contemporanea anche dei filamenti spessi sui quali è organizzata la miosina. La banda A presenta, nella sua zona centrale una stria più chiara (banda H) corrispondente all'area in cui il filamento sottile non è più presente ed infine al centro un'altra banda scura (banda M) legata alla esistenza di ponti intermiosinici. In pratica ogni sarcomero inizia e termina con una stria Z dalla quale origina la banda chiara I cui segue quella scura A. E' questo alternarsi di bande chiare e scure (strie) ben visibile anche ai bassi ingrandimenti del microscopio ottico, che ha fatto denominare questo particolare tipo di muscolo come "striato". Come abbiamo già detto non tutti i muscoli hanno lo stesso diametro e questo dipende, generalmente, dal numero di fasci di fibre che li costituiscono; quando il muscolo, a causa dell'esercizio fisico, aumenta il suo diametro, ciò non è dovuto all'aumento del numero delle fibre ma solo a quello delle miofibrille delle fibre a minor diametro.

3. Sinapsi neuromuscolare
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Per descrivere i meccanismi molecolari che portano alla contrazione muscolare è prima però necessario delineare i contorni del processo di attivazione nervosa del muscolo che avviene attraverso la sinapsi (giunzione) neuromuscolare. Questa particolare struttura è rappresentata da due porzioni contigue (non continue) appartenenti la prima al terminale nervoso (bottone terminale) e l'altra al sarcolemma (placca motrice). Nella porzione nervosa sono presenti in abbondanza le vescicole contenenti acetilcolina (Ach) il neurotrasmettitore capace, senza nessuna perdita né in frequenza né in ampiezza di trasmettere, chimicamente, l'impulso che viaggia lungo il nervo (potenziale d'azione) al muscolo sottostante.
Il potenziale d'azione che percorre l'assone giunge al bottone terminale determinando l'apertura di canali voltaggio-dipendenti (si aprono quando la membrana tende a depolarizzarsi) per cui il Ca2+ esterno può passare all'interno della porzione presinaptica. Questo fenomeno è reso possibile sia perché il Ca2+ è più concentrato negli spazi extracellulari (10-3M) rispetto a quanto non sia all'interno (10-7M) che perché la superficie interna della membrana assonica risulta caricata negativamente rispetto all'esterno. Esiste quindi una forza elettromotrice che porta all'influsso di Ca2+ e, di conseguenza ad un suo accumulo nel bottone terminale. Come conseguenza di ciò e attraverso un complesso meccanismo detto di kiss and run, le membrane delle vescicole si fondono con la quella presinaptica, l'Ach passa all'esterno, copre la distanza che la separa dalla placca motrice sul sarcolemma e si lega ai ca 30 milioni di recettori che si trovano nella struttura muscolare. Il legame di Ach al suo recettore modifica la permeabilità della membrana sia al Na+ (più concentrato all'esterno) che al K+ (più concentrato all'interno) perché determina l'apertura di canali specifici per ambedue gli ioni. L'ingresso di Na+ , però, supera la fuoriuscita di K+ e per questo motivo, come conseguenza dell'attivazione, si ha un flusso netto di cariche positive verso l'interno. Poiché in condizioni di riposo il potenziale registrabile ai lati della fibra muscolare è vicino ai -90 mV, il flusso netto di cariche positive all'interno sposta il potenziale verso valori meno negativi determinando una depolarizzazione e la formazione di un potenziale localizzato denominato potenziale di placca.
Ai lati della placca la membrana modifica il suo stato biofisico e si creano le condizioni (soglia) per la formazione di potenziali d'azione che decorrendo lungo il sarcolemma e i tubuli trasversi sono in grado di depolarizzare tutta la fibra sia in superficie che in profondità: così l'eccitazione (potenziale d'azione) generata a livello dei neuroni del controllo motorio si trasferisce al muscolo coinvolgendolo.
Contemporaneamente, grazie anche all'azione di un enzima specifico (Ach-esterasi), l'Ach viene scissa in colina ed acetato per cui il recettore è di nuovo libero per ricevere altre molecole di neuro trasmettitore. Come conseguenza di ciò i canali per Na+/K+ si chiudono e il potenziale di placca ritorna ai valori di riposo (-90 mV).

4. Ciclo eccitazione-contrazione

Da un punto di vista funzionale per capire cioè come la modifica tutto o nulla del potenziale sia in grado di provocare la contrazione è necessario descrivere il meccanismo che ha lo scopo di aumentare la concentrazione mioplasmatica di Ca2+ e che in fisiologia del muscolo prende il nome di accoppiamento elettromeccanico o ciclo eccitazione-contrazione (E-C). Per fare questo dovremo accentuare la nostra attenzione su due canali per il Ca2+: uno voltaggio-dipendente presente sul tubulo trasverso noto anche come recettore per le diidropiridine (DHPR) e l'altro giustapposto al primo ma residente sulle cisterne terminali del RS e noto come recettore per la rianodina di tipo 1 (RYR1). Infine, per comprendere i meccanismi che dopo la contrazione portano al rilasciamento muscolare sarà indispensabile spendere qualche parola sul sistema di pompe metaboliche che, tramite consumo di energia, riposizionano verso il basso il valore della concentrazione di Ca2+ del mioplasma.

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Come abbiamo appena detto il potenziale d'azione che si è formato ai alti della placca motrice si propaga lungo tutta la fibra ed anche nei tubuli trasversi perché queste strutture non sono altro che invaginazioni del sarcolemma.
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Nei Tubuli sono presenti, assemblati in gruppi di quattro, i canali DHPR che , al passaggio del potenziale, cambiano la loro organizzazione molecolare passando in uno stato funzionale definibile come "aperto". A questo punto il cambio di conformazione dei quattro DHPR induce un cambio funzionalmente simile (apertura) di un canale RYR1 che si trova con le sue quattro unità costitutive in stretto contatto con i quattro DHPR attivati dal voltaggio. Si crea così la condizione per cui il Ca2+ , immagazzinato nelle cisterne terminali legato ad una proteina che lo fissa (calciosequestrina), è libero di muoversi e di fuoriuscire dalle cisterne per aumentare la sua concentrazione nel mioplasma (da 10-7 a 10-5 M). E' evidente che al contrario di quello che succede nel muscolo cardiaco, il Ca2+ necessario per la contrazione proviene tutto dai depositi interni, tant'è che anche in assenza di Ca2+ esterno la fibra muscolare si contrae e si rilascia normalmente almeno per un periodo certo.
Da quanto abbiamo detto fin'ora appare evidente come il Ca2+ giochi un ruolo essenziale nella dinamica e nel controllo dei fenomeni che sono legati allo sviluppo della contrazione. Non abbiamo, però, spiegato come questo avviene e cosa succede se fenomeni legati a stati fisiologici (fatica muscolare) o patologici (mio e neuropatie) alterano i processi che abbiamo appena descritto. Il destino del Ca2+ mioplasmatico è quello di legarsi essenzialmente ad una proteina contrattile di basso peso molecolare, la Troponina (Tn), che si trova nel filamento sottile raggruppata ogni 400 A° in tre subunità (T, I e C) di cui una, la C, dotata di grande affinità per lo ione. Qual'è la funzione della Tn quando il muscolo è a riposo? Semplicemente quella di impedire, attraverso la subunità I (inibitrice) l'interazione tra l'actina del filamento sottile e la miosina del filamento spesso . Quando il Ca2+ supera la concentrazione di 10-7 M, si lega alla TnC cosa che fa cambiare la conformazione molecolare dell'intero complesso delle troponine sicché l'actina è in grado di formare un "ponte trasversale" con la testa della miosina e quindi iniziare la fase della contrazione. Elemento fondamentale a questo punto è la presenza di ATP l'unica fonte di utilizzo di energia che il muscolo può mettere in gioco e del Mg2+ che può essere considerato la miccia in grado di attivare l'idrolisi di ATP e quindi ottenere l'energia per la contrazione.
In pratica quando il muscolo è rilasciato miosina e actina non interagiscono se la testa della miosina (parte della molecola che forma il ponte trasversale) lega ATP. Questo stato ha, però, una vita molto breve perchè, in presenza di Mg2+, si innesca l'attività ATP-asica della testa della molecola che idrolizza ATP in ADP + Pi (fosforo inorganico). In queste condizioni se non ci fosse l'inibizione della Troponina si formerebbe il complesso Actina-Miosina e quindi il muscolo si troverebbe in uno stato di contrattura.. All'arrivo del Ca2+ si forma un legame energizzato tra actina e testa della miosina in cui sono presenti ADP e Pi. La perdita successiva del Pi porta ad una rotazione della testa che, essendo legata al filamento sottile tramite l'actina, tira verso il centro del sarcomero il filamento stesso. A questo punto un'altra molecola di ATP si lega alla miosina e ciò determina il distacco della stessa dall'actina: in pratica rinizia un nuovo ciclo di formazione-rottura dei ponti. Il complicato meccanismo che abbiamo descritto avviene molte volte durante una contrazione e poiché le teste delle molecole di miosina che sporgono dal filamento sono molte ed entrano in funzione in maniera sequenziale, lo sviluppo della contrazione è continuo e non a scatti. In sintesi, è necessario aumentare la concentrazione di Ca2+ del mioplasma per sbloccare il sistema di interazione actina-miosina e fornire un adeguato apporto di ATP per assicurare il funzionamento del ciclo formazione-rottura dei ponti. Ma il muscolo è una macchina strana perché non consuma solo ATP per contrarsi ma anche per rilasciarsi; una volta terminato l'effetto indotto dal potenziale con il ritorno dei canali per il Ca2+ allo stato di chiusura lo ione in eccesso presente nel sarcoplasma viene attivamente (consumando ATP), ritrasportato, , nel RS, attraverso un sistema di pompe metaboliche denominate SERCA. La relazione degli eventi appena descritti e cioè la dipendenza dal Ca2+ della fase di contrazione è evidenziato dalla presenza del periodo di latenza cioè di quel periodo di tempo durante il quale la modificazione elettrica si è già esaurita mentre ancora nessun effetto contrattile compare. E' questo però il periodo necessario affinché tutte le fasi previste dal ciclo E-C si svolgano correttamente.

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5. Miogramma

Tutto quello che è stato fin qui descritto non è altro che l'analisi della serie di eventi che si verificano quando un singolo potenziale d'azione del nervo motore, trasmesso dalla sinapsi neuromuscolare, attiva un singolo potenziale d'azione sulla fibra muscolare e, come conseguenza di ciò una fase di contrazione cui segue il rilasciamento. Il nome che si dà a questo evento riferito alla componente meccanica cioè alla generazione della tensione e/o accorciamento è: scossa semplice (twitch) e rappresenta la minima attività della quale è capace una fibra muscolare.
Viceversa, la massima attività possibile corrisponde ad una frequenza di stimolazione di ca 100 Hz (frequenza di fusione) prende il nome di tetano fuso o completo (tetanic contraction).

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Ovviamente, se la stimolazione avviene "in vivo" tramite nervo le attività che abbiamo descritte non possono essere riferite alla singola fibra ma ad una unità motrice perché, come abbiamo detto, il controllo del motoneurone si esercita su un numero finito di fibre (6-1000 a seconda dei muscoli) ma mai su di una sola. L'attività del muscolo sottoposta al controllo motorio si svolge di solito attraverso una modalità detta di reclutamento asincrono di unità motrici differenti in maniera da "programmare" un aumento della forza cercando di mantenere al muscolo una riserva di potenza per eventuali necessità. Il sistema neuromuscolare cerca, in poche parole, di non consumare tutte le sue potenzialità né di mettersi nelle condizioni di rimanere a corto di energia se una improvvisa necessità lo dovesse richiedere.
Il meccanismo del quale parliamo prevede, in pratica, che l'aumento della necessità di generazione della forza avvenga alternativamente reclutando unità motrici non ancora o poco attive (sommazione spaziale) e successivamente aumentando la frequenza di scarica sulle unità reclutate in precedenza (sommazione temporale). Alla fine del reclutamento asincrono, il muscolo attivato al massimo si troverà in uno stato molto vicino al tetano massimale (stato di contrazione sostenuto per frequenze di scarica elevate) di tutte le unità motrici che lo costituiscono.In questo modo e se le condizioni di lavoro non sono eccessive, nel muscolo hanno la possibilità di coesistere unità motrici in riposo, in attività ed in ristoro.

6. Energetica

Abbiamo fin qui visto le modalità che accomunano tutti i muscoli scheletrici nel dare inizio e poi mantenere uno stato di contrazione cui seguirà, prima o poi, il rilasciamento. Ma se le modalità per effettuare questi step sono uguali per tutti i muscoli differenti sono, invece, la capacità di generare forza e la resistenza per attività prolungate. In questo caso le differenze tra muscolo e muscolo ed anche, all'interno dello stesso muscolo, tra fibre diverse possono arrivare ad essere notevoli.
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In pratica tutto questo significa che esistono miosine con caratteristiche diverse e quindi con diversa velocità di ciclo formazione/rottura dei ponti, che esistono sistemi di pompa per il Ca2+ differenti e quindi con diverse capacità di assicurare un turn-over appropriato per lo ione ed infine diverse modalità di approvvigionamento di ATP che può essere senz'altro considerato il fattore limitante per l'attività muscolare di durata medio-lunga. Tenendo conto di questo e senza entrare in suddivisioni troppo cavillose possiamo pensare di dividere le fibre in due grandi categorie: fibre lente o rosse (dato che contengono mioglobina) e fibre rapide o bianche.
Quali sono le possibilità energetiche che ha il muscolo quando inizia a contrarsi? Su quante e quali risorse la fibra può contare per rispondere in maniera appropriata all'ordine impartito dal motoneurone? La situazione, dal punto di vista del muscolo non si presenta affatto bene: la quantità di ATP presente nel muscolo a riposo consente appena qualche secondo di attività al muscolo ed anche se il meccanismo del reclutamento può assicurare un escamotage alquanto produttivo certo un'attività prolungata non può trovare risorse in quel sistema. La principale sorgente di immediata sintesi di ATP è rappresentata dal trasferimento di un fosfato dal creatin fosfato (CP) all'ADP: prodotto di idrolisi dell'ATP ; anche questo meccanismo, però, fornisce energia solo per alcuni secondi. Per contrazioni sostenute l'ATP può venir prodotto dalla degradazione del glucosio (derivato da depositi piuttosto abbondanti di glicogeno: lo zucchero di riserva dei mammiferi). La formazione, a partire dal glucosio di ATP, per essere maggiormente produttiva, deve avvenire nei mitocondri e coinvolgere l'O2 (glicolisi aerobica); in questa condizione 1 molecola di glucosio è in grado di formare 34+2 molecole di ATP. Ma l'apporto di O2 può, in caso di esercizio strenuo, non essere in grado di supportare tutta la necessità; anche in questa combinazione un certa attività glicolitica può svolgersi (glicolisi anaerobica) ma la resa produttiva è molto bassa: solo 2 molecole di ATP per molecola di glucosio. Come prodotti di degradazione della glicolisi, però, si formano anche Acido lattico e CO2 che rappresentano i fattori limitanti della capacità del muscolo non solo della produzione di energia ma, a causa dell'acidità provocata, anche dell'attività contrattile.
Cessata la fase di attività il muscolo entra in un periodo chiamato di ristoro durante il quale la produzione di ATP continua, almeno fino a quando non si sono riformate le riserve di CP, attraverso una reazione inversa rispetto a quella che era avvenuta durante l'attività. In questo periodo, viene "pagato" il cosiddetto debito di ossigeno che non è altro che il consumo extra di O2 necessario a metabolizzare l'acido lattico accumulato durante la fase precedente e ristabilire i livelli normali di ATP. Infine, se le condizioni metaboliche lo consentono, avviene anche la riconversione del glucosio non utilizzato, in glicogeno.

7. De motu animalium

A questo punto il lettore, sopravvissuto all'angosciosa descrizione dei limiti e delle potenzialità che ha il muscolo nel generare forza, mi permetterà di fare uno sforzo di sintesi di quanto detto ma in chiave storica; citando cioè le parole scritte da quello che, forse, può essere ricordato come il primo fisiologo muscolare ( e non solo) dei tempi moderni: lo scienziato napoletano Alfonso Borelli autore , nel 1680, di un'opera famosa per secoli il "De motu animalium". Scriveva il Borelli: "Per produrre la contrazione muscolare occorrono due cause delle quali una esiste nei muscoli stessi ( proteine contrattili) e l'altra viene dal di fuori ( impulso nervoso). L'impulso al moto non può trasmettersi dal cervello per altra via che per i nervi; in ciò tutti sono d'accordo e lo dicono del resto in modo evidentissimo le esperienze; fu pure rigettata la supposizione che qui si tratti dell'azione di una facoltà incorporea, o di spiri aerei; perciò è necessario di ammettere che una qualche sostanza corporea ( il neurotrasmettitore Ach) si trasmetta dai nervi ai muscoli e che si comunichi una commozione ( potenziale d'azione) la quale possa in un batter d'occhio produrre il rigonfiamento del muscolo ". Tutto questo è giusto e anche oggi non sapremo dirlo meglio. Borrelli ammise che l'incitamento alla contrazione del muscolo fosse dato da un'azione chimica, da una "acredine pungitiva che si diffonde alla estremità del nervo per irritare il muscolo " quale altro modo si può trovare per descrivere meglio la liberazione di Ach e gli effetti sul potenziale del muscolo che essa produce?

8. Fatica

L'ultimo elemento che ci rimane da trattare in questa corsa, non so quanto efficace e chiara, nella fisiologia della contrazione muscolare, è rappresentato da quella condizione non sempre ben definita che prende il nome di Fatica: lo stato che insorge all'inizio come una difficoltà a compiere lavoro e che ben presto si traduce in un blocco della capacità contrattile del muscolo. Ovviamente, uno studio analitico del problema della fatica che, è bene ricordare, si verifica sempre ed è dipendente dall'intensità dello sforzo solo per la determinazione della sua insorgenza, deve partire da un'analisi per quanto possibile completa, di tutti i "siti" in cui il processo si può instaurare. E' per questo motivo che piuttosto che parlare di fatica muscolare, intendendo con questo termine l'incapacità del muscolo di compiere lavoro, bisognerà parlare di fatica neuromuscolare o, se è più facile distinguere, di una fatica centrale (del sistema nervoso) e di una periferica (del muscolo).
Perché un muscolo possa contrarsi deve arrivare ad esso la scarica di potenziali dal motoneurone spinale (motoneurone a). Questa cellula rappresenta una "via finale comune" perché su di essa giungono efferenze motorie provenienti sia dai centri superiori quali corteccia, cervelletto, nuclei della base, nuclei vestibolari, ecc.. che dai circuiti a feed-back dei riflessi spinali. Tutte le alterazioni provocate dall'attività prolungata che direttamente o indirettamente possono essere addebitate a una delle strutture elencate da origine a quella che in fisiologia si definisce componente centrale della fatica. Da un punto di vista sperimentale la distinzione tra fatica centrale e periferica è piuttosto agevole perché basta utilizzare come modalità applicativa la stimolazione diretta del muscolo tramite elettrodi applicati esternamente sul muscolo per analizzare tempi e modi della fatica periferica. Viceversa la fatica centrale o meglio la componente neuromuscolare della fatica, può essere derivata attraverso l'analisi della contrazione volontaria. La strumentazione necessaria della quale bisogna disporre per analizzare in grosse linee il fenomeno della fatica non è molto complessa (misuratori di forza muscolare e di attività elettrica del nervo e del muscolo), mentre un'analisi più accurata richiede strumentazione e tecniche di misura più raffinate. Un'altra componente non facilmente definibile in grado di far variare tempi di insorgenza ed intensità della fatica è da identificare con i processi motivazionali; è noto a tutti, infatti, quanto la volontà possa agire nel determinare soglia ed effetti della fatica. Nel corso di lunghi anni uno degli argomenti che più ha sostenuto il dibattito tra coloro che si occupavano di fatica, è stata la definizione del suo sito primario; se cioè l'origine del fenomeno potesse essere situata nella componente centrale (sistema nervoso) o in quella periferica (muscolo). I sostenitori della prima ipotesi iniziarono con il chiedersi se potessero essere le modalità di insorgenza e conduzione della scarica di potenziali lungo le vie nervose, il sito primario per la fatica.
Almeno questo problema sembra ora risolto poiché, esperimenti compiuti stimolando direttamente le radici nervose, hanno dimostrato che le capacità dei vari tratti di sostenere scariche di potenziali a frequenze anche alte non varia in funzione del tempo: in pratica il sistema muscolare mostra segni di cedimento molto prima che questi si verifichino nel nervo. In realtà le cose non sono proprio così semplici, perché esiste una progressiva diminuzione della scarica dei motoneuroni a durante un'attività protratta; poiché questo non è dovuto all'esaurimento delle risorse per il trasferimento dei potenziali lungo il decorso nervoso, è necessario pensare a qualche forma di informazione riflessa, con il muscolo che modula al risparmio l'attività del sistema motore. Una spiegazione per questo fatto può essere cercata nella relazione che esiste tra velocità di rilasciamento muscolare e firing (scarica di potenziali) del nervo motore. In condizioni di lavoro strenuo, il muscolo mostra rallentamenti della velocità di rilasciamento, cui fa seguito una diminuzione della scarica dei motoneuroni e quindi una diminuzione della forza prodotta. Il significato funzionale di questo fenomeno è quello di poter ottimizzare l'attività del muscolo, adeguandola ai livelli di risorse disponibili. Probabilmente il muscolo riesce ad "informare", in qualche modo, il motoneurone delle sue possibilità energetiche, forse tramite l'accumulo di ioni H+ (acidità) e di Pi (idrolisi di ATP), che sarebbero capaci di attivare alcune fibre sensoriali del gruppo III e IV presenti nel muscolo. Queste, a loro volta, stimolerebbero, per via riflessa, interneuroni inibitori presenti nel midollo spinale, modulando in senso negativo la loro scarica. In breve, gli studi fino ad ora condotti sembrano escludere che la sede o le sedi principali di insorgenza della fatica muscolare possano risiedere nella componente nervosa del sistema neuromuscolare. Per inciso neanche la giunzione neuromuscolare sembra essere coinvolta perché gli esperimenti compiuti per validare la teoria di un sito sinaptico per la fatica, hanno dato risultati negativi.
Avendo negato la validità dell'origine centrale del meccanismo della fatica non rimane che verificare dove e come questo possa originarsi nel muscolo. Per fare ciò è necessario analizzare le componenti morfo-funzionali che costituiscono gli elementi più probabili: sarcolemma, strutture del ciclo E-C, filamenti e substrati energetici. L'attività prolungata sembra modificare innanzitutto la distribuzione ionica ai lati della membrana della fibra muscolare poiché ogni potenziale d'azione coinvolge ingresso di Na+ e fuoriuscita di K+ (con un rapporto di circa 2:1). Se il ripristino attivo che avviene attraverso sistema di pompe ATP-dipendenti non è in grado di seguire la velocità di scambio, alla fine ci potrà essere un accumulo di Na+ all'interno maggiore dell'accumulo di K+ all'esterno; ciò si traduce in una diminuzione della negatività interna con conseguenze sfavorevoli sull'ampiezza e la velocità dei successivi potenziali. Tra l'altro un'accentuazione del problema si ha anche come conseguenza dell'aumento dell'acidità del mezzo che è direttamente proporzionale al grado di lavoro svolto.
Dati sperimentali molto consistenti sembrano indicare, però, che l'indiziato maggiore per l'innesco della "crisi" di fatica, sia da ricercare nella regolazione del meccanismo di controllo del Ca2+. Il prolungarsi dell'attività porta, come abbiamo visto, ad una sorta di sbilanciamento per cui Ca2+ si accumula nel mioplasma, sia per una diminuzione del suo rilascio dalle cisterne terminali, che per un "difetto di velocità" della pompa di ritrasporto dello ione nel RS. In più, cambia l'affinità della troponina per lo ione, per cui anche il ciclo formazione-rottura dei ponti risulta modificato in negativo.
Qual è la causa di tutto questo? Lavori recenti eseguiti da diversi laboratori, hanno indicato nel cambiamento del pH uno dei possibili motivi di alterazione del meccanismo di accoppiamento. Ovviamente la modifica dei livelli di H+ è la diretta conseguenza del processo di fermentazione che in mancanza di un adeguato apporto di O2 porta alla formazione di acido lattico e quindi all'aumento di H+ nel mezzo. Inoltre, dai processi di fosforilazione ossidativa legati alla glicolisi aerobica, si formano dei composti dell'O2 altamente reattivi, noti con il nome convenzionale di ROS o più semplicemente, di radicali liberi. Queste sostanze sono in grado di provocare alterazioni del trasporto ionico sia del Ca2+ che del Na+/K+ e questo, potrebbe giustificare tutte le alterazioni osservate. D'altronde, una sindrome piuttosto subdola, che si caratterizza in termini muscolari con una situazione di quasi impedimento alla contrazione e quindi per questo viene chiamata CFS o sindrome da fatica cronica, mostra la presenza di danni attribuibili ai ROS sul sistema di membrane sia interne che esterne, dai quali danni deriva un'alterazione dei meccanismi di trasporto ionico sia del Ca2+ oltre che del Na+ e K+.
Un altro fattore che è sicuramente associato con lo stato di fatica, è rappresentato dal disequilibrio che esiste tra la velocità di sintesi e quella di utilizzo del ATP; ciò non significa che le disponibilità del datore di energia siano esaurite, perché anche in condizioni di sforzi estremi e prolungati la sua presenza non scende mai al di sotto del 50% del valore di riposo. Piuttosto, come abbiamo detto in precedenza, è l'accumulo di fosfato inorganico (Pi) proveniente dall'idrolisi di ATP che aggiunge al danno provocato molto probabilmente da altri agenti, la beffa di una radicalizzazione degli eventi negativi.
In conclusione allo stato attuale delle conoscenze possiamo dire con certezza solo ciò che non è l'iniziatore della fatica muscolare: non è il sistema nervoso (ma ne subisce le conseguenze e a sua volta interferisce sul meccanismo), non è la sinapsi, non è neanche la disponibilità di ATP. Allora in fondo a queste poche pagine forse val la pena citare, con un po' di invidia per le geniali intuizioni e un velo di tristezza per la nostra incapacità (nonostante i tamburi e le fanfare della supremazia tecnologica che abbiamo a disposizione) quanto, nel 1891, scriveva in uno dei suoi libri più citati dal titolo premonitore de "la Fatica" uno dei più gradi fisiologi di tutti i tempi: Angelo Mosso. "Eccitando il nervo sciatico vediamo che la gamba fa una contrazione. Ripetendosi la contrazione un grande numero di volte, diventa sempre più piccola. Questa diminuzione di forza non deve attribuirsi ad un esaurimento del materiale per così dire esplosivo , contenuto nel muscolo, cioè della sostanza atta a contrarsi … la mancanza di energia nei movimenti di un uomo stanco, dipende dal fatto che il muscolo lavorando produce delle sostanze nocive , le quali gli impediscono poco per volta di contrarsi ". Ed ancora:"…il muscolo non è un organo che obbedisce come uno schiavo agli ordini dei nervi, perché questi non possono esaurire l'energia del muscolo in una maniera differente di quella che fa lui stesso, quando lavora senza essere eccitato dalla volontà….. Il risultato più novo ed interessante di queste ricerche fatte con l'ergografo , è che dobbiamo trasportare alla periferia e nei muscoli certi fenomeni della fatica che si credevano di origine centrale " Ecco, forse oggi conosciamo con precisione il nome di alcune delle sostanze nocive che il muscolo produce ed anche sappiamo chiamare correttamente "la sostanza atta a contrarsi" ma poi, in definitiva, non abbiamo saputo aggiungere molto a quello che con mezzi economici ristretti ed attrezzature semplici sono stati in grado di dirci quelli che, nei secoli scorsi, ci hanno preceduto.


LA FATICA ACUTA NELLE ATTIVITA' SPORTIVE DI BREVE DURATA


A cura del Prof.Mario Testi
Testo del Dott. Marcello Faina
Dipartimento di Fisiologia e
Biomeccanica dell'Istituto
di Scienza dello Sport, C.O.N.I. Roma

La fatica acuta nelle attività di breve durata

In questo gruppo, nel quale vanno considerate, essenzialmente, le attività ad impegno prevalentemente anaerobico alattacido (o di potenza), come gli sprint, oppure alcune delle attività di destrezza ad elevato impegno muscolare, come lo sci, la causa principale dell'insorgenza della fatica va individuata principalmente nella deplezione della Fosfocreatina (PC), cioè della sostanza presente nei muscoli, che contiene una modesta quantità di energia immagazzinata ed è capace di fornirla immediatamente in caso di necessità. Va detto, peraltro, che anche la perdita di K+, che si registra in queste specialità, svolge un ruolo non trascurabile nella genesi della fatica.

La deplezione della Fosfocreatina

Durante sforzi muscolari brevi e di elevata intensità l'ATP consumato è prontamente rigenerato in virtù dell'energia che si libera per scissione della Fosfocreatina (PC). Si tratta di una via metabolica potente, ma di limitata capacità, in grado di fornire una notevole quantità di energia per un breve intervallo di tempo. Grazie a questo meccanismo la concentrazione di ATP resta praticamente invariata fino alla quasi completa deplezione delle riserve di PC e, comunque, non scende mai, anche alla fine dello sforzo, sotto il 70% dei valori massimali.

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Tuttavia, anche se l'ATP resta costante, la velocità con la quale questo si forma, a partire dall'ADP, diminuisce con il diminuire della concentrazione intracellulare di PC; ciò fa sì che nella cellula aumenti il P libero e disponibile a legarsi all'ADP. In particolare l'aumento della concentrazione del P sarebbe causa di fatica per i seguenti motivi: 1) ridurrebbe la ricaptazione del Ca++ nel reticolo sarcoplasmatico; 2) non permetterebbe l'instaurarsi dei legami forti actina-miosina, determinando, quindi, un aumento percentuale di quelli deboli.

L'alterazione del potenziale di membrana.

Durante uno sforzo di elevata intensità e di breve durata si assiste, ad una cospicua fuoriuscita di K+ dalle cellule muscolari attive. Ciò, unitamente al contestuale passaggio di acqua dall'esterno all'interno della cellula, determina il declino della concentrazione intracellulare di quest'elettrolita per un valore variabile dal 6 al 20%. Parallelamente si assiste ad un aumento della concentrazione intracellulare di Na+.La conseguenza ultima e più importante è rappresentata dalla riduzione dell'eccitabilità cellulare. Si realizza, infatti, in corrispondenza del sarcolemma e del sistema dei tubuli T, una diminuzione del potenziale di membrana a riposo, variabile tra gli 8 e i 14 mV (il valore normale è di 70 mV). Ciò induce, tra l'altro, una riduzione del rilascio del Ca++ dal reticolo sarcoplasmatico con, in ultima analisi, diminuzione della probabilità d'insorgenza, nonché dell'ampiezza ed efficacia di un potenziale d'azione.

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La fatica acuta nelle attività di media durata

In questo gruppo vanno considerate essenzialmente le attività ad impegno prevalentemente anaerobico lattacido (dai 20 ai 45 secondi), quelle ad impegno aerobico-anaerobico massivo (dai 45 secondi ai 4-5 minuti). In loro la causa principale dell'insorgenza della fatica va ricercata nell'aumento della concentrazione intracellulare degli ioni idrogeno (H+) conseguente alla formazione di acido lattico.

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L'accumulo di lattato

Durante sforzi di elevata intensità di durata superiore ai 15" circa l'erogazione energetica è garantita dalla glicolisi anaerobica, meccanismo metabolico in grado di fornire una minore quantità di ATP nell'unità di tempo (potenza inferiore) rispetto al sistema dei fosfageni, ma dotato di una maggiore capacità, anche se ne risulta l'accumulo di quantità progressive di acido lattico. La formazione di questo metabolita determina un aumento dell'acidità intra ed extracellulare per aumento della concentrazione di H+ (scissione della molecola di acido lattico in lattato ed H+). L'aumento dell'acidità viene considerata, in questo gruppo di attività, il principale fattore responsabile dell'insorgenza della fatica perché interferirebbe, da un lato con i meccanismi contrattili, dall'altro con la produzione energetica. Per quanto riguarda il primo aspetto, gli ioni H+ ridurrebbero il rilascio e la ricaptazione del Ca++ da parte del reticolo sarcoplasmatico con conseguenze negative sia sulla fase di contrazione che su quella di decontrazione. Inoltre, spostando il Ca++ dalla troponina, si ridurrebbe il legame forte dei ponti acto-miosinici, impedendo lo slittamento dei filamenti e l'accorciamento dei sarcomeri con conseguente incapacità alla produzione di forza. Per quanto riguarda il secondo aspetto, l'aumento dell'acidità è in grado di inibire l'attività di alcuni enzimi della glicolisi anaerobica (in particolare la Fosfofruttochinasi), già a partire da valori di pH pari a 6.9 (il pH è l'indice di acidità; è normale a 7 e tanto è più basso, tanto maggiore è l'acidità); per valori intorno a 6.4 il flusso glicolitico si arresta completamente, con rapido decremento della produzione di ATP ed insorgenza di esaurimento muscolare. Peraltro, a fronte di questa teoria, esistono riscontri sperimentali che evidenziano come durante il recupero dopo sforzi "affaticanti" caratterizzati dalla produzione di acido lattico la capacità di generare forza si ripristina più rapidamente di quanto non avvenga per il pH tessutale. Ciò dimostrerebbe che l'insorgenza della fatica più che dai meccanismi appena descritti anche in questo caso sarebbe essenzialmente determinata da una condizione di temporaneo deficit energetico, con aumento transitorio dell'ADP nei siti contrattili per incapacità dei meccanismi di rifosforilazione, nel caso specifico la glicolisi anaerobica, di tenere dietro alle richieste.

La produzione di ammoniaca e l'alterazione del potenziale di membrana.

Durante le più intense, quindi più brevi, attività appartenenti a questo gruppo, essenzialmente rappresentate da quelle ad impegno anaerobico lattacido (durata tra 20" e 50"), come cause di fatica acuta intervengono anche i meccanismi di alterazione della concentrazione del K+, già descritti in precedenza, oltre ad altri fattori come l'aumento della concentrazione di ammonio nel sangue.

LA FATICA ACUTA NELLE ATTIVITA' SPORTIVE DI LUNGA DURATA


A cura del Prof.Mario Testi
Testo del Dott. Marcello Faina
Dipartimento di Fisiologia
e Biomeccanica dell'Istituto
di Scienza dello Sport, C.O.N.I. Roma
La deplezione del glicogeno muscolare

Nelle attività di lunga durata la fatica può essere descritta riferendosi a quella sensazione molto comune nei maratoneti che intorno al 35° Km sperimentano, come si dice in gergo, di scontrarsi contro un muro ("hitting the wall "). In questo gruppo di sport, nel quale vanno considerate, per comodità, non solo le attività ad impegno prevalentemente aerobico, ma anche alcune prove delle attività ad impegno combinato (come i giochi di squadra), una delle cause d'insorgenza della fatica va individuata nell'esaurimento delle scorte di glicogeno muscolare. Tale sostanza, com'è noto, rappresenta la forma con la quale i carboidrati sono immagazzinati nell'organismo. Esso si trova in quantità limitata nei muscoli (1,5 - 2 grammi per 100 grammi di muscolo) e nel fegato (80 grammi) e ciò rende ragione del perché, in caso di sforzi prolungati, esso possa esaurirsi, mentre ciò non accade ai lipidi, i cui depositi sono virtualmente illimitati.Il glicogeno svolge un ruolo fondamentale nella produzione d'energia. Infatti, se si eccettuano gli sforzi brevissimi e d'elevatissima intensità, nei quali l'energia è fornita esclusivamente dal sistema dei fosfageni (vale a dire fosfocreatina ed ATP), il glicogeno rappresenta l'unico substrato utilizzabile durante gli sforzi di tipo lattacido (di media durata) ed il principale durante gli sforzi di lunga durata d'intensità superiore al 50% della massima potenza aerobica (in pratica quelli di lunga durata ma d'intensità medio-alta). Si può aggiungere, inoltre, che tanto più lo sforzo è intenso, tanto maggiore è la velocità con la quale esso è utilizzato.Le modalità di deplezione del glicogeno muscolare sono state descritte per attività richiedenti sforzi molto variabili: da leggeri (circa il 30% del VO2 max) a molto forti (fino al 120% del massimo consumo d'ossigeno). E' interessante notare che per esercizi che richiedono meno del 60% o più del 90% della massima potenza aerobica non si assiste ad una significativa riduzione delle scorte di glicogeno. Nel primo caso, poiché l'intensità dello sforzo è molto modesta, il carburante utilizzato è rappresentato quasi esclusivamente dai grassi, con un modestissimo uso del glicogeno; l'interruzione dello sforzo per fatica acuta è causata, in questo caso, che molto si avvicina a quello che dovrebbe essere il target, per la maggior parte, del lavoro per il fitness ed il wellness, da altri motivi che descriveremo più avanti (ipoglicemia, iperammoniemia, alterazione dei neurotrasmettitori cerebrali, discomfort, dolore muscolare, aumento della temperatura corporea, disidratazione). Nel secondo caso, trattandosi di sforzi molto intensi (di tipo lattacido), il glicogeno rappresenta l'unico substrato utilizzabile per la produzione glicolitica di ATP e l'esaurimento interviene precocemente, impedendo quindi la deplezione dei depositi di glicogeno, essenzialmente per l'accumulo d'acido lattico nei tessuti (acidosi metabolica).Si assume, da quanto riportato in letteratura, che uno sforzo che sia protratto alla massima intensità sostenibile dal metabolismo aerobico per tempi prolungati (come la maratona, per l'appunto), il glicogeno muscolare può fornire l'energia per non più di due ore. Se si vuole resistere di più, come nella marcia per esempio, si deve utilizzare un livello più basso di rotazione del proprio motore aerobico.E' altrettanto evidente che, se lo sforzo è costante e sottomassimale, l'entità della riduzione del glicogeno rispetto ai valori di riposo risulta strettamente correlata alla durata dello sforzo, ma certamente è tale da garantire attività di durata superiore alle due ore.Ciò, indubbiamente, ha valore nelle condizioni ottimali di immagazzinamento del glicogeno nei muscoli, che sono quelle tipiche di un atleta nel momento della gara di alto livello. Non si può certo affermare che tale sia con certezza la situazione del normale cittadino che pratichi attività fisica spesso rubando il tempo al riposo ed ai pasti, alimentandosi, quindi, in forma scorretta.Altre caratteristiche importanti, che confermano il ruolo fondamentale del glicogeno, consiste nel fatto che l'utilizzo del glicogeno muscolare avviene in maniera percentualmente differente nei diversi tipi di fibre muscolari (veloci o lente), in relazione all'intensità dell'esercizio. E', infatti, noto che per esercizi di bassa intensità saranno preferenzialmente reclutate le fibre lente ossidative (poco affaticabili); all'aumentare dell'intensità dello sforzo sono reclutate dapprima le fibre veloci ossidativo-glicolitiche (mediamente affaticabili) e successivamente quelle veloci glicolitiche (molto affaticabili). E' inoltre noto che la deplezione del glicogeno avverrà prevalentemente a carico dei distretti muscolari coinvolti in una determinata attività e che, per uno stesso muscolo, le modalità con le quali è svolto uno stesso tipo di esercizio (es. corsa) influenzano il consumo di questo substrato.

L'ipotesi che la fatica acuta durante esercizi di lunga durata è legata, almeno in parte, alla deplezione di glicogeno muscolare è supportata dal fatto che, nei giorni che precedono una gara, una dieta ad alto contenuto di carboidrati che ne aumenti le riserve è in grado di prolungare la capacità di resistenza per una data intensità di lavoro, sia rispetto ad una dieta normale che, in modo ancora più evidente, rispetto ad una dieta iperlipidica. Come detto, il glicogeno gioca un ruolo fondamentale quando l'intensità dello sforzo è abbastanza sostenuta da bruciarlo ad una velocità significativa e la durata abbastanza lunga da richiederne un'elevata quantità. Né l'uno né l'altro, sono il caso delle attività in palestra o da campo, quali il fitness, l'aerobica, il jogging, ecc. Queste, infatti, sono (o dovrebbero essere) normalmente di intensità medio-bassa. In realtà si è verificato come almeno alcune lezioni di aerobica ad alto impatto siano svolte, per una parte, ad intensità elevata e tale da richiedere un preponderante contributo energetico dal glicogeno. Tuttavia, questi momenti molto intensi della lezione sono troppo brevi per intaccare i depositi di glicogeno, salvo nel caso, assai improbabile, di un soggetto digiuno, con alimentazione povera di glucidi e che fa più di una lezione di seguito.Quindi, se la fatica acuta nelle lezioni di aerobica non può essere fatta risalire ad una carenza di glicogeno muscolare, tuttavia i praticanti non devono trascurare le normali e corrette regole dell'alimentazione, ancor più importanti per chi pratica attività fisica.


Le perdite idrosaline

Come noto l'uomo è un animale a "sangue caldo" che regola costantemente la propria temperatura corporea interna sul valore di 37 °C ± 0,5. Questa condizione di equilibrio termico si basa sul costante pareggio tra produzione di calore all'interno dell'organismo dovuta ai processi metabolici e sua cessione all'esterno con i meccanismi della termoregolazione. Il mantenimento dell'equilibrio è condizione irrinunciabile al fine di garantire l'ottimale svolgimento di tutte le reazioni biologiche. L'energia prodotta dai muscoli è utilizzata solo in parte per compiere un lavoro (20-25% circa), mentre la quota restante è trasformata in calore; calore che, pertanto, deve essere ceduto all'esterno al fine di evitare dannose variazioni della temperatura corporea. Durante l'attività fisica si assiste, in seguito all'aumento dell'attività muscolare, ad un notevole incremento della produzione metabolica di calore, con aumento progressivo della temperatura corporea interna fino a valori che dipendono dall'intensità dell'esercizio e dalla capacità di dispersione. In queste condizioni, l'unico meccanismo in grado di permettere la cessione di calore è rappresentato dalla evaporazione del sudore, prodotto con il meccanismo della sudorazione.L'attivazione della sudorazione, pertanto, avviene particolarmente per sforzi di elevata intensità (notevole produzione endogena di calore) ed alla presenza di condizioni climatiche che rendono inefficaci gli altri meccanismi (temperatura elevata, irraggiamento solare diretto, assenza di ventilazione). L'evaporazione del sudore consiste nel passaggio di questo prodotto delle ghiandole sudoripare dallo stato liquido (il sudore per l'appunto) allo stato gassoso (il vapore acqueo). E' quindi importante ricordare che la sudorazione per se non determina nessuna perdita di calore se non avviene, contestualmente l'evaporazione.Ciò spiega perché, durante uno sforzo di elevata intensità, particolarmente se svolto in condizioni climatiche sfavorevoli (come l'umidità che riduce la quantità di sudore evaporato, costringendo l'organismo a sudare sempre di più), si possono raggiungere, in condizioni estreme, valori di perdita di sudore anche di 2-3 litri/oa. Nelle attività sportive di lunga durata, come la maratona, la marcia o le prove di ciclismo su strada, si può pertanto determinare una notevole perdita di acqua, che può raggiungere anche i 5-6 litri.

Le attività di palestra, pur non potendosi comparare per durata ed intensità a quelle sopra citate, si svolgono spesso in condizioni climatiche sfavorevoli per assenza di un adeguata ventilazione e condizionamento dell'aria e per la frequente errata abitudine dei praticanti di indossare un abbigliamento che impedisce o rende difficoltosa l'evaporazione del sudore (come le tute di plastica, che sono spesso reclamizzate, falsamente, come uno strumento di dimagramento).Si è potuto verificare, per esempio, in una serie di lezioni di aerobica ad alto impatto una perdita di acqua corporea fino a 1,3 litri.

La perdita di acqua con il sudore è accompagnata da quella di elettroliti. Il sudore, infatti, pur se ipotonico rispetto agli altri liquidi corporei (cioè meno concentrato), contiene quantità variabili di sali minerali, in particolare sodio (Na+), cloro (Cl-), potassio (K+) e magnesio (Mg++). Durante sforzi prolungati, o comunque in caso di sudorazioni elevate, si possono quindi verificare perdite idrosaline notevoli. Queste, ancor prima di indurre eventi patologici gravi per cedimento acuto delle capacità termoregolative (colpo di calore per perdite di fluidi pari al 7-10% del peso corporeo del soggetto), sono responsabili di una consistente riduzione della capacità di prestazione atletica rappresentando, in questo gruppo di sport, uno dei fattori dell'insorgenza della fatica acuta. La diminuzione delle capacità prestative avviene da una perdita di liquidi pari al 2%, raggiungendo un peggioramento della performance del 20-30% per perdite pari al 4-5% del peso corporeo del soggetto. Le cause dell'insorgenza di fatica acuta per deficit idrosalino vanno individuate essenzialmente in due fattori:1) la disidratazione , che influisce negativamente sulla dinamica cardiocircolatoria per una riduzione della portata cardiaca (quantità di sangue che il cuore spinge verso i tessuti in un minuto) e con essa della quantità di sangue diretta verso la muscolatura impegnata nel lavoro. Tale situazione va ad aggiungersi, sommandosi, al fatto che, per far fronte alle necessità della termoregolazione, una quota già rilevante della portata cardiaca è dirottata verso la cute, piuttosto che verso i muscoli;2) la perdita di elettroliti , in particolare del K+ e del Mg++, che altera l'eccitabilità delle membrane cellulari, cioè la capacità di trasmettere lo stimolo nervoso, provocando un deficit di attivazione neuromuscolare. La perdita di K+, infatti, essendo essenzialmente a carico della quota di elettrolita che si trova nel sangue, quindi fuori dalle cellule, fa sì che quello presente all'interno delle cellule muscolari attive sia richiamato nel sangue per ristabilire un equilibrio. Il risultato finale è che le cellule muscolari vanno incontro ad una ridotta capacità di contrarsi contribuendo all'insorgenza della fatica locale con gli stessi meccanismi già ampiamente descritti. La perdita di Mg++ aggrava il quadro, in quanto questo elettrolita è essenziale per il corretto funzionamento delle pompe di membrana Na+-K+, che sono ATP-dipendenti. Ricordiamo che queste pompe hanno il compito di riportare il K+ all'interno delle cellule.

L'ipoglicemia

L'ipoglicemia rappresenta un'altra causa di fatica acuta in questo gruppo di sport.Il glucosio rappresenta l'unico carburante che può essere utilizzato dal cervello. L'omeostasi glicemica è garantita dal glicogeno epatico, le cui riserve sono intaccate successivamente a quelle del glicogeno muscolare. La caduta della glicemia è un vero pericolo nella fase terminale di un esercizio prolungato ed anche quando si pratica un'attività fisica senza essersi opportunamente alimentati; essa, infatti, interferisce negativamente con il corretto funzionamento del sistema nervoso centrale (SNC).Per tale motivo la somministrazione di carboidrati, soprattutto nella fase terminale della prestazione, contribuisce a mantenere inalterate la concentrazione plasmatica di glucosio aumentando la resistenza nelle gare di durata.

La produzione di ammoniaca

Nella fase terminale di un'attività di durata, condotta fino all'esaurimento, la riduzione delle scorte di glicogeno è responsabile della incapacità dei processi di resintesi dell'ATP di "tener dietro" a quelli di scissione dello stesso. Ciò determina una condizione transitoria di deficit energetico con aumento dell'ADP e dell'AMP nei siti della contrazione muscolare. L'AMP non può rimanere come tale nell'organismo ed è quindi metabolizzato. Questo processo porta alla formazione di ammoniaca (NH3). L'ammoniaca è tossica per il SNC e la sua formazione in eccesso causa l'insorgenza di fatica con un meccanismo di tipo centrale per turbe nell'equilibrio dei neuro-trasmettitori.Considerando i meccanismi descritti è evidente che in un'attività di durata, condotta fino all'esaurimento, la formazione di NH3 è inversamente correlata con il livello di glicogeno muscolare. Ciò è testimoniato dal fatto che uno sforzo compiuto partendo da bassi livelli di glicogeno comporta una più accentuata produzione di NH3 ed un più rapido sviluppo della fatica, mentre, quando si somministrano carboidrati, la produzione di NH3 si riduce e la capacità di resistenza aumenta.

La teoria aminoacida

Nel caso degli sforzi prolungati è stato di recente introdotto e suggerito un ruolo importante della cosiddetta fatica "centrale", alla quale si è fatto cenno precedentemente nell'illustrazione generale del concetto di fatica acuta nell'introduzione. Senza voler entrare nel merito di problematiche di tipo psicologico, che peraltro secondo alcuni potrebbero svolgere un ruolo nel determinare la fatica "centrale", si intende qui far riferimento ad un ipotizzato aumento del rapporto aminoacidi aromatici/aminoacidi ramificati (sigla inglese, BCAA).Gli aminoacidi, come noto, sono i costituenti elementari delle proteine e si dividono, per l'appunto, in aromatici e ramificati. Questi ultimi sono costituti da tre aminoacidi: la valina, l'isoleucina e la leucina. Contrariamente a quanto si riteneva in passato, oggi si afferma che durante un'attività di durata, oltre al glicogeno ed ai grassi, sono utilizzati come substrati energetici anche gli aminoacidi ed in particolare quelli ramificati. Ciò determina uno squilibrio tra la quantità di aminoacidi aromatici e di quelli ramificati, con un aumento del loro rapporto. Di specifico interesse per il meccanismo centrale della fatica sarebbe, in realtà, solo uno degli aminoacidi aromatici e cioè il triptofano, o meglio ancora quella quota di questo aminoacido che si trova libero nel sangue (triptofano libero). Poiché il Triptofano è competitivo con i BCAA per il passaggio attraverso la barriera ematoencefalica (ciò significa che il triptofano può entrare nel cervello solo se nel sangue non ci sono gli aminoacidi ramificati che usano le stesse porte di ingresso) la conseguenza finale è un aumento della concentrazione di Triptofano nel cervello.Tale aumento è favorito anche da un altro meccanismo. Negli sforzi di bassa intensità od alla fine di quelli più intensi, quando le scorte di glicogeno si sono ridotte e l'intensità cala, l'organismo usa grandi quantità di grassi. Questi si riversano nel sangue, per raggiungere i muscoli, partendo dai depositi sottocutanei (i trigliceridi) sotto la forma di acidi grassi liberi (sigla inglese, FFA). I FFA, tuttavia, non viaggiano liberi nel sangue, ma sono veicolati da una proteina, l'albumina, che è la stessa che trasporta normalmente il triptofano. L'esigenza primaria di portare energia ai muscoli fa sì che l'albumina lasci libero il triptofano e "carichi" i FFA. Ciò provoca un incremento della concentrazione del Triptofano libero nel torrente circolatorio che favorisce il passaggio di questo aminoacido nel cervello. Nel cervello il Triptofano è convertito nel neurotrasmettitore serotonina (5-HT), che è uno dei mediatori del sonno. L'aumento della serotonina in varie aree cerebrali determina la caduta di una serie di funzioni: 1) direttamente, con perdita di motivazione, sensazione di stanchezza, riduzione delle capacità coordinative2) indirettamente, tramite inibizione del sistema dopaminergico (aumento del rapporto serotonina/dopamina) che è responsabile del mantenimento dei normali livelli di attivazione nervosa e di adeguate capacità motorie.Anche in questo caso la somministrazione di carboidrati durante lo sforzo è in grado di contrastare l'insorgenza della fatica in quanto riduce l'utilizzazione energetica dei grassi e degli aminoacidi ramificati, quindi i presupposti di partenza dell'ingresso di elevate quantità di Triptofano nel cervello. Ciò è confermato da studi sperimentali in doppio cieco. Per correttezza scientifica, va tuttavia aggiunto che molti ancora sono i dubbi sulla validità di questa teoria che non sembrerebbe avere ancora un totale riscontro sperimentale, almeno per ciò che concerne il parametro diretto rappresentato dalla resistenza alla fatica. Al contrario, esistono dimostrazioni scientifiche del peggioramento delle capacità coordinative e neuromotorie nei soggetti con alterato rapporto triptofano libero/aminoacidi ramificati..

La fatica acuta nelle attività ad impegno metabolico alternato

Per la natura stessa di questo gruppo di attività, che comprende i giochi di squadra (es. calcio, pallavolo, pallamano, pallacanestro, rugby) e sport come il tennis, dove la caratteristica fisiologica fondamentale è data dall'alternanza di fasi di gioco ad impegno metabolico di tipo prevalentemente anaerobico (le fasi più intense) con momenti in cui prevale un impegno metabolico di tipo aerobico (tutte le fasi giocate a ritmo blando e le pause), la fatica, quando si presenta riconosce diverse possibili cause.In particolare, da un punto di vista organico, si possono identificare due aspetti fondamentali di questa particolare forma di resistenza alla fatica acuta:
1) un aspetto più propriamente metabolico, legato alla capacità dei diversi sistemi di assicurare una veloce e continua resintesi della fosfocreatina, un adeguato smaltimento del lattato prodotto, nonché un continuo rifornimento energetico per tutta la durata della prestazione;
2) un aspetto più propriamente neuromuscolare, riconducibile ai fenomeni di fatica riguardanti la trasmissione dell'impulso nervoso e la capacità della fibra muscolare di rispondere allo stimolo (es. squilibrio elettrolitico intercompartimentale per disidratazione in eventi agonistici di durata prolungata, particolarmente se svolti in condizioni climatiche avverse).

La fatica acuta nelle attività isometriche

Come abbiamo sottolineato nella parte introduttiva, tanto più elevata è l'intensità dello sforzo tanto minore è la capacità di resistenza e più precoce l'insorgenza della fatica. Peraltro la correlazione tra i due parametri, che è inversa e non lineare, appare spostata a sinistra nel caso dell'esercizio isometrico. Ciò significa che per un'identica richiesta energetica, espressa come velocità di utilizzazione dell'ATP, la resistenza è minore nel caso di una contrazione isometrica rispetto all'esercizio dinamico. Nello sforzo isometrico il fattore che condiziona in maniera determinante la resistenza può essere individuato nell'entità del flusso ematico che condiziona l'apporto di ossigeno ai tessuti, quindi le capacità del metabolismo ossidativo. Quando l'intensità dell'esercizio isometrico non supera il 20% della massima capacità di contrazione volontaria (MCV), la resistenza è praticamente infinita essendo adeguato l'apporto di ossigeno ai muscoli che lavorano. Da intensità prossime al 50% il flusso si riduce praticamente a zero e progressivamente più precoce risulta l'insorgenza della fatica. La resistenza è quasi nulla (pochi secondi) per contrazioni isometriche massimali.

Le cause della fatica nelle attività sportive dove è presente una componente isometrica (es. arrampicata sportiva, discesa libera nello sci alpino) vanno pertanto individuate negli stessi meccanismi descritti nel numero precedente (riduzione delle scorte di Fosfocreatina ed aumento del fosforo, all'inizio dello sforzo, e riduzione del calcio, nelle fasi finali), ma con una situazione aggravata per il fatto che la diminuzione o l'interruzione totale del flusso ematico riduce o interrompe, da un lato l'apporto di ossigeno e di nutrienti, dall'altro la rimozione dei cataboliti.In tal senso un importante aspetto da prendere in considerazione, per quanto riguarda la capacità di resistenza, sono i periodi di intervallo eventualmente presenti tra una contrazione e l'altra; periodi che, garantendo il flusso ematico, facilitano i meccanismi di recupero.
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