Mercoledì scorso ho dovuto vederlo. Porta Susa, pioggia, 30 secondi di convenevoli che sembrano 3 ore.
Doveva portarmi due cose mie che gli avevo prestato, e che volevo indietro. Obiettivi per una Olympus a pellicola.
Lo aspetto in preda all'ansia, piove, ho freddo e la felpa si sta inzuppando e non vedo l'ora che arrivi. Eccolo, sta attraversando la strada, luminoso come una stella, e forse ribollente di ansia quanto me. Non mi guarda nemmeno, si toglie lo zaino, tira fuori la borsa e mi chiede cosa può tenersi. "Le card, il lettore di memorie, e si, anche l'adattatore, non mi servono, puoi tenerli" "ok, bene, tieni, ciao".
E fine.
In quei pochi secondi ho sentito una violenta tempesta di ansia, tristezza, preoccupazione, paura che mi inondava, e la riconoscevo, quel colore che solo lui sa trasmettermi, tutta quell'ondata era di quel colore. Era lui che aveva paura di me, era triste, era ansioso di andarsene. Di non vedermi più. Io che mi ero tanto preoccupata che niente gli facesse male, adesso ero il riccio nel suo cuore, una cosa bella e tenera, piena di spine, pronta a ferirlo nel punto più delicato ad ogni minimo movimento di affetto.
Adesso so che lo amo. Di un amore che le parole tritano e sminuzzano e sminuiscono, un amore che è solo dentro di me, così grande che per dimostrarlo dovrei strapparmi le costole e farlo uscire come un oceano, rischiando di uccidere la persona a cui lo sto mostrando. Ma lui? Lui prova qualcosa per me? Quella paura da dove è arrivata? Quell'affetto che dice di provare, quanto è affetto, quanto odio, quanto amore? Quanto è giusto sperare che torni da me? E quando?
Tutto mi parla di lui. Tutto è una coperta irta di spine sottili che se prima appaiono morbide, subito dopo feriscono, e ad ogni movimento s'infilano in posti sempre diversi, lasciando libera solo la gola per urlare. Urlare cosa poi?