...come si esce dalla misantropia e dalla misoginia; come si supera il trauma delle ripetute delusioni e come si fa a riconquistare la fiducia nell’altro, o nell’altra, recuperando un rapporto più equilibrato con la realtà e rimettendo in circolo le energie affettive che, per paura, abbiamo bloccato in noi stessi, castrando la nostra parte migliore e inibendoci la messa in gioco delle nostre tendenze più generose?
Partiamo da una considerazione preliminare: misantropia e misoginia sono gravissime malattie dell’anima, addirittura mortali: vivere in esse, senza speranza di uscirne, significa trasformare la propria vita in uno squallido e allucinante deserto, popolato da orribili fantasmi sghignazzanti e tormentati da ricordi molesti e da rimpianti amarissimi; uscirne è, pertanto, questione di vita o di morte e non qualcosa di secondario o di accessorio.
Ciò detto, è necessario ampliare la prospettiva e collocare le due patologie, la misantropia e la misoginia, in una prospettiva molto più vasta: esse, infatti, non sono che casi particolari di una malattia di carattere più generale, che è l’incapacità di trasformare le esperienze negative in occasioni di ripensamento e di perfezionamento del Sé.
In genere, tanto il misantropo, quanto il misogino lamentano la propria sfortuna e tirano in balle le circostanze disgraziate che li hanno condotti a fidarsi di persone immeritevoli di tale fiducia: essi, dunque, si sentono vittime di un mondo cattivo; non solo: pensano, più o meno inconsciamente, di essere “troppo buoni” per riuscire ad adattarsi ad una realtà così turpe e a vivere in maniera soddisfacente in mezzo a un branco di lupi (o di lupe), per cui preferiscono tirarsi indietro, isolarsi, alzare barriere protettive fra sé e gli altri.
Una variante di tale atteggiamento psicologico è quella di svalutarsi pesantemente, giudicandosi delle persone di nessun valore: se si è rimasti delusi, se si è stati ingannati e traditi, allora vuol dire che si è persone da nulla, che possono divenire lo zimbello di chiunque; e si trae la conclusione di essere immeritevoli di un destino migliore.
A ben guardare, questa variante non è l’opposto della precedente, ma una sua versione più subdola e sottile; una cosa, però, hanno in comune, che ne tradisce l’identica origine: il rapporto abnorme fra sé e il mondo, l’ipertrofia di un ego che, dopo aver causato sofferenze ed insuccessi nelle relazioni umane, finisce per dispensarsi da qualunque ripensamento costruttivo delle esperienze fatte: nel primo caso, ponendosi al di sopra degli altri, nel secondo, abbassandosi molto al di sotto; ma, in entrambi, non accettando il confronto, sottraendosi alla fatica di lavorare su di sé, giorno per giorno, per interagire costruttivamente con la realtà esterna.
Misantropia e misoginia sono una forma di sciopero permanente, una vendetta postuma e autolesionista, una petizione di principio che non si basa sui fatti, ma sulla loro interpretazione unilaterale e paranoide; entrambe nascondono fragilità, insicurezza, inconsapevolezza, mancanza di autostima e, soprattutto, incapacità di accettarsi e al tempo stesso di migliorarsi.
In ultima analisi, il misantropo e il misogino non si vogliono bene e si aspettano di colmare la propria lacuna affettiva con l’amicizia e l’amore dell’altro: ma nessuno può esserci amico, né amarci come potremmo fare noi stessi; anzi, gli altri intuiscono la nostra mancanza di amore per noi stessi e istintivamente si tengono alla larga da noi.
Talvolta le donne - perché questa è una caratteristica della psiche femminile - si sentono intenerite da tale fragilità e mancanza di autostima e perciò stimolate, nel proprio orgoglio, a fare le consolatrici o persino le salvatrici di questi uomini insicuri e disamorati di se stessi; ma è inevitabile che, prima o poi, si stufino di recitare il ruolo dell’eterna crocerossina e abbandonino l’infelice al suo destino, non senza averlo illuso di aver trovato finalmente la persona giusta e avere con ciò aggravato la sua amarezza e la sua frustrazione.
Questo ci ricorda che non solo è impossibile che noi possiamo trovare qualcuno che ci voglia bene più di quanto siamo disposti a volercene noi, ma è anche impossibile voler bene indefinitamente a qualcun altro che non si vuole bene, perché ciò equivale a portare perennemente sule spalle un peso morto: dobbiamo diffidare delle crocerossine improvvisate e dobbiamo diffidare anche del nostro impulso a fare le crocerossine, perché al fondo di esso possono esservi dei sentimenti assai diversi da quelli che vengono esibiti agli altri e perfino a se stessi. Quanto è complicato il cuore umano!
O forse no? Forse è terribilmente, quasi banalmente semplice.
Forse tutto sta a lavorare su se stessi per imparare a conoscersi: perché chi si conosce non si fa illusioni, né su se stesso, né sugli altri; ma non sarà neppure spinto ad indossare la maschera del cinismo e del pessimismo, che sono frutto della delusione e dell’infelicità.