Se un tempo "mangiare" nascondeva solo due incognite: trovare il cibo e non divenire cibo per altri, oggi ne contiene di così imperscrutabili che la nostra identità rischia di naufragare di fronte a ogni offerta di cibo. Si verifica una scissione tra l'Io e il corpo, una presa di distanza, una mancata coincidenza, come se il corpo fosse una soggettività altra che, avendo il potere di rappresentarci, deve essere confezionata secondo modalità che non rispondono alle sue esigenze né ai meccanismi della sua regolazione fisiologica, ma a quell'ideale dell'Io che vuole vedersi rispecchiato fedelmente nel corpo che lo esprime
di Umberto Galimberti
Il cibo spegne. Spegne il vuoto che senti, l'angoscia che ti invade. Entra e, per un attimo, c'è, lo senti, è lì con te, dentro. Ti riempie la pancia e i pensieri, è la fuga da te, dall'incapacità di arginare certe sensazioni, certi dolori, certe ansie. Pensi di avere tutto sempre sotto controllo. Ti sembra di avere capito. Invece c'è questo mostro dentro che quando arriva ti cattura e ti senti preda e allo stesso tempo cacciatore di te stesso. Vorresti poter gridare basta, basta a tutti, ma non riesci, neanche alle tue mani. Si perde il contatto col corpo che scivola via, lontano, da una parte l'anima ferita e nuda, dall'altra il corpo punito e reietto. Il cibo diventa ossessione, amore folle. È un rapporto segreto, trasgressivo, passionale, esclusivo, è un atto impuro il cui seme è il senso di colpa. Il tuo corpo non dimentica, ti restituisce le tue ferite, ti rende sempre più visibile. E allora si vomita. Si vomita il peccato, l'impotenza, la paura, la solitudine, ma il vuoto non esce. Tiziana - Roma Fosse solo una questione di ingombro! Invece nelle dimensioni del nostro corpo si agitano i più profondi, perché i più primitivi, problemi dell'anima. Problemi banalizzati, ritenuti frivoli, spesso liquidati da un'esortazione inutile o da un sorriso benevolo, mentre, come drammaticamente ci ricorda Tiziana, l'atto apparentemente più elementare che ci sia, l'atto di mangiare, diventa un rivelatore della nostra identità, del suo benessere o della sua angoscia segreta. Se è vero infatti che nei primi anni di vita dobbiamo risolvere fondamentalmente tre dilemmi: 1 - esisto o non esisto; 2 - sono uno o sono una moltitudine; 3 - sono maschio o sono femmina; ebbene, il problema alimentare investe l'indecisione sul primo tema e l'ansia connessa a una scelta dalla quale chi ha disturbi alimentari fugge con sofisticate strategie che ingannano sia il biologo (ingrassando apparentemente senza mangiare, o dimagrendo anche quando non c'è sosta nell'assunzione di cibo), sia il terapeuta a cui gli obesi dichiarano di non aver nulla da dire e lo comunicano attraverso un intricato circuito di falsi discorsi in cui confidano la loro disperazione con giovialità e la loro strategia di poter divorare quello che vogliono senza ingrassare. Ma la posta in gioco non è tanto dimagrire o riconciliarsi con il cibo, ma esistere. E la persona che mangia per esistere e che vuol dimagrire per la stessa ragione cammina sul filo del rasoio. Quando il cibo, da soddisfazione alimentare, diventa una prova d'esistenza, allora si incarica il cibo di tenere un altro discorso che non gli compete e per il quale non dispone delle parole. Per questo le tecniche e le diete naufragano. In gioco non è la gola, ma l'insicurezza circa la propria esistenza, che non ha trovato dove ancorarsi. Nel momento stesso in cui una persona è in preda a una crisi bulimica, esiste. Le sensazioni violente provocate dall'assunzione di cibo consentono a un'esistenza evanescente di recuperare sostanza e di riempirsi di gioia, certamente breve, ma intensa, selvaggia, essenziale. Con il cibo si combatte l'angoscia del niente e si ripara il vuoto esistenziale, ristabilendo il contatto con i propri punti di riferimento corporeo. In un certo senso, come tutte le malattie, anche la bulimia, come per altro l'anoressia che è il suo rovescio, hanno un ruolo funzionale, anzi terapeutico: ci si ammala un po', per non morire. Ma neanche il rifugio nella malattia trova adeguati sostegni in una società che attribuisce un'importanza decisiva all'immagine estetica con cui ciascuno si presenta agli altri sapendo di essere molto spesso giudicato esclusivamente in base a tale immagine. Quando questa immagine non corrisponde ai canoni di bellezza diffusi nella società, l'obesità si trasforma in un modello negativo di personalità e l'esistenza, guadagnata con il cibo, naufraga sconfitta nella relazione sociale. Per non parlare poi dei contorcimenti mentali che nascono dallo scontro tra i propri incerti vissuti esistenziali e i modelli di esistenza riuscita proposti dai media. Se ad esempio per essere sessualmente desiderabili è necessario essere magri e snelli, sarà sufficiente ingrassare per difendersi dalla sessualità. E allora, altro che palestre, ginnastiche, diete e body-building. La paura di esistere, e di esistere come essere sessuati, non si cura con l'esercizio fisico né con il contenimento alimentare. Mettendo alla prova se stessi in modo continuo e ripetitivo, controllando con la bilancia la misura delle prestazioni effettuate e dei risultati raggiunti, realizzando comportamenti coatti che poco hanno a che fare con la salute del corpo, ci si attorciglia in una spirale di autopunizione, dove più non si riconosce chi punisce e chi è punito. L'obesità, come l'anoressia, non sono un inconveniente da cui ci si salva dimagrendo o ingrassando, sono una ferita dell'esistenza a cui ginnastiche e diete non pongono rimedio, con buona pace di quanti trafficano e speculano sulle dimensioni del nostro corpo. Cara Tiziana, dalla sua lettera appare che queste cose lei le sa. E se adesso il gioco si è fatto pesante, provi a pensare di smettere di giocare con il suo corpo, e portare il problema là dove davvero è, non certo nelle prossimità del frigorifero.
FONTE: d.repubblica.it