Falling from Cloud 9

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Falling from Cloud 9

Messaggioda BusyBee » 19/09/2018, 15:29



La sensazione di libertà. La città dormiente e nessuno in giro, le strade vuote che rivelano la vera natura delle case. La possibilità di guardare in su, verso il cielo. La voglia di sentirmi di nuovo in connessione con l'universo.
Abito in un paese sul mare, e quello sto cercando. La prima canzone della mia playlist è rabbiosa, perché tu non sei qui con me. Perché non capisco il senso di vagare su questa terra immensa divisa da te. Non capisco perché debba sentire continuamente questo pugnale affilato conficcato in un punto preciso nel petto. Sempre, sempre, da quando ho memoria, appena mi fermo ad ascoltarmi io sento dolore.
Cammino rabbiosa per la città, nessuno può fermarmi, nessuno può parlarmi. Sono in un punto inaccessibile, chiusa nella mia anima ferita, che pure vuole volare. Mi hanno strappato le ali una piuma alla volta ma io non mi fermerò.
Cammino e canto dentro, cammino e trovo una scala. La guardo, mi sta chiamando.
Salgo uno, due, tre, cinque, dieci. E lì la ricompensa: un nuovo inizio davanti a me. Un'alba contornata da nuvole soffici come le risate di un bambino felice. Striate, lacrimano luce, luce che c'è nonostante tutto. Nonostante il buco nero che ho dentro inghiotta musica, cibo, persone senza lasciare nemmeno un ossicino. Nonostante la violenza che mi ha fatto da madre, la derisione da padre e l'abuso da fratello.
Io vedo: vedo la bellezza, sento il richiamo, la carezza del vento che mi fa rabbrividire, lecco la vita che sgorga dentro di me e dagli occhi Delle persone, specie quelle sconosciute che non sanno che le sto osservando.
Mi alzo dopo diversi minuti e corro giù, corro qualche chilometro ancora perché non ho finito: prima di tornare a casa devo fare ancora un'altra cosa. Alla fine delle mura della città vecchia che inizia a risvegliarsi, giro a sinistra. Stavolta le scale sono in discesa. Raggiungo la sottile striscia di sabbia. Tolgo le scarpe da ginnastica. I calzini. Immergo i piedi nella sabbia ancora umida della notte appena passata. Le onde sussurrano invitanti, il sole sbuca dalle nuvole e mi riscalda. Mi spoglio. Mi immergo un centimetro alla volta. L'acqua lambisce i piedi, arriva ai polpacci, il passo dopo accarezza le ginocchia. Un tuffo e sono sotto: il mare mi lava i capelli come un amante devoto. La sensazione di essere in un altro mondo sott'acqua è incredibile. Il silenzio. La trasparenza per metri e metri. Le mie mani che mi spingono in avanti, le gambe vive, il cuore che batte, il respiro trattenuto.

Sono viva, ancora per oggi. Anche oggi proverò a togliermi la maschera. Anche oggi proverò ad assomigliare più a me stessa. E a far ricrescere la prima piuma sulla mia schiena.
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Messaggioda -Entropia » 19/09/2018, 15:36



Bellissimo, mi hai fatto venire i brividi, veramente.
Spero tu possa trovare la forza di ricostruire quelle ali ed essere di nuovo te stessa, ma soprattutto mi auguro tu possa riprenderti l'amore che ti è stato negato.

Un abbraccio.
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A lesson without pain is meaningless. That’s because no one can gain without sacrificing something. but by enduring that pain and overcoming it, he shall obtain a powerful, unmatched heart… A fullmetal heart...

- Edward Elric
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Messaggioda BusyBee » 19/09/2018, 15:48



-Entropia ha scritto:Bellissimo, mi hai fatto venire i brividi, veramente.
Spero tu possa trovare la forza di ricostruire quelle ali ed essere di nuovo te stessa, ma soprattutto mi auguro tu possa riprenderti l'amore che ti è stato negato.

Un abbraccio.



Ti ringrazio. Con tutto il cuore che ancora
batte
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Messaggioda BusyBee » 20/09/2018, 11:06



La prima volta.

La mia prima volta non voglio né posso ricordarla. So solo dire che mi ha spezzata dentro e ha creato in me un'impronta biologica che non posso cancellare, per quanto possa sforzarmi di scriverci sopra, raschiarla via.

La prima volta che mi sono sentita amata è stata una sensazione indescrivibile. Come l'arrivo dopo una salita interminabile, dove il paesaggio che gli occhi non riescono nemmeno a contenere ti premia e ti gratifica, ma tu sai che non ti basterà una vita a guardarlo davvero, tutto, nella sua interezza.
Volere qualcosa e riceverla, riceverla esattamente come la desideri.

Avevo 15 anni. Avevo capelli ricci scuri, ero abbronzata, una t-shirt bianca e un jeans chiaro. Tu mi hai accarezzata e baciata dolcemente, a lungo. Eravamo insieme già da qualche tempo, per me il più bello della mia vita. Qualcuno che mi prendeva per mano quando camminavo per strada, qualcuno che mi ascoltava quando ero triste e il mio baratro mi chiamava. Qualcuno con cui essere me stessa, con la mia insicurezza cronica di allora.
Tu mi hai baciata dolcemente, e piano piano mi hai spogliata. Avevo paura.
Ad un certo punto un ricordo mi ha presa più della tua tenerezza e ho pianto. Tu ti sei fermato e mi hai abbracciata, sussurrandomi all'orecchio che non c'era fretta, che avresti aspettato anche tutta la vita
Che mi amavi, come solo un adolescente può fare.
Il mio cuore si è schiuso come un fiore che riceve il primo raggio di sole della giornata, dopo una fredda notte solitaria.

Nudi, ci siamo cercati. Già allora il mio bisogno di controllo, di non sottostare mai più. Mi sono seduta su di te e un centimetro alla volta siamo diventati una cosa sola.

-Ti sento scorrere tutta attorno a me.

Molto tempo dopo, mi hai lasciata. No, non sei stato tu a troncare la nostra relazione ma non eri e non sei mai più stato una cosa sola con me come in quel momento irripetibile.

Oggi, dopo 18 anni, rompi il silenzio per dirmi che mi ami ancora.
Ma io sono senza più ali. Dopo che tu mi hai lasciata andare via, mi sono lasciata calpestare così tante volte da aver perso il conto. Convinta di meritare solo quello.
È finita.
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Messaggioda Cold » 20/09/2018, 11:27



non c'è vita nel passato.
non c'è vita nel rimpianto.
accettalo.
e alza la testa.
qualsiasi sia il futuro.
affrontalo con rabbia.
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Adrien ha scritto:dalla solitudine tocca salvarsi da soli.
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Messaggioda BusyBee » 20/09/2018, 12:57



Sono consapevole che tornare indietro non porta da nessuna parte. È solo un dolce ricordo tra tanti brutti :)
Grazie
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Falling from Cloud 9

Messaggioda BusyBee » 25/09/2018, 16:53



Falling from Cloud 9.

La mia anima è e nasce dicotomica. Divisa. Condivido qui un racconto che ho scritto e che parte dalla mia esperienza personale. Era forse il 2006. Ero fidanzata con il "Paolo" del racconto, ero ancora all'università.

È il brivido a muovere il mondo. È quello che sentiamo scorrere sulla spina dorsale quando desideriamo intensamente qualcosa che ci permette di essere vivi. Vale per ogni singola pulsione umana, dalla fame al sesso, dall’ambizione al bisogno di essere liberi. Sono i brividi di freddo a farci desiderare un coperta calda; è il brivido che si prova ad essere guardati in un certo modo dall’altro sesso che ci fa desiderare di essere toccati, di essere presi.

Eccomi in treno. Il posto che preferisco al mondo. Perché mai mi sento più a casa mia qui, che da qualsiasi altra parte? Quando sono in stazione, sono ancora quello che ci si aspetta io debba essere. Sono conosciuta da tutti, e sono condizionata da ciò che gli altri pensano di me: sono una donna, sono una compaesana, sono una moglie, ma non ancora madre. Ho sempre avuto una concezione un po’ particolare della famiglia e in particolare dei figli: sono fermamente convinta che ci abbiano instillato il dovere di essere madri in tutti i modi. Penso alle bambine che cullano le bambole in braccio, che spingono le mini carrozzine, che vestono e svestono i pupazzi a seconda della stagione. Chi ha detto che una donna debba essere necessariamente anche madre?
Una donna è una donna, punto.
Io non mi sento più donna, da molto tempo.

L’ultimo baluardo della mia personalissima Resistenza potrebbe cadere molto presto: eppure ogni volta che me l’hanno detto, io non ci ho creduto.
“Vedrai, arriverai ai trent’anni e ti vorrai sposare.”
Non so quanto sia stato vero, almeno nel mio caso. Mario è arrivato nel momento giusto, presumo. Che frase fatta e che tristezza, per l’uomo che ho promesso di amare e onorare “per tutto il resto della mia vita”. Non ho mai creduto nel matrimonio, quindi il giorno in cui mi sono ritrovata vestita in bianco sulla scalinata di una chiesa, che davo il braccio a mio padre, la ragazzina dentro di me si è sentita profondamente tradita.

“Io non mi sposerò mai”, affermavo risoluta davanti alle mie compagne di liceo prima e durante le discussione all’università, più tardi. Avevo avuto la fortuna di trovare un ragazzo che la pensava esattamente come me. Io ero la sua seconda ragazza, e aveva 30 anni quando ci siamo conosciuti. Siamo stati insieme insieme quasi per quattro anni: è finita perché ho scoperto che mi aveva tradita. Di nuovo.
Oggi mi chiedo spesso cosa significhi “tradimento”: se lo chiedi a qualcuno, ti risponderà – dopo averti guardato un attimo come se fossi deficiente – che un tradimento consiste nello stare con una persona, pur essendo già impegnata con un’altra. Fisicamente? Fisicamente, sì, risponderanno con una seconda occhiata perplessa. La concezione può variare da quelli che considerano tradimento anche un messaggio sul cellulare o una telefonata a quelli, più disinvolti, che perdonano se si tratta “solo” di un bacio.
Insomma, la nozione comune di tradimento è abbastanza chiara a tutti.
Anche io la pensavo così, almeno fino a qualche tempo fa: sono sempre stata una tipa parecchio gelosa, per non dire possessiva. Non mi sono mai sentita nel gruppo dei disinvolti; piuttosto in quello dei rompicoglioni. Eppure a volte, mentre guardo mio marito che si veste nella penombra, la mattina, mi ritrovo a chiedermi se non esistano diversi tipi di tradimento. Per esempio, se mio marito ha giurato davanti a Dio (un Dio in cui io non credo) di amarmi per tutta la vita, secondo voi non è un tradimento che non mi desideri più?
Cos’è peggio, un uomo che ti sta accanto ogni giorno senza volerti imprigionare e che ti tradisce una tantum oppure uno che si addormenta puntualmente guardando la tv ma che – che tu sappia – non ha mai baciato un’altra da quando siete insieme?

Le porte del treno si chiudono con un rumore secco, ed io mi inoltro nei corridoi, seguita dal rumore dei miei stessi tacchi e immersa nell’odore tipico dei vagoni. Questo treno non è uno nuovo, sembra proprio uno di quelli che prendevo sempre per andare all’università, non più di dieci anni fa. Salgo al piano superiore e cerco uno scompartimento vuoto. Lo trovo, e mentre mi siedo mi accorgo che sta arrivando un treno dalla direzione opposta, che fa scalo alla stazione e che quindi si ferma proprio accanto a quello in cui mi trovo io. Appoggio la borsa e comincio a sbottonarmi il cappotto, togliendomi contemporaneamente la sciarpa. Fa freddissimo, oggi, e la rugiada notturna comincia a sciogliersi sui finestrini. Si è formata una specie di nebbiolina sul vetro accanto a me, probabilmente per la grande differenza di temperatura che c’è tra l’esterno e l’interno, che è riscaldato. Sento il rumore dei freni del treno che scivola dolcemente sui binari, e la stazione quasi deserta lo accoglie e lo acquieta, lo induce a fermarsi un attimo, ad interrompere la corse forsennata verso chissà dove, almeno per qualche istante di silenzio. Mi accorgo che si tratta di un treno a due piani. Vedo i vagoni scorrere sempre meno velocemente e piano piano distinguo le sagome delle persone che iniziano ad alzarsi, che si chiudono i cappotti, che dormono. O che semplicemente guardano fuori dal finestrino, come me. Il treno finalmente si ferma e mi rendo conto che qualcuno mi sta osservando. Un ragazzo, seduto, con un libro in mano, mi fissa dall’altro treno, e quando si accorge che lo sto guardando anche io, mi sorride. Continuiamo a osservarci, ed io gli sorrido a mia volta. Un saluto, per una persona sola come me, che come me viaggia leggendo, e che non vedrò mai più nella vita. Percepisco di piacergli, come mi piace lui: ha capelli lunghi fino alle spalle, lisci, neri; occhi che, dietro le lenti e oltre la distanza che ci separa, sembrano chiari e gentili. Sparisce appena il mio treno inizia a muoversi.

Mi sento triste. Dovrei sentirmi in tutt’altro modo: eccitata, curiosa, ansiosa. Invece, sento solo una grande tristezza dentro di me. Sto per diventare il dato di una statistica. Sono esattamente come tutti gli altri, che hanno una facciata esteriore che deve piacere a tutti. È necessario, no? Ma dietro, cosa c’è?

Buongiorno, signori, sono una moglie con due casa di proprietà e con un marito che lavora in una società finanziaria. Io, invece, che di numeri non ci capisco proprio nulla, sono una professoressa di inglese e nel tempo libero scrivo per un giornale locale. Perlopiù seguo gli eventi culturali della mia città natale. Per ora, no, niente figli. Ma chissà…Mario adora i bambini.

Bentrovati, pezzi di merda, maschi e femmine. Oh, storcete la boccuccia? Una SIGNORA che parla così, che orrore. Voi che non fate altro che guardare l’esteriore, cosa potete saperne di me? Di quanti sogni avevo, di quanto amavo viaggiare da sola, di quante volte al giorno odio la mia vita? Sono una che fa finta di essere felice, mentre dentro è vuota. Totalmente infelice, perché si è rinchiusa in una scatola di vetro, e l’ha fatto da sola, senza nemmeno essere costretta. Per questo odio tutti voi che state lì fuori a guardarmi, perché devo anche preoccuparmi di quello che pensate di me. La cosa che meno volevo fare nella vita, la faccio tutti i giorni: sono una fottutissima professoressa di inglese, quando volevo diventare giornalista, traduttrice e scrittrice. Scrivo qualche articolo di merda per un giornale ridicolo di paese, e so che avrei potuto fare molto di più.
No, non voglio bambini. Non ne ho mai voluti e non ne vorrò mai. Che schifo, no?, una donna priva dell’istinto materno. Peccato che mio marito mi scopi solo nel periodo dell’ovulazione. Tra poco cederò e gli darò un piccolo Mariolino, che probabilmente amerò con tutta me stessa, o che forse odierò. Non lo so. E a quel punto, sarò bella che incastrata.

Quanto vorrei parlare così con qualcuno veramente, o magari scriverlo, per farlo leggere a tutte quelle donne che si fingeranno schifate con le altre, ma che dentro di loro sapranno benissimo cosa intendo.
Ma sono in un treno, sola, e questi pensieri rimarranno per me. Com’è giusto che sia. Una volta o due, ho provato a parlare con Mario di come mi sento. In fondo, quando ci siamo conosciuti le cose funzionavano molto bene tra di noi. Dopo solo 4 anni, di cui due di fidanzamento, il mio uomo pensa di sapere tutto di me, e quindi è stato davvero molto difficoltoso per me iniziare la conversazione. Per lui invece è stato semplicissimo farla finire.
“Mario, hai un minuto?”
“Dimmi, amore.”
“Guardami.” Ho bisogno di dirlo, perché spesso quando parliamo non mi guarda negli occhi. Lo cerco con lo sguardo finché non incontro i suoi e lo costringo a sostenere lo sguardo.
Aspetto un po’, perché non so bene come formulare ciò che ho dentro da mesi e non voglio dirlo in un modo che lui possa fraintendere, non voglio che…
“E se avessimo un figlio? Ormai sono due anni che siamo sposati e le cose tra noi vanno bene, no?”, mi chiede all’improvviso lui.
Io mi sento congelare le parole in gola e sento il cuore perdere un battito. Come dovrei reagire, secondo lui? Mario sa benissimo che io non ho mai voluto figli.
“Io non sono felice”.
L’ho detto, ce l’ho fatta.
“Non sono più felice con te, perché mi sembra di essere diventata una cosa assolutamente scontata nella tua vita. E tu sai benissimo, perché sono sempre stata molto chiara su questo, che non c’è cosa che odio di più. Non mi guardi, non mi tocchi, non mi parli…”
“Ma amore, che dici? Certo che ti voglio. Lo sai, la sera sono stanco perché il lavoro è tanto…ma ti voglio esattamente come prima.”
Comincia a passarmi la mano sulla coscia.

Quella sera abbiamo fatto l’amore, e prima di addormentarsi mi ha chiesto di smettere di prendere la pillola. Io gli ho detto che non voglio figli. Lui stava per dirmi qualcosa, e a metà frase si è addormentato. Sono rimasta al buio, nuda. Poi mi sono alzata, senza preoccuparmi di far rumore: lui non si sveglia nemmeno con i cannoni. Ho preso una sigaretta e un bicchiere di brandy e ho pianto con calma, rassegnata.
Per un breve momento ho guardato mio marito: il suo braccio alzato sopra la testa, la bocca semiaperta, l’espressione serena. E l’ho odiato, oh sì, l’ho odiato follemente: perché era lui a dormire ed io a vegliare, lui a sognare ed io a piangere. Per un secondo ho immaginato di prendere il cuscino, e soffocarlo nel sonno. Di uccidere questa persona che non conosco e che dorme nel mio letto. O forse non è il mio letto: forse sono io che non dovrei essere qui, sono io quella sbagliata in questo contesto, l’elemento di disturbo, l’estranea.

Il treno prende velocità man mano che ci allontaniamo dalla stazione. Io entro in una dimensione diversa: torno ad essere me stessa. Non sono da nessuna parte e allo stesso tempo posso essere ovunque: sono in viaggio e potrei decidere di non tornare mai più. Eppure so che, appena il mio piede toccherà terra nella stazione di arrivo, questa sensazione finirà, ed io tornerò ad essere ciò che gli altri decideranno che io sia. Per ora, però, sono qui, e sono solo ciò che sento. Nessuno mi conosce, e le persone che mi guardano vedranno ciò che sono realmente: non la moglie di (ho tolto la fede) o la figlia di. Sono io, una giovane donna attraente con i capelli scuri su un treno, che legge ed ogni tanto guarda fuori dal finestrino.

La mia terra è come violentata: strade, lampioni, binari, case la attraversano. I muretti delimitano le proprietà. Eppure, non riescono a renderla meno bella di com’è, bella da fare male. Io sono nata qui, e mi sento parte di questi alberi nodosi che sopravvivono nonostante tutto alle case, di questa terra umida che è sporca e generosa, di questo mare corposo che riempie gli occhi e l’anima con un senso di pienezza perfetta, di perfezione piena. Vorrei prendere un pezzo di ognuna di queste cose e portarla con me, per sempre, per non sentirmi mai sola, per avere la loro forza immane quando provo paura. Ma in fondo so che le porterò sempre, ovunque andrò.

Il mio treno corre veloce e velocemente taglia in due la mia terra, porta me verso qualcosa che voglio e che al tempo stesso non voglio assolutamente. Sono divisa come il mare si divide dal cielo nella linea di orizzonte; allo stesso modo, quella linea di divisione è solo fittizia, serve solo come una semplificazione, come una comoda illusione. Non sono divisa: io sono il mare e il cielo, sono la sposa e sono la p*****a, voglio essere una moglie perfetta e voglio essere un’avventuriera per tutta la vita. Voglio fare del viaggio la mia ragione di vita, e allo stesso tempo voglio seppellirmi sotto le coperte per un lungo, lunghissimo letargo, perché è molto più facile scappare che vivere davvero. Io sono la pioggia che cade, la terra che accoglie, la nuvola che fugge, sono il vicolo più buio, sono la strada piena di luci, sono una e mille, eppure nessuna voglio essere.
La scelta di essere una cosa comporta la decisione di non essere altre novecentonovantanove. Nella paura, io non scelgo, e gli altri decidono per me.

Mi specchio nel finestrino, guardando la linea dell’orizzonte dividere il mio viso in due all’altezza del naso, e mi faccio schifo.

Non usavo più quell’indirizzo di posta elettronica da anni ormai, ma la settimana scorsa ci sono entrata per completare l’iscrizione su E-Bay, dove avevo deciso di mettere in vendita la mia enorme collezione di fumetti giapponesi. Non sopportavo più gli sguardi compassionevoli di Mario, quando la sera mi mettevo sotto le coperte a leggerli, per la centesima volta. Non perdevano mai la loro freschezza per me. Sono sempre stata un’appassionata di quella cultura così diversa, così lontana e così divertente.
“Ma è roba da ragazzini!”, aveva protestato mio marito quando avevo provato a farlo appassionare. Lui legge solo libri storici e politici.
Ricordavo perfettamente le credenziali d’accesso alla casella di posta elettronica, visto che consistevano – ironia della sorte – nei due nomi delle protagoniste del mio primo fumetto in assoluto.
C’era più di duecento messaggio, quasi tutti spam. Visto che sono tanto meticolosa quanto curiosa, però, ho controllato uno ad uno i mittenti.
Ce n’erano diversi per il giorno del mio compleanno, da parte di amici che avevano ancora quell’indirizzo. Li aprii sorridendo, mi fa sempre piacere ricevere gli auguri da qualcuno. Il mittente di una di queste mail, però, mi era sconosciuto. L’oggetto diceva: “Auguri Scorpioncino”. Il cuore perse un battito e sentii la faccia arrossarsi immediatamente. Per fortuna ero sola in casa. Guardai meglio l’indirizzo del mittente, e decisi di aprirla, anche se avevo capito perfettamente chi me l’aveva mandata.

Io e Paolo ci eravamo conosciuti nel modo più banale del mondo. Eravamo entrambi iscritti ad un sito che permetteva di scambiarsi messaggi privati, una specie di chat per persone che vivono più o meno nella stessa zona. Avevamo iniziato a parlare per caso. Poi mi accorsi che in realtà mi leggeva nella testa. Le stesse concezioni, le stesse idee, precise e spiccicate. Tanto che uno iniziava una frase, e l’altro la finiva. Una sequela di “anch’io” e di “ma dai…” che non finiva più.. Finimmo per scambiarci i numeri di telefono, cosa inusuale per me, che non mi fido molto quando non so con chi sto parlando. Quando mi telefonò per la prima volta, la voce mi sembrò molto simpatica, calda e gentile. Ci divertivamo un sacco al telefono, e mi faceva morire dal ridere.

L’apice della meraviglia, però, lo raggiunsi il giorno dopo, però, quando mi accorsi, sbirciando per la seconda volta nel suo profilo in chat, di una cosa a cui non avevo fatto caso. La sua data di nascita.
Spalancai gli occhi, realizzando che eravamo nati lo stesso giorno.

Il peggio è stato quando mi ha mandato le foto. Avevo la tachicardia, mentre aspettavo che arrivassero. Mi è arrivata prima la foto del tatuaggio sulla spalla destra, uno scorpione (tanto per restare in tema). La spalla che si intravedeva nella foto non era niente male…
La seconda mi ha sconvolta definitivamente. Quegli occhi scuri, quei capelli castani, quello sguardo che voleva essere serio ma già provocava. Le labbra.
Abbiamo resistito solo tre giorni prima di vederci. Quella sera d’estate ero bellissima nel vestitino nero, con i capelli ricci mossi dal vento, un trucco leggero e il cuore a mille.
Ma lui, lui non aveva paragoni.
Alto, scuro di carnagione, occhi e capelli ugualmente scuri, mani grandi, snello ma non magro. Sotto la maglietta bianca che metteva maliziosamente in contrasto la sua abbronzatura si indovinavano delle proporzioni perfette e una muscolatura atletica. Sorriso non perfettamente regolare, e per questo ancora più affascinante.
Scendemmo dalle auto quasi in sincrono, e ci sorridemmo.
Ci abbracciammo.
Ed io seppi in quel contatto che lui mi desiderava almeno quanto lo desideravo io.
Mentre guidavo - voleva farmi una specie di test di guida - sentivo il suo sguardo spogliarmi e mangiarmi con gli occhi. Io mi sentivo a disagio, non ho mai accettato il mio corpo per com’è.
Mi sento sempre troppo ingombrante.
Ma lui mi guardava come se fossi qualcosa di così bello che non poteva sospettarne l’esistenza fino a quel momento. Decidemmo per una passeggiata. Forse all’aria aperta mi sarei sentita più a mio agio, e non asfissiata da quell’aria intrisa di tensione. Passeggiammo per tutto il centro storico, parlando del più e del meno. Sulla torre, a ridosso del mare, la luna ci guardava maliziosa e il mare sconfinato sussurrava ininterrottamente.
Io parlavo, parlavo…non so bene cosa ci siamo detti quella sera. So solo che avevo paura di ciò che provavo. E allo stesso tempo ne ero irresistibilmente attratta. Mentre mi scostavo i capelli dal viso - si era alzata una brezza leggera - lui ne approfittò per stamparmi un bacio sul collo, subito sotto il mento. Io mi scostai, turbata. Proposi di bere qualcosa in un pub. Volevo ascoltarlo, non possederlo.
Rimanemmo per due ore seduti ad un tavolino in un locale semivuoto. La musica di sottofondo, due cocktail e le nostre parole. Lui mi raccontava del suo lavoro, dell’iscrizione tarda all’università, di sua sorella. Io gli dicevo dei miei viaggi, della mia laurea, del bivio davanti al quale si trovava la mia vita.
Ad un certo punto, durante un discorso, mi distrassi per pensare quanto mi sarebbe piaciuto alzarmi mentre stava parlando, e zittirlo con un bacio. Fare quei due passi che mi separavano da lui, tirargli la testa indietro afferrandolo per i capelli e mettergli la lingua in bocca. So che può sembrare assurdo, in fondo non era che uno sconosciuto. Non avevo mai desiderato tanto fare una cosa così eclatante.
Ovviamente rimasi dov’ero, e ripresi il filo del discorso.
Ma quando mi alzai per andare in bagno, capii cosa voleva dire quando un sogno diventa reale.
Mentre gli passavo accanto - dovevo passarci necessariamente per raggiungere la toilette - lui scostò un po’ la sedia dal tavolo, e allungò un braccio. Mi mise una mano dietro la nuca, affondandola nei miei capelli, e mi attirò versò di sé.
E lì, in un locale semivuoto, con la musica di sottofondo ed in bocca il sapore di un Tequila Sunrise, mi baciò.
Non un bacio dolce, né timido: un bacio di possesso, profondo, non violento ma pieno.
Tutta la mia persona fu sconvolta da questo contatto, che tra l’altro non durò nemmeno molto. Mi staccai, e lui mi sorrise. Io mi girai e scappai in bagno, dove guardandomi allo specchio mi chiesi disperata cosa diavolo stesse succedendo. Ero felice, ma non avevo certo in programma che la serata procedesse a quel ritmo!
Quando uscii, lui da perfetto signore aveva già pagato il conto. Appena in strada, io lo guardai, e lui mi baciò di nuovo, stavolta senza staccarsi per diversi minuti. Io, nel tentativo di riprendere il controllo della cosa, gli chiesi: “Ma tu, chi diavolo sei?”
“Qualcuno che diventerà importante per te”, mi rispose lui.
Non potevo sapere quanto fosse vero.

Questo è il mio treno, il mio primo treno da traditrice di mio marito. Il mio treno che mi riporta indietro di molti anni, quello che mi fa sentire viva solo per il fatto di esserci salita su.
Paolo mi ha mandato gli auguri per il mio compleanno, per il nostro compleanno. Solo io posso sapere quanto male mi fa compiere gli anni, dal giorno in cui ho deciso di lasciarlo. Le persone che passano quel giorno con me pensano che la patina di tristezza che mi offusca lo sguardo sia dovuta agli anni che passano; ed io mi ritrovo inevitabilmente a sforzarmi di sorridere all’ennesima battuta sulla mia età. Meglio questo, piuttosto che rivelare a chi sto pensando.
Mi sono chiesta spesso, in questi anni passati senza vederci, se mi pensasse almeno in quella data. Riflessione finita sempre con un pensiero negativo. Paolo non è tipo da pensieri del genere. Lui guarda sempre avanti. Lui…
Invece mi sbagliavo. La mail era molto corta, proprio nel suo stile, ma bastava il modo in cui mi aveva chiamata a farmi tremare le gambe. “Scorpioncino”: mi ha sempre chiamata così. Non “amore”, non “tesoro”…bensì in un modo che doveva rimanere solo suo. Il nostro segno zodiacale.
Inutile dire che gli ho risposto, inutile spiegare perché oggi sono qui, che sto andando da lui, dopo aver dato una stupida scusa a mio marito che giustificasse un’assenza di un giorno.

Il treno comincia a rallentare, e i battiti del mio cuore accelerano. Paolo mi ha detto per mail che non è sposato, né tantomeno fidanzato. Ha riso fino alle lacrime quando al telefono gli ho confessato che sono sposata.
“Lo sapevo, lo sapevo….” , rideva quasi sighiozzando mentre io sorridevo mio malgrado. È vero, lui me l’aveva predetto in ogni particolare. Poi, però il mio sorriso si è spento, e lui l’ha capito. Infatti, ha smesso di ridere e mi ha detto: “Scusami, Scorpioncino, ma non riesco mai a sbagliarmi. Tu come stai?”
Come al solito, mi ha fatto innervosire questa sua presunzione di “non riuscire a sbagliarsi”. Quindi, mi ha fatto piacere poterlo contraddire, dicendogli che non ho figli. Almeno questa cosa è come la dicevo io. Per ora.
Subito dopo, mi ha chiesto: “Quando ci vediamo…per un caffè?”

Sappiamo benissimo entrambi che non sarà solo una conversazione tra vecchi amici. Non so come andrà, ma sento che tra me e lui non è cambiato nulla. L’elettricità nell’aria, gli sguardi, i brividi.
Dovrei sentirmi in colpa, dovrei sentirmi eccitata? Invece, nonostante io stia per arrivare, sento ancora una grande tristezza.
Una voce elettronica avvisa che il treno sta per arrivare alla stazione in cui scenderò. Chiudo il libro e lo ripongo in borsa. Cerco lo specchietto, lo apro e mi guardo. Mi risponde uno sguardo interrogativo: chi sei? Che cosa fai?
Un pensiero mi passa per la testa, ed è un lampo: se fossi diversa da come sono, non sarei più me stessa. Se fosse tutto limpido, chiaro, finito, non ci sarebbe più nulla da desiderare, da inseguire. Non più brividi.
Chiudo di scatto lo specchietto, e mi alzo. Sistemo la borsa, mi rivesto e raggiungo la porta del mio treno.

L’aria delle stazioni è uguale ovunque: sono costruite tutte in una maniera simile; i colori, le fattezze e i personaggi che vi si trovano fanno sì che per poco la sensazione di assenza di coordinate spazio-temporali possa durare. Ma è anch’essa un’illusione. Solo un minuscolo prolungamento che svanisce ben presto, quando alzando lo sguardo cerchiamo il viso noto, che ci riporterà con i piedi per terra.

In questo caso, metto i piedi sul marciapiede del binario e comincio a camminare. Poi mi fermo. Dove sto andando? Non so dove ci incotreremo. Metto la mano nella borsa, e cerco contemporaneamente le sigarette e il cellulare, per chiamarlo e chiedergli dove si trovi. Mi fermo di nuovo. Sento un brivido corrermi lungo la schiena. Mi volto.

Lui è lì, che mi aspetta. Che mi guarda con un’espressione quasi indecifrabile: non capisco se prevalga il desiderio o la curiosità. O la dolcezza. Ci guardiamo per un attimo, poi mi avvicino.
Un passo. Scompare la delusione che mi ha dato come fidanzato.
Due. Scompaiono le brutture, la distanza del tempo e dello spazio che ci separa e ci separerà ancora. Tendo le braccia e non sono più nessuno. Non è una moglie, non è una futura madre, non è una donna quella che viene abbracciata stretta. È solo un’emozione, un sogno, un brivido.
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Messaggioda BusyBee » 27/09/2018, 16:46



Un po'di lucidità in più, oggi.
Dopo la seduta con la psicoterapeuta ho capito quanto io sia stata esposta, indifesa contro la violenza, la follia, lo squilibrio. Quanto mi sia rifugiata nelle preghiere, da piccola, nei rapporti di amicizia e con l'altro sesso da ragazza. Ho ricercato conferme del valore della mia stessa esistenza, continuamente, ossessivamente, senza mai ricevere ciò che volevo. Perché ciò di cui ho necessità forse non esiste, non avrò più la possibilità di imparare ad amarmi da sola, di darmi un senso di per me, senza cercare il riflesso di un valore nelle parole e nelle azioni degli altri.
Chissà. Viaggio appena iniziato. Dove mi porterai?
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Falling from Cloud 9

Messaggioda BusyBee » 12/10/2018, 18:22



Una falce di luna. L'aria che pizzica attraverso i jeans. La sigaretta brucia, le lacrime che non riescono ad uscire anche. Bruciano l'anima, si addensano in un fuoco freddo che tutto lacera, dentro, dove nessun altro vede o sente cosa succede. Perché non sono capace di descrivere ciò che sento, non sono capace di comunicare se non con la parola scritta.
Nescio, sed fieri sentio, et excrucior.
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Re: Falling from Cloud 9

Messaggioda Ted_Burundi » 13/10/2018, 20:41



Lol avevo letto iCloud e mi sembrava qualcosa relativo alla tecnologia (iPhone).
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