Schizofrenia
I fattori genetici giocano un ruolo molto importante nello sviluppo della schizofrenia.Tuttavia, come accade per quasi tutti i disturbi psichiatrici, non si tratta di una chiara modalità di trasmissione di tipo mendeliano. È probabile che vi sia una certa eterogeneità genetica - in altre parole, è probabile che i geni difettivi coinvolti siano più di uno e che diversi quadri genetici sottendano il disturbo. Anche fattori ambientali sembrano essere coinvolti nello sviluppo della schizofrenia, sebbene non vi sia ancora un consenso sulla natura specifica di questi insulti. Tra i possibili fattori vi sono danni perinatali, infezioni virali durante la gestazione, problemi di perfusione ematica intrauterina, fattori legati alla dieta, incidenti evolutivi e certi tipi di traumi infantili. Nessuna delle scoperte della ricerca biologica attenua però l'impatto di uri fatto irriducibile - la schizofrenia è una malattia che colpisce una persona con una particolare configurazione psicologica. Anche se i fattori genetici fossero responsabili del 100 per cento dell'eziologia della schizofrenia, i clinici si troverebbero sempre di fronte a un individuo dinamicamente complesso che reagisce a una malattia profondamente disturbante. Sofisticati approcci psicodinamici alla gestione del paziente schizofrenico saranno sempre una componente essenziale dell'armamentario terapeutico del clinico. Probabilmente non più del 10 per cento dei pazienti schizofrenici è in grado di rispondere adeguatamente a un approccio terapeutico che consista solamente di farmaci antipsicotici e di un breve ricovero. I1 rimanente 90 per cento necessita di approcci terapeutici dinamicamente orientati, che includono una farmacoterapia psicodinamica, una terapia individuale, una terapia di gruppo, approcci familiari e un trattamento ospedaliero psicodinamicamente orientato come ingredienti cruciali per una gestione efficace della loro malattia. Non esiste una cosa come il trattamento della schizofrenia. Tutti gli interventi terapeutici devono essere confezionati su misura per i bisogni specifici di ciascun paziente. La schizofrenia è una malattia eterogenea, con manifestazioni cliniche proteiformi. Un'utile strutturazione della sintomatologia descrittiva del disturbo è la suddivisione in tre raggruppamenti: 1) sintomi positivi, 2) sintomi negativi, 3) relazioni personali disturbate (Andreasen et al., 1982; Keith, Matthews, 1984; Munich et al., 1985; Strauss et al., 1974). Proposto per la prima volta da Strauss e collaboratori (1974), questo modello individua tre distinti processi psicopatologici riscontrati nei pazienti schizofrenici. I sintomi positivi comprendono i disturbi del contenuto del pensiero (come i deliri), i disturbi di percezione (come le allucinazioni) e le manifestazioni comportamentali (come la catatonia e l'agitazione) che si sviluppano in breve tempo e sono spesso accompagnate da un episodio psicotico acuto. Mentre i sintomi positivi floridi costituiscono un'innegabile "presenza", i sintomi negativi della schizofrenia possono essere caratterizzati come un “assenza" di funzioni. Questi sintomi negativi comprendono un'affettività coartata, povertà di pensiero, apatia e anedonia. Carpenter e collaboratori (1988) hanno suggerito un'ulteriore distinzione dei sintomi negativi. Essi hanno evidenziato come certe forme di ritiro sociale, affettività appiattita e apparente impoverimento del pensiero possano essere in realtà secondarie ad ansia, depressione, deprivazione ambientale o all'effetto di sostanze psicotrope. Queste manifestazioni non dovrebbero pertanto essere etichettate come sintomi negativi in quanto sono secondarie e di breve durata. Carpenter e collaboratori hanno proposto la definizione sindrome da deficit per indicare sintomi negativi chiaramente primari che persistono nel tempo. Anche la durata dei sintomi negativi è prognosticamente significativa. Mentre una volta si riteneva che la loro presenza implicasse una prognosi peggiore, recenti ricerche suggeriscono che i sintomi negativi sono predittori affidabili di esito sfavorevole soltanto quando persistono al di là della fase iniziale della malattia. Come i sintomi negativi, le relazioni personali disturbate tendono a svilupparsi in un notevole arco di tempo. Manifestazioni preminenti di relazioni interpersonali disturbate comprendono il ritiro, l'espressione inadeguata dell'aggressività e della sessualità, la mancanza di consapevolezza dei bisogni altrui, le pretese eccessive e l'incapacità di avere un contatto significativo con altre persone. In effetti tutte e tre le categorie si sovrappongono ampiamente, e lo stesso paziente schizofrenico può spostarsi, nel corso della malattia, da un gruppo a un altro. 179-81 Sono stati proposti molti modelli psicodinamici per aiutare i clinici nella comprensione del processo schizofrenico. La controversia tra il modello del conflitto rispetto a quello del deficit (descritta nel cap. 2) è un tratto preminente nelle discussioni sulle teorie della schizofrenia. Lo stesso Freud vacillò tra un modello del conflitto e un modello del deficit per la schizofrenia a mano a mano che le sue concettualizzazioní evolvevano (Arlow, Brenner, 1969; Grotstein, 1977a, b; London, 1973a, b; Pao, 1973). Gran parte della concettualizzazione freudiana (1910, 1914, 1915, 1923, 1924) si sviluppò a partire dalla sua nozione di cathexis (carica, investimento energetico) con la quale indicava la quantità di energia legata a qualunque struttura intrapsichica o rappresentazione oggettuale. Egli era convinto che la schizofrenia fosse caratterizzata dal disinvestimento energetico (decathexas) degli oggetti. A volte utilizzò questo concetto di disinvestimento per descrivere il distacco di investimento emotivo o libidico dalle rappresentazioni oggettuali intrapsichiche, mentre altre volte lo utilizzò per descrivere il ritiro sociale da parte delle persone reali dell'ambiente circostante (London, 1973a). Freud definì la schizofrenia come una regressione in risposta a un'íntensa frustrazione e al conflitto con altre persone. Tale regressione dalle relazioni oggettuali a uno stadio evolutivo autoerotico avveniva parallelamente a un ritiro di investimento emotivo dalle rappresentazioni oggettuali e dalle figure esterne, spiegando così la comparsa del ritiro autistico nei pazienti schizofrenici. Freud postulò allora che la carica energetica disinvestita fosse reinvestita sul Sé o sull'Io (1914). Dopo aver elaborato il modello strutturale, modificò, di conseguenza, la propria concezione della psicosi (1923, 1924). Mentre riteneva la nevrosi un conflitto tra l'Io e 1'Es, considerava la psicosi un conflitto tra l'Io e il mondo esterno. La psicosi comportava un disconoscimento e un conseguente rimodellamento della realtà. Nonostante tale revisione, Freud continuò a parlare del ritiro dell'investimento di energia e del suo reinvestimento nell'Io. Harry Stack Sullivan riteneva innanzi tutto che 1'eziología del disturbo fosse da rintracciare in precoci difficoltà interpersonali (soprattutto nel rapporto bambino-genitori), e concettualizzò il trattamento come un processo interpersonale a lungo termine, che tentava di individuare quelle problematiche precoci. Inadeguate cure materne, secondo Sullivan (1962), determinano nel neonato un Sé carico d'angoscia e impediscono al bambino di ricevere soddisfazione per i suoi bisogni. Questo aspetto dell'esperienza-di sé viene poi dissociato, ma il danno alla stima di sé rimane profondo. L'esordio della malattia schizofrenica, nella concezione di Sullivan, consiste in una rinascita del Sé dissociato, che porta a uno stato di panico e quindi alla disorganizzazione psicotica. Sullivan ritenne che vi fosse sempre, anche negli schizofrenici più ritirati, una capacità di rapporto interpersonale. Il suo lavoro pionieristico con pazienti schizofrenici venne portato avanti dalla sua allieva, Frieda Fromm-Reichmann (1950), la quale evidenziò come i soggetti schizofrenici non siano felici nel loro stato di ritiro. Sono persone fondamentalmente sole, che non riescono a superare la loro paura e la loro sfiducia verso gli altri a causa delle esperienze avverse vissute precocemente. Mentre Sullivan e collaboratori stavano sviluppando le loro teorie interpersonali, i primi psicologi dell'Io osservarono come un difettoso confine dell'Io sia uno dei deficit principali nei pazienti schizofrenici. Federn (1952) dissentiva dall'affermazione di Freud secondo cui nella schizofrenia vi è un ritiro dell'investimento oggettuale. Al contrario, Federn sottolineò il ritiro di investimento energetico rispetto ai confini dell'Io. Egli notò che i pazienti schizofrenici sono caratteristicamente privi di barriera tra quello che è dentro e quello che è fuori, perché il confine del loro lo non è psicologicamente investito (come invece è nei pazienti nevrotici). I bambini che finiscono per sviluppare una schizofrenia hanno un'avversione per le relazioni oggettuali che rende difficile il legame. L'ipersensibilità agli stimoli e le difficoltà di concentrazione e di attenzione sono tratti comuni della personalità preschizofrenica. Recenti ricerche hanno suggerito che diffuse perdite, a livello di determinate aree, del normale filtro sensoriale nel sistema nervoso centrale possono essere caratteristiche della schizofrenia (Freedman et al., 1996; Judd et al., 1992), cosicché i pazienti trovano difficile schermare gli stimoli irrilevanti e avvertono una sensazione cronica di sovraccarico del sensorio. In un'esaustiva sintesi della letteratura, Olin e Mednick (1996) hanno identificato caratteristiche premorbose che sembrano costituire marker di rischio per una futura psicosi. Queste caratteristiche rientrano in due categorie: 1) fattori eziologici precoci, tra cui una storia familiare di schizofrenia, complicazioni perinatali, esposizione della madre a virus influenzale durante la gravidanza, deficit neurocomportamentali, separazione dei genitori nel corso del primo anno di vita, disfunzioni familiari e crescita all'interno di un'istituzione; 2) precursori comportamentali e sociali di malattia mentale, identificati da clinici e insegnanti, e variabili di personalità rivelate da interviste e questionari. In altre parole, si verifica un'interazione tra vulnerabilità genetica, caratteristiche ambientali e tratti individuali. una comprensione psicodinamica è importante per la terapia della schizofrenia, a prescindere dalla sua eziologia. Alcuni temi sono comuni a molte delle teorie psicodinamiche che influenzano l'approccio clinico al paziente. Innanzi tutto, i sintomi psicotici hanno un significato (Karon, 1992). Le allucinazioni o i deliri di grandezza, ad esempio, compaiono spesso immediatamente dopo un affronto alla stima di sé del paziente schizofrenico. Il contenuto grandioso del pensiero o della percezione rappresenta il tentativo del paziente di compensare la ferita narcisistica. Un secondo concetto comune è che le relazioni interpersonali sono fonte di terrore per questi pazienti. Le intense ansie correlate al contatto con gli altri sono evidenti anche se non è possibile esplicitarne chiaramente le cause. I timori sull'integrità dei confini dell'Io e la paura della fusione con gli altri rappresentano un problema di intensità crescente, che è spesso risolto con l'isolamento. La relazione terapeutica rappresenta per il paziente una sfida a essere capace di credere che dalla sua relazione con gli altri non deriverà una catastrofe. Infine, un terzo punto comune riguarda la convinzione di tutti gli autori di orientamento psicodinamico che relazioni terapeutiche psicodinamiche con clinici sensibili possano fondamentalmente migliorare la qualità della vita dei pazienti schizofrenici. In uno studio condotto su pazienti in completa remissione (Rund, 1990), 1'80 per cento aveva fruito di una psicoterapia a lungo termine attribuendovi una grande importanza. Anche quando non veniva raggiunta una completa remissione, la relazione terapeutíca poteva considerarsi di straordinaria rilevanza nell'adattamento globale del paziente alla vita. 181-5 Studi di controllo ben progettati hanno ampiamente dimostrato che i farmaci antipsicotici sono altamente efficaci nel trattamento dei sintomi positivi della schizofrenia. L'accessibilità del paziente schizofrenico a tutte le altre forme di intervento terapeutico viene notevolmente accresciuta da un uso giudizioso di neurolettici. Keith e Matthews (1984) hanno addirittura affermato che la "libertà dai sintomi positivi è quasi una conditio sine qua non per i trattamenti psicosociali".I sintomi negativi e le relazioni interpersonali disturbate, tuttavia, sono molto meno influenzati dai farmaci e richiedono pertanto approcci di tipo psicosociale. Sembra che alcuni dei nuovi agenti antipsicotici atipici (come la clozapina, il risperidone e 1'olanzapina) abbiano un impatto migliore sulla costellazione dei sintomi negativi. I nuovi antipsicotici atipici che sono diventati di ampio utilizzo nell'ultima decade hanno rivoluzionato la terapia della schizofrenia. Questi agenti, fra i quali il risperidone, la clozapina, l'olanzapina, la quetiapina e il ziprasidone, sono efficaci almeno come i comuni farmaci antipsicotici rispetto ai sintomi positivi, mentre sono più efficaci rispetto agli antipsicotici convenzionali nei confronti dei sintomi negativi. Inoltre questi farmaci spesso evitano ai pazienti tutta una serie di fastidiosi effetti collaterali, così che essi sono maggiormente disposti ad assumere la terapia e a partecipare ai trattamenti psicosociali. Si è riscontrato che trattamenti con risperidone esercitano un effetto più favorevole sulla memoria di lavoro verbale rispetto a terapie con un agente antipsicotico convenzionale, rendendo così la collaborazione in un trattamento psicoterapeutico o psicosociale qualcosa di più di una possibilità (Green et al., 1997). L'avvento degli antipsicotici atipici si è tradotto in nuove sfide psicoterapeutiche per il clinico. Alcuni pazienti cronicamente ammalati da molti, molti anni a causa di una mancata risposta ai farmaci tradizionali si sono improvvisamente ritrovati in una condizione di remissione. Alcuni osservatori (Degen, Nasper, 1996; Duckworth et al., 1997) hanno paragonato queste drammatiche remissioni a ciò che Oliver Sacks (1973) ha descritto come "risvegli". La psicosi può assolvere una funzione difensiva per molti pazienti, così che possono evitare di confrontarsi con le incertezze delle relazioni, le complessità delle situazioni lavorative e il significato dell'esistenza. La totalità dell'identità dell'individuo può essere assorbita dalla consapevolezza di avere una malattia cronica. Quando si realizza finalmente una remissione dei sintomi, si verifica spesso un processo di lutto correlato a ciò che è stato perduto e alla sensazione sconcertante di non sapere chi si è in uno stato mentale non psicotico. Come hanno notato Degen e Nasper (1996), "nonostante il miglioramento inequivocabile, per alcuni individui l'improvvisa assenza di sintomi diventa come minimo altrettanto dolorosa della psicosi". L'intervento psicoterapeutico può aiutare il paziente a integrare il vecchio e il nuovo Sé. I pazienti con psicosi cronica possono anche essere stati al riparo dai rischi dell'intimità. La remissione dei sintomi psicotici rende possibili, per la prima volta dopo molti anni, coinvolgimenti romantici e sessuali. Di fronte a questa prospettiva diversi pazienti possono provare un'ansia molto intensa. I rischi di perdita e di rifiuto che vi sono connessi devono essere affrontati allorché questi pazienti cominciano ad avvicinarsi agli altri (Duckworth et al., 1997). Infine, l'emergere dalla psicosí può esporre i pazienti a una crisi esistenziale sullo scopo e il significato della vita. Riconoscono che una buona porzione della loro vita è stata perduta a causa della malattia cronica e sono ora obbligati a ridefinire i loro valori personali e spirituali. Quelli che entrano a far parte del mondo del lavoro devono confrontarsi con l'integrazione del significato del lavoro in un senso di scopo e identità personale dopo essere stati incapaci di svolgere un'attività professionale per un lungo periodo di tempo. Oltre che di training per lo sviluppo delle competenze, di riabilitazione e di interventi di altro tipo, i pazienti che rispondono bene agli antipsicotici atipici hanno anche bisogno di una relazione umana di sostegno nella quale poter esplorare questi adattamenti. 185-7 Dopo che i sintomi del paziente si sono stabilizzati, la sfida principale per il terapeuta è quella di cominciare a costruire un'alleanza terapeutica. A causa della mancanza di insight di questi pazienti nei confronti della loro malattia, questo è spesso un compito particolarmente difficile. Ne deriva che i terapeuti devono essere creativi nell'individuare una certa base comune. Selzer e Carsky (1990) hanno sottolineato l'importanza di trovare un oggetto organizzatore - una persona, un'idea o un oggetto - che consenta al paziente e al terapeuta di parlare di ciò che accade tra loro. In questa fase iniziale della terapia i pazienti spesso non sono in grado di riconoscere che sono malati e hanno bisogno di cure, e 1'obiettivo principale deve essere quello di stabilire una relazione. Per esempio, Frese (1997) mette in guardia i clinici affinché evitino di sfidare le convinzioni deliranti dei pazienti. Egli sottolinea il fatto che quando i pazienti hanno convinzioni deliranti, danno per scontato che siano vere anche se messi di fronte all'evidenza del contrario. Frese, che ha sofferto di schizofrenia per molti anni mentre portava avanti una carriera di successo come psicologo, consiglia ai clinici di pensare ai pazienti come se essi parlassero in modo poetico e metaforico. Egli suggerisce che è utile aiutare i pazienti a vedere come gli altri considerano le loro convinzioni, così che imparino a evitare azioni che possono essere causa di un loro ricovero in un reparto psichiatrico. Alleandosi con il bisogno del paziente di evitare un'ospedalizzazione, il terapeuta può conquistare la sua collaborazione e la sua disponibilità a partecipare agli altri momenti del piano terapeutico, come quello della farmacoterapia. Gran parte del lavoro iniziale dovrà essere direttivo e finalizzato a riparare i deficit del paziente che impediscono lo sviluppo di un'alleanza terapeutica (Selzer, 1983; Selzer, Carsky,1990; Selzer et al., 1989). Il lavoro dedicato alla costruzione di un'alleanza può venire in seguito ricompensato. Quando Frank e Gunderson (1990) esaminarono il ruolo dell'alleanza terapeutica rispetto al decorso e all'esito dei 143 pazienti schizofrenici coinvolti nello studio di Boston, scoprirono che tale fattore costituiva un indice predittivo importante di successo della terapia. 1 pazienti che formavano una buona alleanza terapeutica con i loro psicoterapeuti restavano in psicoterapia, assumevano i farmaci prescritti e riuscivano a raggiungere migliori risultati alla fine dei due anni con maggiore probabilità. Lo sviluppo di un'alleanza terapeutica può essere facilitato anche supportando e ristabilendo le difese del paziente, focalizzandosi sulle sue risorse e cercando di fornirgli un rifugio sicuro. McGlashan e Keats (1989) hanno sottolineato come la psicoterapia debba soprattutto offrire asilo. Sentimenti e pensieri che gli altri non comprendono vengono accettati dallo psicoterapeuta. Analogamente, il ritiro o il comportamento bizzarro sono accolti e compresi senza che al paziente venga in alcun modo richiesto di cambiare per essere accettabile. Gran parte di questo aspetto della tecnica consiste nell'"essere con" (McGlashan, Keats, 1989, p. 159), ovvero nella disponibilità a stare costantemente in compagnia di un altro essere umano senza fare richieste inopportune. Come ha osservato Karon (1992), il terrore è l'affetto primario del paziente schizofrenico. I terapeuti devono essere in grado di accettare i sentimenti di terrore nel momento in cui vengono proiettati al loro interno, ed evitare di ritirarsi e di essere sopraffatti di fronte al potere di questi stati affettivi. Quando l'alleanza diviene più solida, il terapeuta può cominciare a identificare i fattori individuo-specifici che favoriscono l'insorgenza di recidive, e aiutare il paziente ad accettare il fatto di essere affetto da una malattia grave. Il terapeuta deve anche fungere da lo ausiliario per il paziente. Quando si evidenziano profonde debolezze dell'Io, come una ridotta capacità di critica, il terapeuta può aiutare il paziente ad anticipare le conseguenze delle sue azioni. II terapeuta deve cercare di essere schietto e aperto con il paziente. Se nella relazione terapeutica tutti i sentimenti negativi vengono negati e scissi, il paziente sentirà il terapeuta come irreale. Inoltre, l'apparente capacità del terapeuta di trascendere tutti i sentimenti di rabbia, noia, odio e frustrazione accrescerà semplicemente l'invidia del paziente nei suoi confronti (Searles, 1967). Questo atteggiamento non implica che il terapeuta debba aprirsi eccessivamente; egli può però decidere di condividere temi di interesse personale con il paziente e può voler convalidare la percezione che il paziente ha di sentimenti come irritazione, tristezza, noia e altre sensazioni sgradevoli. Il terapeuta deve prestare una particolare attenzione a eventuali deficit. Alcuni pazienti avranno limitazioni neurocognitive sostanziali, che il terapeuta può evidenziare con cautela. Allorché questi deficit saranno identificati, il terapeuta potrà anche decidere di indicare al paziente possibili strategie per compensarli, affinché il paziente non si senta disperato a causa loro. Per esempio, nel discutere le allucinazioni di un paziente, il terapeuta può cercare di esplorare la qualità idiosínerasica della percezione. Potrebbero essere fatte domande del tipo: "C'è qualcun altro che può ascoltare ciò che le viene detto?" e il terapeuta potrebbe approfondire le convinzioni che il paziente ha rispetto all'origine delle voci. Lavorando sui deliri, il terapeuta potrebbe delicatamente chiedere se vi sono altre possibili spiegazioni per i fatti descritti dal paziente. È possibile che il paziente prenda le cose troppo personalmente, o veda nel comportamento, degli altri cose che non ci sono? È anche opportuno esplorare la catena delle inferenze. Per esempio, se il paziente ritiene che nel suo cervello si trovi un chip al silicone, il terapeuta potrebbe chiedere quanta elettricità consuma. L'esperienza del paziente in generale va accettata, e si dovrebbe costruire un'atmosfera positiva per l'analisi che può portare il paziente a esaminare criticamente possibili alternative. Soltanto dopo che si è stabilita una solida alleanza, che si sono individuati e discussi i fattori specifici che inducono recidive, che sono stati affrontati i problemi legati a eventuali deficit e che il paziente ha raggiunto una stabile condizione abitativa con la famiglia o con altri, il terapeuta potrebbe tentare un approccio espressivo in cui 1'insight o l'interpretazione siano centrali. Alcuni pazienti non raggiungeranno mai questo punto. Quando le strategie supportive e riabilitative sono sufficienti, il terapeuta può ritenere che ciò sia abbastanza. Deve essere evitata la fantasia di salvare i pazienti dalla schizofrenia - il peggior atteggiamento psicologico possibile per un terapeuta. I terapeuti devono accettare la possibilità che i pazienti scelgano "il male noto" piuttosto che affrontare le incertezze del cambiamento e del miglioramento. Una psicoterapia efficace richiede da parte del terapeuta un atteggiamento che consenta al paziente la possibilità di desiderare di restare malato come alternativa accettabile al cambiamento psicoterapeutico (Searles, 1979). Ciò nonostante, un sostanziale sottogruppo di individui affetti da schizofrenia vorranno collaborare con un terapeuta per arrivare a comprendere la loro malattia e il modo con cui essa ha mandato in frantumi il loro senso di identità. Nella letteratura recente, i pazienti schizofrenici si sono espressi eloquentemente sui benefici della psicoterapia individuale (Anonimo, 1986; Ruocchío, 1989). Questi pazienti sottolineano l'importanza di avere avuto una figura costante nella loro vita, presente di fronte a qualunque avversità per un periodo di molti anni. Illustrano come la loro esperienza soggettiva sia stata notevolmente modificata nel corso di una relazione psicoterapeutica a lungo termine 187-95 Gli studi che sono stati effettuati sulla psicoterapia di gruppo con pazienti schizofrenici suggeriscono che questa modalità terapeutica può essere utille, ma mettono in evidenza il problema di determinare quando debba essere intrapresa. Il momento ottimale sembra essere dopo che i sintomi positivi sono stati stabilizzati per mezzo di un intervento farmacologico (Kanas et al., 1980; Keith, Matthews, 1984). Il paziente in fase acuta di disorganizzazione non è in grado di selezionare gli stimoli ambientali, e i molteplici input di un setting gruppale possono sopraffare l'Io assediato proprio quando esso sta tentando di ristabilirsi. Dopo che è stata posta sotto controllo la sintomatologia positiva, i gruppi possono essere di grande sostegno per i pazienti schizofrenici che si stanno riorganizzando e vedono altri che si preparano per la dimissione. Per il paziente stabilizzato farmacologicamente, sedute settimanali della durata di 60-90 minuti possono servire alla costruzione della fiducia e possono offrire un gruppo di sostegno nel quale i pazienti possono discutere liberamente le loro preoccupazioni su argomenti come il modo di affrontare le allucinazioni uditive o di convivere con lo stigma della malattia mentale. 195 Numerosi studi hanno dimostrato che la terapia della famiglia associata a farmaci antipsicotici è tre volte più efficace della sola farmacoterapia nella prevenzione di ricadute. Queste ricerche hanno utilizzato un fattore noto come emozione espressa (EE), identificato per la prima volta da Brown e collaboratori (1972). Questo termine venne coniato per descrivere uno stile di interazione tra i membri della famiglia e il paziente caratterizzato da intenso ipercoinvolgimento e critica eccessiva. Sebbene tale concetto non accusi i genitori di essere la causa della schizofrenia dei loro figli, riconosce che sono le famiglie stesse a essere affette dalla malattia, e che esse possono diventare fattori secondari che contribuiscono alle ricadute attraverso un'intensificazione delle interazioni col paziente. In breve, le famiglie con alto indice di EE inducono una maggiore frequenza di recidive nel membro schizofrenico di quelle con basso indice di EE. Una meta-analisi di ventisette studi sulla relazione tra EE ed esito nella schizofrenia ha confermato che rispetto alle recidive 1'EE è un indice predittivo affidabile e significativo (Butzlaff, Hooley, 1998). La relazione tra elevata EE e ricadute sembra essere più forte per i pazienti con forme di schizofrenia caratterizzate da una maggiore cronicità. La vasta ricerca sull'EE ha portato a un sofisticato approccio psicoeducativo con le famiglie di soggetti schizofrenici. I familiari vengono preparati a riconoscere segni e sintomi prodromici che fanno presagire una ricaduta, viene loro insegnato a ridurre le critiche e 1'ipercoinvolgimento e vengono aiutati a capire come un programma farmacologico costante possa preservare un funzionamento ottimale. Altre aree di educazione comprendono indicazioni sugli effetti collaterali dei farmaci e sulla loro gestione, il decorso a lungo termine e la prognosi della schizofrenia, e le basi genetiche e biologiche della malattia. I clinici che utilizzano questo approccio possono effettivamente contare sulla collaborazione della famiglia nella prevenzione delle recidive. una recente ricerca suggerisce che le due componenti dell'EE-1'ipercoinvolgimento emotivo e l'eccesso di critica - non dovrebbero essere considerate alla stessa stregua (King, Díxon, 1996). In questo studio, condotto su 69 pazienti e 108 familiari, l'ipercoinvolgimento emotivo appare associato a un migliore risultato sociale dei pazienti, indicando che l'eccesso di critica potrebbe essere il fattore che favorisce le ricadute. 195-8 La riabilitazione psicosociale, definita comunemente come un approccio terapeutico che incoraggia il paziente a sviluppare al massimo le proprie capacità attraverso il supporto ambientale e l'apprendimento di procedure (Bachrach, 1992), attualmente dovrebbe rappresentare una parte molto importante della terapia per tutte le persone affette da schizofrenia. Questo approccio, adattato ai singoli individui, si basa su strategie tese a capitalizzare le forze e le competenze del paziente, a ridargli speranza, a ottimizzare il suo potenziale occupazionale, a incoraggiare il suo coinvolgimento attivo nella terapia e ad aiutarlo a sviluppare abilità sociali. L'insieme di questi obiettivi è spesso riassunto con il termine inglese psychosocial skills training (educazione alle abilità psicosociali). Hogarty e collaboratori (1991) hanno rilevato che i destinatari di interventi di formazione delle capacità psicosociali mostravano miglioramenti sostanziali rispetto a parametri di valutazione dell'adattamento sociale, e presentavano, secondo una verifica effettuata dopo un anno, una frequenza di ricadute più bassa di quella riscontrata in un gruppo di controllo. Tuttavia, questi effetti positivi scemavano entro due anni dalla terapia. Anche la riabilitazione cognitiva è stata incorporata in queste strategie. Attraverso la ripetuta applicazione di tecniche correlate, vari deficit cognitivi vengono modificati. Negli interventi di formazione delle capacità sociali, i pazienti partecipano al role-playing (gioco dei ruoli) e ad altri esercizi tesi a migliorare il loro funzionamento nei setting interpersonali. esiste un consenso generale sul fatto che l'insegnamento di specifiche abilità e la modifica dei deficit cognitivi possono essere utili all'interno di un piano terapeutico più globale. Per il paziente schizofrenico che abbia un crollo psicotico acuto, un breve ricovero offre una "pausa", un'occasione di riorganizzarsi e di acquisire una nuova direzione per il futuro. I farmaci antipsicotici forniscono un sollievo alla maggior parte dei sintomi positivi. La struttura del reparto ospedaliero offre un luogo sicuro che impedisce ai pazienti di recare danno a se stessi o agli altri. I componenti dello staff infermieristico svolgono, per il paziente, funzioni ausiliarie dell'Io. Può essere iniziato uno sforzo psicoeducativo con la famiglia e il paziente per instaurare un ambiente post ospedaliero ottonale. Essi dovrebbero essere preparati al fatto di avere a che fare con una malattia che dura tutta la vita e al fatto che (obiettivo è quello di ridurre al minimo l'invalidità, non di operare una guarigione permanente. Viene messa in evidenza l'importanza di una costante assunzione dei farmaci, e può anche essere spiegato il concetto di emozione espressa. Al medesimo tempo, l'equipe terapeutíca dev'essere in grado di infondere un senso di speranza. Se il paziente non è già in psicoterapia, l'ospedale può essere utilizzato per preparare il paziente a un processo psicoterapeutico ambulatoriale (Selzer, 1983). L'onnipotenza del paziente viene sfidata dalla necessità di adeguarsi alle necessità altrui. Introducendo nella vita dei pazienti un programma di routine, è inevitabile che alcuni dei loro bisogni e desideri vengano frustrati. Questo ottimale livello di frustrazione aiuta il paziente a migliorare l'esame di realtà e altre funzioni dell'Io (Selzer, 1983). Se la psicoterapia può avere inizio durante il ricovero ospedaliero, il paziente può mantenere un senso di continuità portando avanti la relazione terapeutica dopo la dimissione. Quando la sintomatologia positiva del paziente è stata in parte alleviata può essere intrapresa una terapia di gruppo, che può anche proseguire a livello ambulatoriale esterno in relazione alla disponibilità del paziente. Per alcuni pazienti ambulatoriali isolati gli incontri di gruppo possono costituire l'unico contatto sociale significativo. Per pazienti con predominanza di sintomi negativi, la diagnosi e le prescrizioni farmacologiche possono essere riconsiderate. Vi sono ragioni secondarie, come depressione, ansia ed effetti collaterali dei farmaci, che possono essere la causa dei sintomi negativi? Analogamente, il processo psicoterapeutico, se in corso, può essere rivalutato con la collaborazione del terapeuta per determinare se sia necessario un cambiamento di strategia. Il lavoro con la famiglia può procedere secondo una modalità psicoeducatíva, e i membri della famiglia possono essere chiamati a cercare la possibile presenza di fattori stressanti che impediscono al paziente di rispondere alla terapia corrente. L'insieme dei sintomi negativi richiede soprattutto una riabilitazione sociale e attitudinale. I gruppi di skill training che si focalizzano sul miglioramento comportamentale in semplici atti quotidiani come mangiare, fare conversazione, camminare ed essere educati con gli altri possono essere estremamente preziosi nei confronti dei sintomi negativi. In maniera analoga, un'attenta valutazione attitudinale in una situazione supervisionata nella quale vengono insegnate e sviluppate concrete abilità lavorative può rappresentare una componente essenziale. Indagini sull'adattamento post ospedaliero e sui tassi di riospedalizzazione mostrano che i pazienti rimangono con maggiore probabilità fuori dall'ospedale quando sono stati insegnati loro abilità e comportamenti adattivi, e quando hanno imparato, nel corso del ricovero, a controllare comportamenti maladattivi e sintomatici (Mosher, Keith, 1979). Sebbene il focus comportamentale di questo genere di programmi ambientali possa sembrare antitetico agli psichiatri a orientamento psicodinamico, in realtà tale focus può funzionare sinergicamente con approcci dinamici. I pazienti che, grazie all'addestramento a orientamento comportamentale in abilità lavorative, migliorano i loro rapporti interpersonali inizieranno a sentire dei cambiamenti nelle loro relazioni oggettuali, che forniscono poi materiale di discussione nell'ambito della psicoterapia. I pazienti schizofrenici refrattari alla terapia possono anche presentare un quadro predominante di rapporti interpersonali disturbati. Questi pazienti hanno spesso gravi difficoltà caratteriali che coesistono con la schizofrenia. I clinici tendono talvolta a dimenticare che ciascun paziente schizofrenico ha anche una propria personalità. Questi problemi caratteriali possono pertanto portare a un rifiuto delle prescrizioni farmacologiche, a un'alienazione rispetto ai familiari e ad altre persone di sostegno dell'ambiente, al diniego della malattia e a un'incapacità funzionale in ambito attitudinale. Un reparto psichiatrico o un day-hospital possono costituire setting ideali per occuparsi degli aspetti caratteriali che accompagnano la schizofrenia e per esaminare le motivazioni soggiacerti alla noncompliance del paziente. Attraverso l'identificazione proiettiva, i pazienti tentano di ristabilire il loro mondo oggettuale interno nell'ambiente ospedaliero. I membri dello staff contengono tali proiezioni e forniscono nuovi modelli di relazione da reinteriorizzare. Inoltre, i pazienti vengono informati dei modelli modelli maladattativi di interazione quando questi si manifestano nel qui e ora del settino ospedaliero. Riassumendo, i pazienti schizofrenici hanno bisogno di figure terapeutiche nella loro vita. Hanno bisogno d'aiuto per navigare attraverso le complicate realtà del sistema di salute mentale. Hanno anche bisogno di qualcuno che li aiuti a comprendere le paure e le fantasie che impediscono loro di seguire i vari aspetti del piano terapeutico globale. Indubbiamente, un ruolo centrale dello psicoterapeuta è l'esplorazione dei problemi di compliance che emergono in altre aree del trattamento. 198-206 Disturbi affettivi I disturbi affettivi sono fortemente influenzati da fattori genetici e biologici. gli individui predisposti a depressione maggiore tendono a porsi in ambienti ad alto rischio. Per esempio, individui con un temperamento caratterizzato da aspetti nevrotici possono tenere lontani gli altri ed essere così la causa della rottura di una relazione significativa. Gli eventi stressanti più potenti sembravano essere la morte di una persona cara, violenze, gravi problemi coniugali e divorzi o separazioni. Tuttavia, esistono molti dati che indicano come precoci esperienze di abuso, di abbandono o di separazione possano creare una sensibilità neurobiologica che predispone gli individui a rispondere a fattori stressanti in età adulta con lo sviluppo di un episodio depressivo maggiore. Per esempio, Kendler e collaboratori (1992) hanno riscontrato un aumentato rischio di depressione maggiore in donne che durante l'infanzia o l'adolescenza erano state separate dalla madre o dal padre. Uno studio prospettico (Bifulco et al., 1998) ha riscontrato che le donne con una storia di abuso o di abbandono infantile hanno una probabilità due volte maggiore, rispetto a quelle che non hanno vissuto simili esperienze, di avere in età adulta relazioni negative e una bassa stima di sé. Inoltre, donne che durante l'infanzia hanno subito comportamenti di abuso o trascuratezza (neglect) e presentano da adulte relazioni negative e una bassa stima di sé hanno una probabilità dieci volte maggiore di ammalarsi di depressione. l'impatto del trauma o dell'abbandono infantile può essere cruciale nella terapia psicodinamica dei pazienti depressi. Questi fattori stressanti precoci correlati alla separazione, all'abbandono o all'abuso infantile sembrano rendere gli individui più vulnerabili ai fattori stressanti più tardivi che in età adulta possono portare alla depressione. Comunque, in base a una prospettiva psicodinamica il clinico dovrebbe sempre considerare il significato di un fattore stressante particolare: ciò che a un osservatore esterno potrebbe sembrare un fattore stressante relativamente lieve può rivestire per il paziente potenti significati consci e inconsci, che ne amplificano enormemente l'impatto. Hammen (1995) notava che "esiste un notevole consenso sul fatto che l'elemento cruciale non è il semplice verificarsi di un evento esistenziale negativo, ma piuttosto l'interpretazione dell'individuo del significato dell'evento e dei suoi effetti all'interno del contesto in cui si verifica". In uno studio longitudinale sulle relazioni tra reazioni depressive e fattori stressanti, Hammen e i suoi collaboratori rilevarono che i fattori stressanti il cui contenuto riguarda l'area della definizione del Sé del paziente avevano una maggiore probabilità di innescare episodi depressivi (Hammen et al., 1985). In altre parole, in un individuo in cui il senso di sé è parzialmente definito da legami sociali, la perdita di una relazione interpersonale significativa può precipitare una depressione maggiore. D'altra parte, una persona la cui autostima è correlata soprattutto al conseguimento di risultati e successi ha una maggiore probabilità di andare incontro a un episodio depressivo in risposta alla percezione di un fallimento a scuola o nel lavoro. Questi progressi della ricerca sui disturbi dell'umore suggeriscono che sia i farmaci che la psicoterapia possono essere necessari nel trattamento dei disturbi affettivi maggiori. L'esplorazione psicodinamica del significato dei fattori stressanti può essere di particolare importanza. I pazienti depressi possono anche trarre benefici da una psicoterapia dinamica. Alcuni non aderiranno alle terapie farmacologiche prescritte per una varietà di ragioni, compreso il fatto che sentono di non essere degni di migliorare o che prendere questi farmaci li stigmatizza come malati mentali. Oltre a essere indicata per pazienti con problemi di noncompliance, la psicoterapia deve essere usata con coloro che non possono assumere antidepressivi per preesistenti condizioni fisiche di interesse medico, con pazienti che non possono tollerarne gli effetti collaterali, e con quelli che sono refrattari in parte o del tutto a ogni trattamento somatico. Si deve inoltre ricordare che la depressione abbraccia l'intero spettro della patologia e della salute mentale, e che in corrispondenza di periodi particolarmente stressanti può presentarsi in forme più leggere anche in individui fondamentalmente sani. Gli individui con una depressione minore, che non rientra nei criteri del DSM-IV (American Psychiatric Association, 1994) per un episodio depressivo maggiore o per una distimia, vivono un maggior numero di giorni di disagio nella società rispetto a quelli con depressione maggiore (Broadhead et al., 1990).1 medici forniscono più assistenza agli individui con sintomatologia depressiva che a quelli affetti da disturbi depressivi definiti formalmente (Johnson et al., 1992). Ne deriva che queste forme medie di depressione, anche quando non possiedono le caratteristiche richieste per essere classificate come disturbi maggiori secondo i criteri del DSM-IV, non sono necessariamente benigne. La terapia farmacologica è spesso inefficace nella depressione minore, e questi pazienti possono aver bisogno di una psicoterapia per essere restituiti a un funzionamento normale. Per molti pazienti l'associazione di psicoterapia e farmacoterapia sembra essere particolarmente utile. Un approccio psicodinamico al trattamento è anche estremamente utile nell'affrontare il rapporto tra personalità e depressione. Questo rapporto può essere suddiviso in tre distinte categorie: 1) disturbo depressivo maggiore sull'asse i complicato dalla coesistenza sull'asse 2 di disturbi di personalità, 2) personalità depressiva, 3) depressione caratterologica nel contesto di disturbi di personalità sull'asse 2. Una sintesi della letteratura fornisce un'ampia evidenza che i disturbi di personalità complicano il trattamento dei disturbi depressivi sull'asse 1. Questi studi suggeriscono che certi disturbi di personalità possono contribuire a mantenere una depressione già in atto, e che i fattori caratterologici possono anche essere responsabili di una scarsa compliance verso la terapia farmacologica. Per trattare efficacemente questi pazienti può essere necessaria una psicoterapia in associazione con i farmaci. La seconda categoria, la personalità depressiva, è stata oggetto di controversie nonostante una lunga tradizione psicoanalitica. Nell'Appendice B del DSM-IV, i criteri per il disturbo depressivo di personalità enfatizzano una costellazione di tratti di personalità, in contrasto con i criteri per la distimia che mettono l'accento sui sintomi somatici. Questi tratti includono un umore dominato da infelicità, abbattimento, tristezza; un concetto di sé centrato sulla svalutazione e la bassa autostima; una tendenza all'autocolpevolizzazione e all'autocritica; una facilità nel provare sentimenti di colpa o di rimorso; un atteggiamento pessimistico; un modo negativistico e giudicante di porsi verso gli altri; infine una tendenza a rimuginare e a preoccuparsi. Molte delle controversie si sono imperniate sulla questione se il disturbo depressivo di personalità sia realmente distinto dalla distimia. Comunque, dati recenti indicano che la distinzione tra le due entità patologiche è valida e clinicamente utile. Della terza categoria fanno parte i pazienti con gravi disturbi di personalità, in particolare borderline, che soffrono di "depressione" quantunque manchino i criteri del DSM-IV per un disturbo sull'asse i. Molti di questi pazienti descrivono sentimenti di solitudine o vuoto pervasivi, accompagnati dalla percezione che i loro bisogni emozionali non trovano riscontro negli altri. Vi può anche essere un sentimento consapevole di rabbia e di frustrazione che li distingue dai tipici pazienti dell'asse 1. Lo psichiatra che combini un approccio psicodinamico e misure psicofarmacologiche sarà equipaggiato al meglio per trattare l'ampio spettro di pazienti con disturbi affettivi visti nella pratica clinica. 211-16 Possiamo riassumere le differenti formulazioni teoriche sulla depressione giungendo alla conclusione che, qualunque componente biochimica vi possa essere, i pazienti esperiscono la depressione sul piano psicologico come un disturbo dell'autostima nel contesto di relazioni interpersonali fallimentari. Queste relazioni dell'infanzia vengono interiorizzate e possono successivamente, in età adulta, essere riattivate con l'esordio di disturbi affettivi maggiori. Il tormentato mondo interno delle relazioni oggettuali viene allora esteriorizzato anche nell'ambito delle relazioni attuali nel mondo del paziente. La depressione mostra la stretta connessione esistente tra le intime relazioni interpersonali di un individuo e il mantenimento dell'autostima (Strupp et al., 1982). Nei termini della psicologia del Sé, la depressione può essere vista come la disperazione conseguente al fallimento da parte degli oggetti-Sé nel gratificare i bisogni del Sé di rispecchiamento, gemellarità o idealizzazione. Blatt (1998) ha suggerito che da un punto di vista psicoanalitico queste varie prospettive teoriche descrivono due tipologie sottostanti di depressione. La depressione anaclitica è caratterizzata da sentimenti di impotenza, solitudine e fragilità correlati a croniche paure di abbandono e di mancanza di protezione. Gli individui con questo tipo di depressione hanno un intenso desiderio di essere accuditi, protetti e amati. La depressione introiettava, d'altra parte, è caratterizzata da sentimenti di inutilità, fallimento, inferiorità e colpa. Gli individui affetti da questa variante sono particolarmente autocritici e soffrono per una paura cronica della critica e della disapprovazione da parte degli altri. Sono eccessivamente perfezionisti e competitivi e si sentono costantemente spinti a raggiungere risultati ottimali a livello scolastico o professionale. La depressione anaclitica è caratterizzata dalla vulnerabilità rispetto alla rottura di relazioni interpersonali, e la depressione si manifesta prevalentemente come sentimento disforico di abbandono, perdita e solitudine. La depressione introiettiva comporta una vulnerabilità al venir meno di un senso di sé positivo ed efficiente; si manifesta soprattutto con sentimenti disforici di colpa, fallimento e inutilità, e con la sensazione di non disporre più della propria autonomia e del proprio potere. 216-20 Diversi disturbi psichiatrici possono culminare nel tragico esito del suicidio. Tuttavia, il suicidio è prevalentemente associato ai disturbi affettivi maggiori Gli aspetti psicodinamici emersi dal lavoro psicoterapeutico con pazienti che abbiano tentato il suicidio possono essere secondari a eventuali modificazioni neurochimiche; pertanto, nel contesto di un approccio psicoterapeutico, dovranno essere massivamente usate tutte le modalità disponibili di trattamento somatico. In molti casi la sola psicoterapia è insufficiente con i pazienti che manifestano gravi tendenze suicide. Le motivazioni del suicidio sono altamente diversificate e spesso oscure. 220-21 In linea con la generale negazione della malattia, questi pazienti in genere sostengono che i loro sintomi maniacali o ipomaniacali non fanno parte di un disturbo ma sono piuttosto un riflesso del loro modo di essere. I pazienti con malattia bipolare mancano notoriamente di consapevolezza. Spesso correlato a questa negazione vi è un altro tema psicodinamico che riguarda la scissione o la discontinuità psichica. Molti pazienti bipolari continuano a negare il significato dei precedenti episodi maniacali quando sono in condizioni di eutimia. Possono sostenere che il loro comportamento era semplicemente il risultato di una scarsa cura di sé, e frequentemente insistono in modo inflessibile sul fatto che ciò che è accaduto non si verificherà mai più. In questa forma di scissione la rappresentazione di Sé coinvolta nell'episodio maniacale è considerata completamente slegata rispetto al Sé della fase eutimica. Questa mancanza di continuità del Sé non sembra infastidire il paziente, mentre familiari e medici possono esserne decisamente esasperati. La gestione clinica del paziente richiede un lavoro a livello psicoterapeutico per cercare di ricucire i frammenti del Sé in un continuum narrativo nella vita del paziente, così che il bisogno di seguire la terapia farmacologica divenga più importante per il paziente. Esiste una forte associazione tra traumi fisici infantili e mania in età adulta 225-6 Il primo passo in una terapia, indipendentemente dal fatto che il paziente sia ricoverato in ospedale o meno, deve essere la costruzione di un'alleanza terapeutica. Affinché si instauri il rapporto necessario, il clinico deve semplicemente ascoltare il paziente, empatizzando con il suo punto di vista. Forse l'errore più comune, sia dei familiari che dei professionisti della salute mentale inesperti, è quello di cercare di consolare il paziente focalizzandosi su quanto vi è di positivo. Commenti come "Lei non ha ragione d'essere così depresso - ha così tante belle qualità", oppure "Perché dovrebbe suicidarsi? Ci sono così tante cose per le quali vale la pena di vivere" sortiranno facilmente l'effetto contrario. Questi commenti "incoraggianti" sono vissuti dai pazienti depressi come completi fallimenti dell'empatia, che potrebbero portarli a sentirsi maggiormente incompresi e soli incrementando così le loro tendenze suicide. I terapeuti che lavorano con questi pazienti dovrebbero invece comunicare di comprendere che ci sono certamente dei motivi per essere depressi. Potranno empatizzare con il dolore della depressione, chiedendo però, allo stesso tempo, la collaborazione del paziente per una ricerca delle cause che sono alla base della malattia. L'approccio iniziale dovrebbe essere supportivo ma fermo (Arieti, 1977; Lesse, 1978). Interpretazioni premature, come ad esempio "In realtà lei non è depresso - è arrabbiato", verranno sentite sia come non empatiche che come non centrate. Il terapeuta sarà maggiormente d'aiuto semplicemente ascoltando, e sforzandosi di comprendere come il paziente stesso interpreta la malattia. Durante le prime fasi della raccolta dell'anamnesi, il clinico elaborerà una formulazione esplicativa della depressione del paziente. Quali eventi hanno apparentemente scatenato la depressione? Qual è l'aspirazione, di elevato valore narcisistico, che il paziente non è riuscito a raggiungere? Qual è l'ideologia dominante del paziente? Chi è l'altro dominante per il quale il paziente sta vivendo e dal quale non riceve le risposte desiderate? Vi sono sentimenti di colpa associati all'aggressività e alla rabbia e, se sì, con chi è arrabbiato il paziente? I tentativi del Sé di ottenere delle risposte dall'oggetto-Sé vengono frustrati? Il paziente ha primariamente una depressione di tipo anaclitico, nella quale il cambiamento terapeutico riguarderà le relazioni interpersonali? Oppure il paziente ha una depressione prevalentemente introiettiva, per la quale saranno centrali la definizione del Sé e del suo valore? Per l'approccio psicodinamico ai pazienti depressi è cruciale stabilire il contesto e il significato interpersonale della loro depressione. Sfortunatamente, i pazienti spesso resistono tenacemente a tali implicazioni interpersonali (Betcher, 1983). Spesso preferiscono vedere la loro depressione è i loro desideri di suicidio come se si sviluppassero nel vuoto, insistendo con fervore che nessuno va incolpato tranne loro stessi. Un'accurata attenzione agli sviluppi del transfert-controtransfert può consentire di penetrare in questa forma di resistenza. Sia in psicoterapia che nel trattamento ospedaliero, i pazienti ricapitolano le loro relazioni oggettuali interne e anche i loro modelli relazionali con figure esterne. I pazienti depressi suscitano sentimenti particolarmente intensi. Nel corso di un trattamento, il terapeuta potrà provare disperazione, rabbia, desideri di sbarazzarsi del paziente, potenti fantasie di salvataggio e una miriade di altri sentimenti. Tutte queste risposte emotive possono riflettere come altre persone nella vita del paziente si possano sentire. Queste dimensioni interpersonali della depressione possono essere implicate nel provocare o perpetuare la condizione patologica. Per esaminare l'impatto della condizione del paziente sugli altri, il terapeuta deve richiedere la collaborazione del paziente utilizzando tali sentimenti in maniera costruttiva all'interno della relazione terapeutica. Molti casi di depressione refrattaria sono giunti a situazioni di impasse nella ripetizione di un modello di relazioni oggettuali caratteristico che ha forti basi caratteriali ed è quindi difficile da modificare. La letteratura sulle famiglie dei pazienti depressi indica chiaramente che la frequenza delle ricadute, il corso della depressione e il comportamento suicidario sono tutti influenzati dal funzionamento familiare (Keitner, Miller, 1990). In uno studio (Hooley, Teasdale, 1989) il miglior predittore, preso singolarmente, di recidive era la percezione del paziente depresso che il coniuge fosse particolarmente critico. Parallelamente alla ricerca sulle famiglie dei pazienti schizofrenici, diversi studi hanno dimostrato che anche un'elevata emotività espressa nei familiari dei pazienti depressi può influenzare negativamente il rischio di ricadute (Hooley et al., 1986; Vaughn, Leff, 1976). I pazienti depressi suscitano una notevole quota di ostilità e di sadismo nei membri della loro famiglia, e i clinici devono aiutare i familiari a superare i loro sentimenti di colpa per tali reazioni, così che essi possano accettarle come risposte comprensibili. 227-32 Innanzi tutto, i clinici debbono tenere sempre a mente un fatto inoppugnabile - i pazienti che sono veramente intenzionati a uccidersi finiranno col farlo. Nessuna entità di contenzione fisica, attenta osservazione e capacità clinica può fermare il paziente realmente determinato al suicidio. Dopo un suicidio portato a compimento, i clinici spesso si sentono in colpa per non aver identificato i segni premonitori che avrebbero consentito di prevedere un imminente tentativo di suicidio. Nonostante una corposa mole di letteratura sui fattori di rischio per il suicidio a breve e a lungo termine, la nostra capacità di prevedere il suicidio di un paziente è ancora notevolmente limitata. Il mezzo principale per valutare un rischio imminente di suicidio in un setting clinico è la comunicazione verbale del paziente rispetto alle sue intenzioni, o un'azione chiaramente suicidaria nei suoi intenti. I clinici non possono leggere nella mente e non devono rimproverarsi per i loro fallimenti quando non sono presenti indicazioni chiare, verbali o non, di rischio suicidario. Uno studio (Isometsà et al., 1995) ha rilevato che in 571 casi di suicidio, soltanto 1136 per cento dei pazienti che erano in terapia psichiatrica comunicò un intento suicidario. Il trattamento della depressione suicidaria deve cominciare con la prescrizione di un farmaco antidepressivo adeguato che non sia letale se assunto in overdose. Devono essere valutati diversi altri fattori di rischio, tra i quali: sentimenti di disperazione, grave ansia o attacchi di panico, abuso di sostanze, presenza di eventi avversi recenti, problemi finanziari o disoccupazione, sesso maschile, un'età di sessant'anni o oltre, e il fatto di vivere da soli o di essere vedovi o divorziati (Clark, Fawcett, 1992; Hirschfeld, Russell, 1997). Se il paziente ha un piano preciso e sembra intenzionato a metterlo presto in atto, è richiesto un ricovero urgente in un reparto di psichiatria. Se il rischio di suicidio è sostanziale ma non imminente, dovrebbe essere coinvolto un membro della famiglia o un'altra persona vicina. Dovrebbe essere valutata la disponibilità di armi da fuoco in casa o altrove. Sintesi della letteratura (Cummings, Koepsell, 1998; Miller, Hemenway, 1999) mettono in evidenza che la disponibilità di una pistola aumenta in modo significativo il rischio di suicidio. Una comunicazione chiara è essenziale in tali circostanze, e deve essere ricercato anche un eventuale abuso di sostanze. In caso di intensa ansia o di panico dovrebbe essere considerato l'uso di una benzodiazepina (Hirschfeld, Russell, 1997).