La “tavolozza” delle emozioni

fonte: unavitasumisura.it

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La “tavolozza” delle emozioni

Messaggioda Royalsapphire » 06/01/2016, 17:02



Immaginiamo un pittore: sulla sua tavolozza egli ha a disposizione i cosiddetti colori primari (giallo, rosso, blu), dai quali può ottenere i colori secondari (arancio, viola, verde). Mescolando ancora questi colori egli può ottenere infinite sfumature, inoltre ha a disposizione la somma di tutti i colori (bianco) e l’assenza di colori (nero), che danno la possibilità di ottenere diversi toni di grigio.

Con le emozioni dipingiamo la nostra vita, così come il pittore dipinge la sua tela. Esistono così le emozioni “primarie” (o universali), comuni a tutti gli esseri umani e riconosciute dalla maggior parte degli studiosi, e le emozioni secondarie (o sociali), che derivano dalla combinazione di diverse emozioni primarie.

Molti psicologi hanno provato a definire le emozioni primarie, eccone alcune :

Felicità (o gioia): condizione di benessere di rilevante intensità, assenza di sofferenza, piacere connesso alla realizzazione di un desiderio.
Tristezza: sensazione di sconforto, malinconia, perdita, fallimento. La tristezza non è di per sé patologica, ma se assume caratteristiche di persistenza, se pervade tutto il nostro essere senza lasciare spazio alla speranza, può assumere il significato di un sintomo depressivo.
Rabbia: stato d’ira che deriva dalla sensazione di avere subito un torto ingiustamente.
Paura: è la nostra sensazione di inadeguatezza, di impotenza di fronte ad una minaccia o a un pericolo. E’ la madre di tutte le emozioni ed ha un elevato significato adattivo. L’esempio più spesso citato è quello della gazzella, che ha la possibilità di sopravvivere grazie alla percezione di grave pericolo quando avverte la presenza del leone nei paraggi.
L’ansia, sua parente stretta, è un’esperienza comune nell’essere umano. Si distingue dalla paura in quanto ciò che si teme è vago, lontano nel tempo e nello spazio. Per questo viene anche definita “paura senza oggetto”. Avremo quindi paura se vediamo una vipera, mentre definiremo ansia lo stato di apprensione che proviamo se un nostro familiare ritarda nel rincasare.
Disgusto: reazione emotiva suscitata da uno stimolo sgradevole, spesso associata a sensazioni viscerali come la nausea.
Sorpresa: nasce dalla realizzazione di un evento inatteso e si mostra in rapporto con la nostra capacità di avere un’immagine del futuro e un quadro di aspettative. Può associarsi a gioia o tristezza a seconda del tipo di evento.

Ci possiamo rendere facilmente conto di quanto siano riduttive queste definizioni rispetto alla complessità dell’argomento, in considerazione anche delle differenze individuali nella capacità di percepirle. Proviamo a pensare alla felicità: se la definiamo come “assenza di sofferenza” è un po’ come definire la salute “assenza di malattia”. Ma la presenza della felicità non corrisponde semplicemente all’assenza di sofferenza, così come la presenza di benessere può non coincidere semplicemente con l’assenza di malattia, come evidenziato dalla stessa OMS nella sua più recente definizione di salute. Per esempio l’assenza di sofferenza potrebbe avvicinarsi alla sensazione di noia, come descriveva il sommo poeta Giacomo Leopardi nello Zibaldone. Tutti rincorriamo la felicità con la sensazione che sia sempre davanti a noi, più o meno distante; probabilmente lo sbaglio che facciamo è proprio quello di rincorrere qualcosa che si trova già dentro di noi, ma che non siamo in grado di percepire. Probabilmente l’abitudine a cercare l’assenza delle emozioni negative ci ha reso incapaci di percepire la presenza di quelle positive.

Anche le emozioni secondarie sono difficili da definire. Ritorniamo al nostro pittore e supponiamo che voglia rappresentare il colore arancione: questo colore può essere più o meno carico, a seconda della proporzione di giallo e di rosso utilizzata dall’artista. Allo stesso modo, l’essere umano può sperimentare uno stato emotivo malinconico o nostalgico ”mescolando” la gioia con la tristezza; lo stato d’animo sarà più cupo o più dolce a seconda del prevalere della prima o della seconda. E’ evidente come le emozioni secondarie siano influenzate dall’esperienza e dalle caratteristiche individuali, dal momento che stiamo vivendo, da fattori sociali e culturali. Nell’essere umano, gli stimoli che determinano il manifestarsi di un’emozione sono mediati da atti cognitivi, come pensieri o ricordi. Questo spiega perché un tramonto può suscitare tristezza: la nostra mente ci può riportare al ricordo di una persona cara che abbiamo perduto e con la quale non possiamo condividere la bellezza dello spettacolo che la natura ci offre.



Fonti dello Speciale
Arnold M (1960). Emotions and personality. Columbia University Press, New York
Moderato P (2010) Interazioni Umane F Angeli
Damasio A (2003). Emozione e coscienza. Adelphi, Milano
Damasio A (2003) Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti, e cervello. Adelphi Milano





Imparare a regolare gli stati emozionali 1 marzo 2013

Per imparare a regolare le nostre emozioni, in modo da apprezzarne i colori, senza esserne in balia, è importante prima di tutto maturare consapevolezza e saperle riconoscere.
Ricordiamo che le emozioni negative, come la paura, la rabbia, la colpa, la vergogna, la tristezza, vengono considerate negative perché lo stato d’animo percepito è spiacevole, ma non sono da considerare negative in senso assoluto, anzi spesso hanno un significato funzionale positivo. L’importante è capire perché proviamo quell’emozione, ma soprattutto a cosa ci può servire. Non lo sapremo mai se non ascoltiamo ciò che proviamo. Il costo di fermarsi a riflettere può sembrare inizialmente più elevato, preferiamo continuare la nostra vita di sempre, con i nostri errori di sempre, che ci faranno sentire insoddisfatti (quasi) sempre. E’ molto più faticoso ascoltare un’emozione che ci indica la strada per intraprendere un cambiamento.



Fonti dello Speciale
Arnold M (1960). Emotions and personality. Columbia University Press, New York
Moderato P (2010) Interazioni Umane F Angeli
Damasio A (2003). Emozione e coscienza. Adelphi, Milano
Damasio A (2003) Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti, e cervello. Adelphi Milano



Riconoscere la differenza tra emozioni e sentimenti 28 febbraio 2013

Emozioni e sentimenti sono così intimamente legati da un processo senza soluzione di continuità, che tendiamo a concepirli come una cosa sola. In realtà sono entità distinte. Se le emozioni sono i colori della nostra vita, i sentimenti, per dirla con Damasio, sono “l’accompagnamento musicale della nostra mente”. Questa definizione, che a tutta prima può sembrare poco scientifica, contiene il cuore della differenza tra emozioni e sentimenti. La nostra mente non si spegne mai, è programmata apposta per questo; ne deriva che anche l’accompagnamento musicale è un sottofondo costante. I sentimenti hanno carattere di persistenza, contrariamente alle emozioni che sono molto intense ma di breve durata.

Un’altra importante differenza è che le emozioni sono eventi definiti pubblici, cioè visibili, per esempio attraverso l’attivazione neurofisiologica che ne deriva, mentre i sentimenti sono eventi privati, si possono nascondere e rimanere “musica di sottofondo” per tanto tempo. Non sempre ci rendiamo conto di questa differenza. Possiamo comprenderla meglio se pensiamo al sentimento più importante nella vita di ogni essere vivente: l’amore. Quante volte alle parole: ti ho sempre amato”… ci sentiamo rispondere : “si ma non me lo hai saputo dimostrare”…. Per contro è molto più facile percepire uno stato di eccitazione e desiderio durante un rapporto intimo. Questo esempio può farci capire l’importanza di non confondere sentimenti ed emozioni e soprattutto di saperli esprimere e cogliere nell’altro.



Fonti dello Speciale
Arnold M (1960). Emotions and personality. Columbia University Press, New York
Moderato P (2010) Interazioni Umane F Angeli
Damasio A (2003). Emozione e coscienza. Adelphi, Milano
Damasio A (2003) Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti, e cervello. Adelphi Milano



Che cosa distingue la “fame emotiva” dalla “fame fisica”? 27 febbraio 2013

La fame fisiologica nasce dal bisogno di nutrirsi, mentre la fame emotiva nasce dal desiderio di sopprimere un’emozione negativa.
La fame emotiva insorge in genere in modo improvviso e diventa in breve incontrollabile, mentre la fame fisiologica si instaura gradualmente ed è preceduta da segnali, come il brontolio dello stomaco, che aumentano progressivamente di intensità. L’assunzione di cibo può essere procrastinata abbastanza facilmente.
Nella fame emotiva si desidera un particolare alimento, spesso purtroppo si tratta di alimenti senza proprietà nutritive nobili (il cosiddetto “junk food”, cibo spazzatura, come patatine, merendine, bibite zuccherate), che tuttavia hanno la proprietà di gratificarci. La prova che non si tratta di fame reale, fisiologica, è data dal fatto che il tentativo di sostituire il “cibo spazzatura” con un alimento sano, non produce l’effetto desiderato, né tanto meno il senso di sazietà.
La fame emotiva induce un comportamento alimentare automatico, la persona non si rende conto di consumare in poco tempo una grande quantità di quell’alimento (ad esempio un’intera scatola di biscotti), senza nemmeno provarne il gusto, mentre la scelta in caso di fame fisiologica è sempre consapevole e aperta a diverse possibilità.
Dopo avere mangiato per fame emotiva spesso ci si sente in colpa, mentre ciò non accade in caso di fame fisiologica.
Nella fame emotiva il senso di sazietà non viene percepito nonostante la quantità di cibo ingerito.

Fonte
Gremigni L, Letizia L Il problema obesità. Maggioli Ed 2011




Emozioni e cibo: una relazione reciproca 27 febbraio 2013

Nelle moderne società occidentali l’assunzione di cibo è divenuta qualcosa di più complesso del semplice atto di nutrirsi per sopravvivere, arricchitasi di diversi significati e scopi, come quello della socializzazione, o di riunire la famiglia al termine della giornata. A tutti può capitare di mangiare di più in compagnia, o di fare uno spuntino senza appetito per “fare compagnia” a qualcuno. Nulla di patologico in questo. Qualche volta però, il cibo diventa uno strumento per mitigare uno stato emozionale negativo (tristezza, noia, ansia, rabbia, solitudine, stress); in questo caso si parla di ”emotional eating”, termine che in italiano viene indicato come “fame emotiva” o “iperalimentazione emozionale”. Tutti possono essere soggetti a questa spinta all’iperalimentazione incontrollata, ma le persone obese sono più vulnerabili, in particolare quando si trovano nella condizione di restrizione dietetica. Il senso di frustrazione che deriva dal non riuscire ad ottenere il risultato desiderato, può facilmente indurre a un comportamento di iperalimentazione emozionale. Quella tra emozione e cibo è da intendersi come una relazione di reciprocità. Il cibo, in particolare alcuni cibi, possiedono infatti determinate capacità di influenzare gli stati emotivi. Basti pensare alla cioccolata, che notoriamente aumenta i livelli di serotonina, elevando così il nostro tono dell’umore, oppure ai carboidrati complessi, come la pasta o i cereali, che favoriscono il sonno.



Fonte
Gremigni L, Letizia L Il problema obesità. Maggioli Ed 2011





Come imparare a controllare la fame emotiva 26 febbraio 2013

Una volta compresa la differenza tra bisogno di nutrirsi e desiderio di interrompere uno stato emozionale negativo, resta da capire come mettere in pratica una strategia per riconoscere i segnali della fame “vera”, da quelli della “fame emozionale”. A questo scopo può essere utile tenere un diario alimentare, nel quale annotare non solo ciò che si mangia e quando, ma anche le sensazioni, emotive e fisiche che si provano prima e dopo avere mangiato. Con l’esperienza e l’allenamento, si può imparare ad assumere una maggiore consapevolezza delle sensazioni corporee ed emozionali legate al cibo. In questo modo si compie un duplice atto di amore verso se stessi: il primo perché si impara a nutrire il proprio corpo, il secondo perché si impara a non seppellire le emozioni negative sotto il cibo, un primo passo verso una corretta gestione delle stesse.



Fonte
Gremigni L, Letizia L Il problema obesità. Maggioli Ed 2011





Identità e cambiamento 26 agosto 2012
di Rossella Bossa, specialista in psicoterapia comportamentale-cognitiva

L’essere umano ha una propria identità unica e irripetibile. Ognuno di noi possiede un insieme di caratteristiche somatiche e personologiche che lo rendono assolutamente inconfondibile. Ognuno di noi custodisce un nocciolo vellutato nelle parti più profonde del proprio essere, che gli permette di riconoscersi e di essere riconosciuto. Quel nocciolo che sentiamo vibrare quando incontriamo un nostro compagno del Liceo, e anche se sono passati tanti anni, ci dice: “ ma sei proprio tu! Ti ho riconosciuto subito.” Questo è un aspetto della nostra identità che ci fa sentire al sicuro, perché ciò che rimane stabile e immutato nel tempo ci dà sicurezza. Forse è un po’ questa la paura del cambiamento, la paura di perdere l’identità, di non riconoscerci più. Ma cambiare non significa perdere l’identità, anzi. L’identità personale è la risultante di un processo conoscitivo continuo, frutto dell’interazione dinamica tra individuo e ambiente che lo circonda.

L’identità personale si presenta secondo tre principali modalità:

L’identità fisica: costituita dalla fisionomia del viso e dalle altre caratteristiche somatiche (sesso, altezza, peso, forme corporee).
L’identità sociale, ossia un insieme di caratteristiche quali l’età anagrafica, lo stato civile, la professione, il livello culturale, l’appartenenza ad una certa fascia di reddito.
L’identità psicologica, ovvero la personalità, il modo di comportarsi e di reagire agli eventi.

Possiamo affermare che esiste un’identità soggettiva (come ci vediamo) e un’identità oggettiva (come gli altri ci vedono), che non è detto siano sempre sovrapponibili. Si può inoltre individuare una terza dimensione, che corrisponde a come io credo di essere percepito dagli altri: ad esempio, se sono in sovrappeso posso percepirmi come gravemente obeso/a e credere che gli altri mi vedano addirittura deforme. Oppure posso percepirmi come una persona vulnerabile, mentre le persone che mi circondano credono che io sia forte. Risulta evidente come queste tre dimensioni siano soggette a cambiamenti dovuti all’evoluzione sia biologica che psicologica degli individui e che l’interazione tra queste dimensioni sia estremamente complessa.

L’identità è un costrutto dinamico, spesso dolorosamente dinamico, anche in occasione di eventi fisiologici, come nel passaggio dall’infanzia all’adolescenza, dalla giovinezza all’età matura e alla senescenza. Il nostro corpo è in continua evoluzione; finché questo avviene con gradualità, anche la mente trova il modo di adeguarsi, mentre nel caso di cambiamenti radicali e repentini (malattie, incidenti), possono insorgere disagi di intensità variabile da individuo a individuo. Nel caso di una persona obesa che si sottopone a intervento di chirurgia bariatrica, il cambiamento repentino, seppure in positivo, del proprio corpo, richiede da parte della mente un adeguamento che non è sempre altrettanto rapido. E’ importante essere consapevoli di questo aspetto e cercare di prepararsi, perché da questa consapevolezza dipende molto il mantenimento dei risultati dopo l’intervento. Non basta raggiungere il normopeso, occorre diventare una persona normopeso, nel comportamento, nel modo di pensare e di vivere le emozioni. Occorre cioè fare in modo che l’identità psicologica si adegui e si avvicini alla nuova identità fisica e risettare l’immagine mentale che abbiamo del nostro corpo (immagine corporea).

Per dirla con una metafora a tutti familiare, un bruco che diventa farfalla, ma continua a pensare di essere un bruco non può spiccare il volo, non sa di poterlo fare…

Fonti
Faccio E – Le identità corporee, Giunti Ed, 2007
Dalle Grave R, Cuzzolaro M, Calugi S, Tomasi F, Temperilli F, Marchesini G, and the QUOVADIS Study Group. The Effect of Obesity Management on Body Image in Patients Seeking Treatment at Medical Centers. Obesity





Obesità e qualità di vita: prima e dopo 26 agosto 2012
di Rossella Bossa, specialista in psicoterapia comportamentale-cognitiva

“Qualità di vita” è un’espressione attualmente molto utilizzata, anche da persone che non si occupano di problematiche relative alla salute. Se proviamo a darne una definizione ci rendiamo conto che non è semplice, nonostante tale concetto appaia a tutta prima intuitivo. L’OMS, nel 1948, ha definito la qualità di vita correlata alla salute nel seguente modo: “percezione soggettiva che un individuo ha della propria posizione nella vita, nel contesto del sistema culturale e di valori esistente nel luogo in cui egli vive, in relazione agli obiettivi, alle aspettative, agli standard e agli interessi che gli sono propri”. Come si evince da questa definizione, si tratta di un concetto omnicomprensivo, correlato non solo alla salute fisica, ma anche alla condizione psicologica, al livello di autonomia, alle relazioni sociali, ai valori personali e al modo di relazionarsi con le caratteristiche dell’ambiente. Emerge inoltre come questo costrutto sia basato su criteri di valutazione soggettiva del livello di soddisfazione nei diversi ambiti della propria vita.

Il modo in cui valutiamo la qualità della nostra vita varia nel tempo e in reazione agli eventi; ad esempio una malattia cronica cambia completamente i parametri di valutazione della qualità di vita di una persona. Riuscire a essere autonomi nelle piccole attività quotidiane diventa una vera e propria conquista, mentre normalmente lo si considera scontato e dovuto.

La compromissione della qualità di vita è sicuramente una delle più importanti conseguenze negative dell’obesità. Le persone obese valutano la qualità di vita anche dalla possibilità di compiere piccoli gesti quotidiani cui le persone normopeso non fanno caso, come ad esempio riuscire a mettersi calze e scarpe, o prendere in braccio il proprio figlio. E’ una qualità di vita scadente, nelle diverse aree di funzionamento – fisico, psicologico e sociale – prima ancora della preoccupazione per la propria salute, o dell’estetica, a far scattare la molla che spinge a cercare un rimedio efficace e definitivo del problema.

Migliorare la qualità della vita è divenuto un obiettivo sempre più importante nella ricerca clinica e nella promozione della salute ed è un elemento fondamentale di giudizio sull’efficacia delle cure da parte dei pazienti. Tuttavia il miglioramento della qualità di vita non è automatico dopo l’intervento chirurgico, la repentina diminuzione del peso non è di per se sufficiente. Occorre modificare tutte quelle abitudini disadattive, consolidate durante la “carriera” di persone obese, che hanno contribuito a mantenere la patologia, oltre a ridefinire le aspettative del post-intervento riguardo la relazione con il proprio sé e con gli altri.
Quando l’equazione ”corpo magro= piacersi e piacere agli altri” non sembra concretizzarsi, delusione e demoralizzazione sono dietro l’angolo.



Fonte
Molinari, Castelnuovo. Clinica psicologica dell’obesità. Springer Ed, 2012




Autostima e autoefficacia: due ingredienti indispensabili per tagliare il traguardo 24 agosto 2012

di Rossella Bossa, specialista in psicoterapia comportamentale-cognitiva

Cosa è l’autostima?
L’autostima si può definire come la valutazione che un individuo dà a se stesso in diversi ambiti. È in sostanza il voto che ci diamo. Come nelle pagelle, dove si fa la media dei voti delle diverse materie, anche per l’autostima possiamo individuare diversi ambiti della vita nei quali possiamo darci voti diversi, per poi fare una media che corrisponde all’autostima globale. Così possiamo valutare le nostre competenze e abilità in ambito lavorativo, sportivo, come genitori, come figli, la nostra capacità di piacere agli altri e risultare simpatici, la gradevolezza fisica e così via. Nessuno ha un’autostima pienamente armonica in tutti gli ambiti della vita, così possiamo pensare di essere simpatici ma bruttini, intelligenti ma non capaci di fare carriera, dei bravi figli ma non altrettanto bravi genitori e viceversa.

Un elemento fondamentale dell’autostima è anche l’importanza che diamo ai vari ambiti della vita. Ad esempio, possiamo ritenerci validi in ambito professionale, ma pensare che la cosa più importante sia la realizzazione affettiva e familiare, nella quale ci consideriamo scadenti, di conseguenza giudicheremo noi stessi e la nostra qualità di vita comunque in modo negativo. È importante nelle relazioni sociali tenere conto di questo aspetto, tante incomprensioni derivano proprio da questo: a volte non ci sentiamo capiti, oppure siamo portati a provare invidia per una persona che ha un buon funzionamento in un ambito importante per NOI, ma non per lei e non riusciamo a capire il motivo della sua infelicità.

L’autostima può essere definita anche in un altro modo, ovvero come la distanza che avvertiamo tra il Sé ideale e il Sé percepito. L’individuo con autostima sana percepisce realisticamente i propri pregi e difetti e non li valuta in modo ipercritico, ha fiducia in sé e lavora per migliorare le proprie aree di debolezza, ma “si perdona” i propri fallimenti, che considera comunque utili in un percorso di crescita personale. Nella persona con sana autostima quindi, il Sé ideale non è molto distante dal Sé percepito, mentre la persona con problemi di autostima tende ad esagerare gli insuccessi e a considerare i successi di scarsa importanza, oppure tende a valutarsi globalmente in modo negativo dopo un insuccesso in una sola area di funzionamento.

Come si costruisce l’autostima?
E’ un percorso che dura tutta la vita, durante il quale hanno importanza inizialmente i genitori, che possono aiutarci a trovare una strada alternativa in seguito a comportamenti disadattavi o a insuccessi, che rinforzano i nostri successi contribuendo a ritrovare fiducia nelle nostre capacità e nel nostro grado di amabilità.

Crescendo la situazione diventa più complessa in quanto ci si confronta con molte altre persone: parenti, compagni di scuola, amici, insegnanti; il loro consenso, i successi e le delusioni, contribuiranno a plasmare l’immagine mentale di noi stessi. Durante l’adolescenza, caratterizzata dalla tempesta ormonale e da importanti cambiamenti corporei, dai primi amori e dai primi rifiuti, l’autostima può subire forti contraccolpi ed essere messa a dura prova. Non sempre si esce fortificati da queste prove, spesso le esperienze negative possono consolidare in noi l’immagine di una persona che non merita di essere amata, oppure stupida, pur essendo queste convinzioni non corrispondenti alla realtà dei fatti. Tuttavia queste convinzioni generano intensa sofferenza ed influenzano le nostre scelte. Potremo quindi decidere di sposare una persona che non amiamo nella convinzione di non meritare il vero amore, o accontentarci di un lavoro molto inferiore alle nostre capacità nella convinzione di valere poco. Ecco come la nostra autostima può influenzare la qualità della nostra vita.

Quali sono i requisiti di una buona autostima?
Prima di tutto la coscienza del proprio valore e del fatto che questo non può essere cambiato dall’opinione altrui o dagli eventi. Provate a pensare a un biglietto da 100 euro, se anche viene stropicciato, calpestato o strappato, esso varrà sempre 100 euro. Egualmente la vita ci può “stropicciare”, farci sentire schiacciati sotto il peso della sofferenza, ma il nostro valore rimarrà sempre uguale a se stesso. Un altro elemento di fondamentale importanza è la consapevolezza e l’accettazione dei propri limiti, che non significa essere rinunciatari o pigri, ma semplicemente capaci di valutare che cosa veramente possiamo pretendere da noi stessi e fin dove possiamo migliorare. Ad esempio possiamo seguire un corso di musica o di danza, consapevoli del fatto che non diventeremo artisti famosi, ma che, con il massimo impegno, potremo raggiungere delle soddisfazioni. E’ altrettanto importante essere pronti a rischiare di fallire e tollerare la paura di sbagliare, naturalmente dopo avere valutato adeguatamente le probabilità realistica di riuscita di un’azione intrapresa.

L’autoefficacia personale
Per affrontare le situazioni problematiche non basta l’autostima, occorre anche una buona dose di autoefficacia. Con questo termine si intende la fiducia nelle proprie capacità di mobilitare le risorse personali, di tipo cognitivo, emotivo e comportamentale, per raggiungere un determinato obiettivo. Ad esempio intraprendere una dieta, o un corso di studi, presuppone, oltre ad una buona autostima, anche una buona dose di autoefficacia, ovvero di fiducia nella propria capacità di riuscire a seguire il percorso finché non si ottiene l’effetto desiderato. L’autoefficacia personale risponde alla domanda: sarò in grado di farcela? E’ importante attribuire il più possibile a se stessi, non a cause esterne, come il destino o gli altri, la responsabilità di ciò che ci accade. Spesso gli insuccessi, oltre a minare l’autostima, minano il nostro senso di autoefficacia, ci fanno sentire inadeguati, non in grado di portare a termine un determinato progetto. Nelle persone obese si verifica frequentemente un calo di autostima e una perdita del senso di autoefficacia personale durante le diete. Questo è anche uno dei fattori che contribuisce al recupero dei chili persi e al fenomeno dello “Yo-Yo”. Dopo un intervento di chirurgia bariatrica si attraversa una fase di grande vulnerabilità psicologica, perché da molti è vissuto come “l’ultima spiaggia”. Ciò che mette l’autostima in bilico è soprattutto l’aspettativa irrealistica di una cospicua e definitiva perdita di peso senza sforzi e in poco tempo, ma anche attribuire solo al peso il proprio valore personale. Gli specialisti vi metteranno sicuramente in guardia da questa illusione, ma anche le vostre testimonianze dimostrano l’importanza di non assumere questo atteggiamento. Il vostro senso di autoefficacia vi aiuterà a tagliare il traguardo e a mantenere i risultati ottenuti.



Fonte
Giannantonio M – Mi vado bene? Erickson Ed, 2009




La famiglia, gli amici, il supporto sociale 24 agosto 2012

di Rossella Bossa, specialista in psicoterapia comportamentale-cognitiva

Come sarebbe la nostra vita senza le persone che amiamo? Una vita di pessima qualità. Tutti sperimentiamo ogni giorno l’importanza della famiglia e degli amici nella nostra vita; sono importanti perché le conquiste e le gioie sono più intense se condivise, perché avere qualcuno che fa il tifo per noi ci fa sentire più coraggiosi nell’affrontare le avversità, contribuendo ad aumentare il nostro senso di autoefficacia personale. Anche dalle vostre testimonianze, seppure dolorose, emerge sempre qualche figura di particolare importanza nel vostro percorso, qualcuno a cui sarete sempre grati, perché vi ha sostenuto e ha creduto in voi. Il Forum “Amici Obesi” è un esempio di come il supporto sociale e relazionale sia importante quando si affrontano cure impegnative. La solitudine è una cattiva compagna e fa male alla salute, non solo in termini di qualità di vita, ma anche di aspettativa. Una recente e interessante pubblicazione scientifica ha evidenziato che la mancanza di relazioni sociali può ridurre l’aspettativa di vita come il fumo di sigaretta, l’alcool, ma anche l’obesità e la vita sedentaria, senza nulla togliere a questi noti fattori di rischio. E’ un’affermazione che dà da riflettere, quando si pensa all’adozione di uno stile di vita salutare per il proprio benessere.

Anche le relazioni sociali, così come l’autostima o la relazione con il proprio corpo, non migliorano automaticamente con la perdita di peso, ma necessitano di un impegno continuo. L’obesità è in parte responsabile di una vita socio-relazionale insoddisfacente, la quale, a sua volta, influisce negativamente sul peso, in quanto favorisce l’isolamento e la rinuncia a tante iniziative, instaurando così un circolo vizioso negativo che mantiene un comportamento caratterizzato dal “muoversi poco” in senso generale e più ampio del termine. Dopo l’intervento, alcuni aspetti della vita relazionale migliorano di conseguenza, come quelli legati alla discriminazione e allo stigma. Quella colpevolizzazione che si leggeva negli sguardi di tante persone lascia il posto spesso a stima e ammirazione. Tuttavia si scopre ben presto che non è così facile “vivere da magri”, prova ne sia che anche le persone normopeso possono avere una scarsa autostima, relazioni interpersonali insoddisfacenti, sentirsi falliti, soffrire di depressione. Questo accade perché in fondo tutti commettiamo un po’ lo stesso errore: pensare che la felicità si possa raggiungere “se soltanto… si raggiungerà il normopeso, se soltanto si troverà il lavoro che ci piace, o si troverà l’uomo o la donna giusti.” Lasciamo quindi la nostra vita “in attesa”, e anche per questo, un po’ tutti, viviamo una vita a metà, senza impegnarci in ciò che per noi è veramente importante. Qualche volta la vita ci offre una grande occasione: quella di realizzare il “se soltanto” e verificare che cosa veramente è importante per noi, come accade alle persone obese dopo l’intervento. Non ci sono più scuse o giustificazioni e i nodi vengono al pettine. Soprattutto nelle relazioni con i familiari, perché il focus non è più solo il corpo, ma la persona nella sua globalità.

In particolare nella vita di coppia possono emergere conflitti e problematiche che erano rimasti sepolti sotto il grasso, come ad esempio la gelosia. Il partner obeso che perde peso acquisisce una nuova autonomia e l’altro perde il controllo della relazione. Se entrambi i membri della coppia sono obesi e uno solo dei due perde peso, l’altro lo vive quasi come un tradimento, vengono a meno complicità, condivisione di sentimenti ed emozioni legati alla relazione con il cibo e il legame si allenta. Più in generale, la persona obesa che riesce nel suo intento di perdere peso, si libera non solo dei chili di troppo, ma di un fardello molto più pesante a livello emozionale. Quando si impara a mangiare per nutrirsi, non si è più disposti ad ingoiare tanti bocconi amari che prima ci si sentiva costretti ad ingoiare per essere accettati, il desiderio di compiacere lascia il posto al desiderio di piacersi, di essere liberi di dire qualche NO senza sentirsi in colpa (Vai alla carta dei diritti).



Fonte
Julianne Holt-Lunstad et al – Social Relationships and Mortality Risk: a meta-analytic Review. 2010. PLoS Medicine




Migliorare le relazioni con l’assertività 23 agosto 2012

di Rossella Bossa, specialista in psicoterapia comportamentale-cognitiva

Perché occuparsi dell’assertività? Ad esempio per uno di questi motivi:

Ti senti sfiduciato, afflitto e incapace di portare a termine qualunque cosa: un compito, una relazione affettiva, un obiettivo?
Devi sforzarti per esprimerti e far sentire la tua opinione?
E’ difficile per te far sapere agli altri quali sono i tuoi reali desideri?
Ti fai trascinare dagli altri e non prendi mai tu l’iniziativa?
Ti senti “l’ultima ruota del carro”?
Vuoi sempre averla vinta a tutti i costi?

Forse sei poco assertivo. Ma cosa significa assertività?
E’ un termine che deriva dall’anglosassone “assertiveness” e consiste nella capacità dell’individuo di riconoscere i propri bisogni, sentimenti, desideri, diritti, cercando di affermarli all’interno del contesto in cui è inserito, senza essere passivo ma senza prevaricare, mantenendo buone relazioni con gli altri attraverso una comunicazione chiara, diretta e al tempo stesso coerente e completa, sia sul piano verbale sia su quello non verbale.

L’assertività è una competenza relazionale che influenza profondamente le relazioni interpersonali. E’ uno stile comunicativo che si pone come alternativa adattiva agli stili passivo e aggressivo. Lo stile passivo è caratterizzato dalla tendenza al ritiro sociale o dalla dipendenza, ne è un esempio colui che antepone i bisogni e le esigenze altrui alle proprie, che ha difficoltà ad esprimere il proprio punto di vista, specie se in contrasto con quello degli altri, tende a rimanere in disparte per evitare conflittualità o il rischio di complicazioni e disagio. Il soggetto aggressivo tende invece ad essere invadente, a prevaricare gli altri e ad anteporre le proprie esigenze a quelle altrui, così facendo riesce ad ottenere in genere ciò che vuole, ma a scapito dell’adeguatezza delle relazioni. E’ difficile essere assertivi sempre; ognuno di noi può adottare uno stile differente a seconda della situazione. Quante volte siamo noi stessi ad ammettere di essere stati aggressivi con una persona più remissiva, che sappiamo accetta tutto di noi, mentre tendiamo a comportarci in modo passivo con persone autorevoli verso le quali proviamo soggezione, oppure quando desideriamo l’approvazione/accettazione di qualcuno a tutti i costi.

Passività e aggressività si possono sostanzialmente considerare due facce della stessa medaglia, le persone che adottano questi stili comunicativi non sono mai in una situazione di equilibrio. Immaginiamo ad esempio una persona che ha subito molti torti (ha sempre subito passivamente i comportamenti altrui); ad un certo momento potrebbe avere una reazione di rabbia e virare verso una risposta aggressiva e non controllata, che si rivelerà in ogni caso perdente.

La comunicazione assertiva diventa una vera e propria filosofia di vita, che ha come fulcro un sano rispetto di sé. La persona assertiva è disposta a mettersi in discussione e si pone in relazione cooperativa con l’altro, non sentendosi attaccata ma contando su una solida autostima anche dinnanzi alle incomprensioni e alle difficoltà.

Gli studiosi sono concordi nell’identificare gli elementi principali che costituiscono l’assertività:

la difesa dei propri diritti (vai alla scheda dei diritti)
la capacità di esprimere i propri sentimenti
l’iniziativa
l’indipendenza
la capacità di interazione sociale

Ostacoli al comportamento assertivo
Alcuni schemi di pensiero disfunzionale ostacolano il comportamento assertivo. Ecco alcuni esempi, noti modi di dire, che condizionano i nostri comportamenti e la relazione con gli altri:

la miglior difesa è l’attacco
bisogna mostrarsi forti altrimenti gli altri se ne approfittano
chi fa da se fa per tre
tanto è tutto inutile…

Idee che stimolano un comportamento assertivo:

Posso migliorare
Si può imparare dai propri sbagli
Sono responsabile del mio comportamento
Posso chiedere aiuto

Per migliorare la vostra assertività potete affidarvi a un esperto nella conduzione di training assertivi, tuttavia non sempre è necessario un approccio così specifico e approfondito, può essere utile anche leggere un libro ed esercitarsi (Vai al questionario per la valutazione dell’assertività).



Fonte
Meneghelli A – Assertività e training assertivo. F Angeli
Anchisi R – Non solo comunicare. Ed Cortina
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La “tavolozza” delle emozioni

Messaggioda La Musica del Vento » 06/01/2016, 20:15



La felicità e la gioia per quanto simili, sono due emozioni distinte: la gioia è di durata breve mentre la felicità può durare per un certo periodo, anche mesi. E aggiungo anche che la felicità, essendo più uno stato d'animo (come la tristezza) non esclude gli altri sentimenti o emozioni. (Proviamo a pensare alla felicità: se la definiamo come “assenza di sofferenza” è un po’ come definire la salute “assenza di malattia”. )
Ricordiamo che le emozioni negative, come la paura, la rabbia, la colpa, la vergogna, la tristezza, vengono considerate negative perché lo stato d’animo percepito è spiacevole, ma non sono da considerare negative in senso assoluto, anzi spesso hanno un significato funzionale positivo. L’importante è capire perché proviamo quell’emozione, ma soprattutto a cosa ci può servire. Non lo sapremo mai se non ascoltiamo ciò che proviamo.

Per dirla con una metafora a tutti familiare, un bruco che diventa farfalla, ma continua a pensare di essere un bruco non può spiccare il volo, non sa di poterlo fare… Bellissima frase.

Anche le relazioni sociali, così come l’autostima o la relazione con il proprio corpo, non migliorano automaticamente con la perdita di peso, ma necessitano di un impegno continuo. Verissimo.
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