LA PAURA

Spazio per psicologi, counselor, psicoterapeuti e tutti coloro che vogliono offrire - o ricevere - un servizio inerente alla psicologia e all'approccio empirico.
Database di articoli propri o tratti da libri e siti internet, ma anche temi a scelta dell'autore.

LA PAURA

Messaggioda Royalsapphire » 19/02/2016, 16:21



La paura è un sentimento primario, comune sia al genere umano sia al genere animale.


Reazioni

La paura è un'emozione dominata dall'istinto (cioè dall'impulso) che ha come obiettivo la sopravvivenza del soggetto ad una suffragata situazione di pericolo; irrompe ogni qualvolta si presenti un possibile cimento per la propria incolumità, e di solito accompagna ed è accompagnata da un'accelerazione del battito cardiaco e delle principali funzioni fisiologiche difensive.


Principali controffensive alla paura possono essere:

intensificazione delle funzioni fisiche e cognitive teoretiche con relativo innalzamento del livello di accortezza
difficoltà di applicazione intellettiva
fuga
protezione istintiva del proprio corpo (cuore, viso, organi genitali)
ricerca di aiuto (sia articolato, sia racchiuso)
calo della temperatura corporea
sudorazione
aumento adrenalinico
aumento dell'ansia

La paura è talvolta causa di alcuni fenomeni di modifica comportamentale permanenti, identificati come sindromi ansiose: ciò accade quando la paura non è più scatenata dalla percezione di un reale pericolo, bensì dal timore che si possano verificare situazioni, apparentemente normalissime, ma che sono vissute dal soggetto con profondo disagio. In questo senso, la paura perde la sua funzione primaria, legata alla naturale conservazione della specie, e diventa invece l'espressione di uno stato mentale.
La paura di oggetti o contesti può essere appresa; negli animali questo effetto è stato studiato e prende il nome di paura condizionata, che dipende dai circuiti emozionali del cervello.

Gradi della paura
La paura ha differenti gradi di intensità a seconda del soggetto: persone che vivono intensi stati di paura hanno sovente atteggiamenti irrazionali.
La paura, come la rabbia, è una risposta al dolore o alla sua percezione: nella paura l'eccitazione si ritira (nella nuca), mentre nella rabbia si dirige verso la fonte del dolore, sia questo reale o immateriale.
Se un individuo impaurito è costretto ad attaccare, la rabbia prende il sopravvento e la paura svanisce. In tal senso alcuni atteggiamenti derivanti dagli stati di paura possono essere considerati pericolosi, quando si tramutano in rabbia.
La paura può essere descritta con termini differenti a seconda del suo grado di intensità, qui elencato dal minore al maggiore:

timore
ansia
paura
panico
terrore
orrore

Timore
Il timore è la forma meno intensa della paura e si determina quando una situazione promette piacere ma, al tempo stesso, anche dolore: c'è la percezione della possibilità di perdere il piacere, ma ci si muove ancora verso di esso.

Ansia
In questo caso la minaccia del dolore e quella del piacere si equivalgono generando una situazione di conflitto nell'attesa di qualche indizio capace di far pendere la bilancia da una parte o dall'altra.

Paura
La paura emerge quando il contesto è dominato dalla minaccia del dolore o dalla sua percezione: in questo caso si è pervasi dal desiderio di scappare o comunque di allontanarsi dalla fonte di dolore, sia questa reale o immaginaria, di ogni tipo o forma essa sia.

Panico
Nel momento in cui la paura diviene travolgente, si determina il panico. L'impulso è sempre quello di scappare ma è talmente forte che si decide di allontanarsi dalla (probabile) fonte del dolore correndo via alla cieca. La situazione di panico è correlata alla claustrofobia.

Terrore
Il terrore è la forma estrema della paura, di intensità ancora maggiore al panico, dove l'impulso a scappare è talmente elevato da ricercare una soluzione immediata: in questo caso l'individuo sceglie di ritirarsi dentro se stesso. Il terrore è una vera propria fuga verso l'interno, la muscolatura si paralizza nel tentativo di ridurre la sensibilità dell'organismo durante l'agonia (immaginata o reale).

Orrore
Per orrore si intende un sentimento di forte paura e ribrezzo destato da ciò che appare crudele e ripugnante in senso fisico o morale. Per estensione, orrore può indicare un fatto, un oggetto o una situazione che desta tale sentimento.



Bibliografia

AA.VV., «UT», III – 5 – n. 2, numero monografico sulla paura, San Benedetto del Tronto 2009, ISSN 1973-4662.
Elena Pulcini, La cura del mondo. Paura e responsabilità nell'età globale, Bollati Boringhieri, 2009.
Alexander Lowen, " La Voce del Corpo", Astrolabio, 2009.
Krishnananda, Amana, "A tu per tu con la paura", Feltrinelli,2011
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DINAMICHE TRA RABBIA E PAURA: sotto la rabbia la paura, e sotto la paura c'è il dolore

Messaggioda Royalsapphire » 19/02/2016, 18:03



In conclusione la paura scatena la reazione immediata del circuito primitivo che attiva la reazione di fuga o di attacco, queste che sono geneticamente determinate per millenni hanno rappresentato la nostra unica ancora di salvezza. In realtà però quando noi possediamo informazioni che ci indicano che la strategia di comportamento più adatta è un'altra, o quando il rischio che corriamo è tollerabile, occorre mediare razionalmente la nostra tendenza all'azione. A questo punto intervengono come mediatori i meccanismi più lenti ma più complessi del circuito razionale così da impedirci di agire in modo riflesso scappando o attaccando. Le variabili di sorpresa, novità, abitudine, rivestono una grande importanza perché ci consentono di modulare le nostre risposte, un altro fattore è determinato dal significato che gli accadimenti hanno per l'individuo.
La paura per concludere non può essere evitata ma deve essere "gestita".


La paura e la collera sono emozioni diametralmente opposte sia nella loro espressione comportamentale che nella tipologia di movimento corporeo ed energetico.

Nell’espressione comportamentale la paura si concretizza nella fuga, il movimento corporeo è teso nel far arretrare il corpo dalla fonte del pericolo e il flusso energetico si muove verso la parte bassa del corpo tant’è che anche la vista si offusca. Nella collera tutto ciò si esprime, all’opposto, nell’attacco, il corpo aggredisce la fonte del pericolo e il flusso energetico si muove verso l’alto, in questo caso la vista si acutizza.

Mettere in relazione la paura e la collera va ben oltre la possibilità di descrivere le due emozioni, infatti, queste sono pensabili come gli estremi opposti di un continuum di cui il punto centrale è la componente anticipatoria di entrambe le emozioni rispetto al dolore.

Quando ci si trova dinanzi ad una minaccia di dolore si può scegliere di lottare o di fuggire e questo dipende dalla situazione e dalla propria storia personale. Se in alcuni casi, a fronte di un pericolo, prevale la paura con la cautela che spinge al ritirarsi, in altri casi si lotta e si da espressione alla collera. Comunque accade sempre che, dove l’Io della persona è identificato con le sensazioni del corpo, è l’Io a garantire sia la possibilità di fuga dal pericolo, che un elemento di razionalità per la collera affinché sia sotto controllo cosciente.

Ci sono tuttavia situazioni che non lasciano possibilità di scelta e fanno sentire l’individuo in trappola. Tali situazioni si vengono a creare quando l’Io della persona è meno identificato con le sensazioni del corpo, così accade che la collera può venire sfogata senza mediazione da parte dell’Io mentre la paura può straripare nel panico.

Le cause, per le quali un individuo può “sopravvivere” con l’Io non identificato con le proprie sensazioni corporee, vanno ricercate nel passato e nell’evoluzione, o sarebbe meglio parlare di involuzione, delle relazioni significative, poiché è su questo terreno che nascono e possono cristallizzarsi modalità di reazione, che certo si instaurano inizialmente mirando alla sopravvivenza dell’organismo, ma che risultano nella loro disfunzionalità una mutilazione della personalità adulta.

Si inseriscono in tale discorso tutte le situazioni in cui i bambini crescono in ambienti ostili, deprivanti, disorientanti, dove subiscono violenze fisiche o verbali o emotive, etc. Loro, i bambini, non hanno sufficienti strumenti per opporsi ai genitori e, davanti all’ostilità delle figure di riferimento affettivo, si ritrovano sotto scacco sia perché possono essere spaventati e non avere la possibilità di fuggire, sia perché possono sentirsi arrabbiati e impossibilitati ad esprimere il proprio sentire per le temute conseguenze.

In realtà la prima reazione che un bambino ha dinanzi ad una minaccia per la propria integrità fisica è quella di sentire rabbia. Il bambino che prova ad esprimere tale rabbia ed incontra la proibizione o punizione del genitore in risposta a tale espressione, deve reprimere il suo sentire e così si ritrova ad avere paura della sua stessa emozione. La paura del bambino di esprimere la rabbia verso i propri genitori diventa paralisi emozionale per lo stesso da adulto. Tale repressione non viene mai agita per scelta, ma per paura.

Inoltre, per i bambini la paura non è un’emozione contenibile e sopportabile come può esserlo per un adulto, la tensione che si viene a creare è fortissima, così si configura la via d’uscita nel ritiro fisico e psichico, nel rendersi insensibile attraverso la dissociazione dal corpo. Se poi questa dissociazione è solo una frattura o se diviene rottura totale, dipende da svariati fattori valutabili unicamente caso per caso, tra i quali sicuramente incide l’età in cui avvengono le situazioni traumatiche.

Comunque, in tutti i casi, l’organismo deve salvarsi dal sentire che lo paralizza e può farlo solo reprimendo lo stesso sentire, può negarlo o rimuoverlo e di conseguenza dissociarsi in qualche misura dal proprio corpo e dalla realtà, dissociandosi dalla propria paura, dalla propria rabbia, dal proprio senso di colpa.

Le conseguenze di questa dissociazione vengono trascinate nell’età adulta e, anche se gli adulti possono realisticamente provvedere alle proprie necessità, quando si riaprono determinate ferite e viene risvegliata la memoria psicocorporea del bambino impaurito, torna con inevitabile potenza la sensazione di non poter gestire ciò che viene ricordato come devastante. L’adulto che ha congelato la paura e con essa parte di se stesso, evita di affrontare coscientemente il suo problema riaprendo la propria ferita poiché ne porta dentro il segno e la memoria infantile di incontenibilità.

Affrontare qualcosa che si considera incontenibile e ingestibile mette l’individuo dinanzi all’antico rischio di sopravvivenza, affrontare un emozione incontenibile è possibile solo al prezzo del proprio equilibrio psichico. La paura di impazzire è tipica di questi stati dove in realtà ciò che si teme è il fatto di poter perdere il controllo, quel controllo dell’Io che ha salvato il bambino attraverso il ritiro e la dissociazione dal corpo.La paura e la collera sono emozioni diametralmente opposte sia nella loro espressione comportamentale che nella tipologia di movimento corporeo ed energetico.

Nell’espressione comportamentale la paura si concretizza nella fuga, il movimento corporeo è teso nel far arretrare il corpo dalla fonte del pericolo e il flusso energetico si muove verso la parte bassa del corpo tant’è che anche la vista si offusca. Nella collera tutto ciò si esprime, all’opposto, nell’attacco, il corpo aggredisce la fonte del pericolo e il flusso energetico si muove verso l’alto, in questo caso la vista si acutizza.

Mettere in relazione la paura e la collera va ben oltre la possibilità di descrivere le due emozioni, infatti, queste sono pensabili come gli estremi opposti di un continuum di cui il punto centrale è la componente anticipatoria di entrambe le emozioni rispetto al dolore.

Quando ci si trova dinanzi ad una minaccia di dolore si può scegliere di lottare o di fuggire e questo dipende dalla situazione e dalla propria storia personale. Se in alcuni casi, a fronte di un pericolo, prevale la paura con la cautela che spinge al ritirarsi, in altri casi si lotta e si da espressione alla collera. Comunque accade sempre che, dove l’Io della persona è identificato con le sensazioni del corpo, è l’Io a garantire sia la possibilità di fuga dal pericolo, che un elemento di razionalità per la collera affinché sia sotto controllo cosciente.

Ci sono tuttavia situazioni che non lasciano possibilità di scelta e fanno sentire l’individuo in trappola. Tali situazioni si vengono a creare quando l’Io della persona è meno identificato con le sensazioni del corpo, così accade che la collera può venire sfogata senza mediazione da parte dell’Io mentre la paura può straripare nel panico.

Le cause, per le quali un individuo può “sopravvivere” con l’Io non identificato con le proprie sensazioni corporee, vanno ricercate nel passato e nell’evoluzione, o sarebbe meglio parlare di involuzione, delle relazioni significative, poiché è su questo terreno che nascono e possono cristallizzarsi modalità di reazione, che certo si instaurano inizialmente mirando alla sopravvivenza dell’organismo, ma che risultano nella loro disfunzionalità una mutilazione della personalità adulta.

Si inseriscono in tale discorso tutte le situazioni in cui i bambini crescono in ambienti ostili, deprivanti, disorientanti, dove subiscono violenze fisiche o verbali o emotive, etc. Loro, i bambini, non hanno sufficienti strumenti per opporsi ai genitori e, davanti all’ostilità delle figure di riferimento affettivo, si ritrovano sotto scacco sia perché possono essere spaventati e non avere la possibilità di fuggire, sia perché possono sentirsi arrabbiati e impossibilitati ad esprimere il proprio sentire per le temute conseguenze.

In realtà la prima reazione che un bambino ha dinanzi ad una minaccia per la propria integrità fisica è quella di sentire rabbia. Il bambino che prova ad esprimere tale rabbia ed incontra la proibizione o punizione del genitore in risposta a tale espressione, deve reprimere il suo sentire e così si ritrova ad avere paura della sua stessa emozione. La paura del bambino di esprimere la rabbia verso i propri genitori diventa paralisi emozionale per lo stesso da adulto. Tale repressione non viene mai agita per scelta, ma per paura.

Inoltre, per i bambini la paura non è un’emozione contenibile e sopportabile come può esserlo per un adulto, la tensione che si viene a creare è fortissima, così si configura la via d’uscita nel ritiro fisico e psichico, nel rendersi insensibile attraverso la dissociazione dal corpo. Se poi questa dissociazione è solo una frattura o se diviene rottura totale, dipende da svariati fattori valutabili unicamente caso per caso, tra i quali sicuramente incide l’età in cui avvengono le situazioni traumatiche.

Comunque, in tutti i casi, l’organismo deve salvarsi dal sentire che lo paralizza e può farlo solo reprimendo lo stesso sentire, può negarlo o rimuoverlo e di conseguenza dissociarsi in qualche misura dal proprio corpo e dalla realtà, dissociandosi dalla propria paura, dalla propria rabbia, dal proprio senso di colpa.

Le conseguenze di questa dissociazione vengono trascinate nell’età adulta e, anche se gli adulti possono realisticamente provvedere alle proprie necessità, quando si riaprono determinate ferite e viene risvegliata la memoria psicocorporea del bambino impaurito, torna con inevitabile potenza la sensazione di non poter gestire ciò che viene ricordato come devastante. L’adulto che ha congelato la paura e con essa parte di se stesso, evita di affrontare coscientemente il suo problema riaprendo la propria ferita poiché ne porta dentro il segno e la memoria infantile di incontenibilità.

Affrontare qualcosa che si considera incontenibile e ingestibile mette l’individuo dinanzi all’antico rischio di sopravvivenza, affrontare un emozione incontenibile è possibile solo al prezzo del proprio equilibrio psichico. La paura di impazzire è tipica di questi stati dove in realtà ciò che si teme è il fatto di poter perdere il controllo, quel controllo dell’Io che ha salvato il bambino attraverso il ritiro e la dissociazione dal corpo.



Cristiana Gallo
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LA PAURA

Messaggioda Royalsapphire » 24/02/2016, 14:41



Osho: Le tre paure fondamentali


In situazioni di terapia di gruppo, ci sono sempre tre paure che affiorano nelle persone: la paura di impazzire, la paura dell’ orgasmo sessuale e la paura di morire.

· La paura di impazzire é essenzialmente la paura di stare da solo

· La paura dell’orgasmo é essenzialmente il senso di colpa

· La paura di morire é essenzialmente la paura di ciò che non si conosce.



Il commento di Osho sul tema delle tre paure fondamentali dell’ uomo é stato registrato durante un’intervista fattagli da Veeresh nel 1985.

L’ umanità ha vissuto in queste tre paure per migliaia di anni.

Esse non sono paure personali, ma collettive, provengono dall’inconscio collettivo.




LA PAURA DI IMPAZZIRE

La paura di impazzire é in ciascuno di noi, per la semplice ragione che all’ uomo non é stato permesso di sviluppare abbastanza la propria intelligenza. L’ intelligenza é pericolosa per gli interessi costituiti. Così per migliaia di anni sono state tagliate le radici profonde dell’ intelligenza.

In Giappone esiste un albero particolare che é ritenuto un’ opera d’arte. E’ semplicemente un crimine: questi alberi hanno quattrocento, cinquecento anni e sono alti sei pollici. Intere generazioni di giardinieri si sono presi cura di queste piante. La tecnica usata é la seguente: gli alberi vengono messi in vasi senza fondo, e i giardinieri continuano a tagliare le loro radici. Non viene permesso alle loro radici di affondare nella terra. Quando non permetti alle radici di affondare più in profondità, l’ albero cresce semplicemente vecchio, in realtà non cresce mai. E’ uno strano fenomeno questo albero. Sembra antico, ma é semplicemente perché é cresciuto vecchio, vecchio, vecchio e in realtà non é mai cresciuto. Non é mai fiorito, non ha mai dato frutti.

Questa é esattamente la situazione dell’uomo. Le sue radici sono state tagliate. L’uomo vive quasi senza radici, deve essere senza radici, così può essere dipendente dalla società, dalla cultura, dalla religione, dallo stato, dai genitori, da tutti. Deve dipendere da qualcuno, in quanto non ha radici.

Nel momento in cui l’uomo si rende conto che non ha radici, sente che sta impazzendo, sta diventando insano, sta perdendo ogni supporto, sta cadendo in un buco nero, poiché la sua conoscenza é presa in prestito, non é la sua. La rispettabilità é presa in prestito, in quanto lui stesso non ha rispetto per se stesso; tutta la sua personalità é presa in prestito da qualcuno: l’università, la chiesa, lo stato; lui non possiede niente.

Semplicemente immagina un uomo che vive in un grande palazzo nel lusso sfrenato. Improvvisamente un giorno gli viene detto che quel palazzo non gli appartiene e che neanche il lusso in cui vive gli appartiene. Sono cose che appartengono a qualcun altro, che sta arrivando e che lo manderà via. Probabilmente impazzirà per questo.

Così nella terapia profonda arrivi a toccare il punto della pazzia, che devi confrontare e permettere che affiori.In terapia, permettiti di vivere la situazione in cui senti di impazzire. Una volta che permetti alla tua pazzia di affiorare, sarai in grado di lasciare andare la paura. Ora sai cos’ é la pazzia: E’ sempre la paura di ciò che non si conosce.

Così permetti di vivere la tua pazzia, e presto tornerai in te, poiché non c’ e’ una vera ragione per questa paura. E’ una paura creata dalla società.

I genitori dicono:”se non fai ciò che diciamo, se disubbidisci, sarai punito.”

Le divinità ebraiche nel Talmud dicono:” Sono un Dio molto geloso, un Dio molto arrabbiato.” Ricordati che non sono buono, non sono tuo zio.

Tutte le religioni lo fanno.

Se appena lasci il tracciato segnato per la grande massa, dichiareranno che sei matto. Quindi tutti tendono ad aggrapparsi alla massa, cosi’ da appartenere ad una religione, ad una chiesa, ad una festa, a una nazione, a una razza.

Hai paura di essere lasciato solo ed e’ proprio ciò che fai quando vai profondamente nei tuoi sentimenti. Tutta la folla, tutti le tue connessioni spariscono: ti trovi da solo, nessuno da cui hai sempre dipeso é lí in quel momento. A meno che tu non decida di far crescere la tua intelligenza, rimarrai sempre con la paura di impazzire.

E non é solo questo, la società può farti impazzire in ogni momento. Se la società vuole farti impazzire, se questo va a suo favore, ti fará impazzire. In Unione Sovietica ciò accade quasi ogni giorno. Faccio l’ esempio dell’ Unione Sovietica perché fanno questo in modo scientifico, metodologico. Succede dappertutto nel mondo, ma in alcuni posti I metodi sono molto primitivi. Per esempio in India se una persona si comporta in un modo che non é approvato, viene rifiutato. Non può chiedere supporto a nessuno nel posto in cui vive. La gente non gli parla più. La sua famiglia gli chiude la porta in faccia. Questo uomo é destinato a diventare pazzo: lo stanno facendo impazzire.

La paura é entrata profondamente nell’ inconscio. Lo scopo della terapia é quello di liberare le persone dalla paura. Se si é liberi dalla paura, si é liberi dalla società, liberi dalla religione, liberi da dio, dal paradiso, dall’ inferno e da tutti i non-sensi.

Tutti questi non-sensi hanno significato a causa di questa paura, e affinché questi non-sensi abbiamo significato é stata creata la paura. E’ il crimine peggiore a cui si possa pensare. Viene fatto ai bambini in ogni momento in tutto il mondo. La gente che lo fa non ha intenzioni cattive, pensano che stiano facendo il meglio per i loro figli; I loro genitori li hanno condizionati, e loro hanno trasferito lo stesso condizionamento ai loro bambini. Fondamentalmente tutta l’umanità si muove al limite della pazzia.

Nella terapia profonda ad un certo punto la pazzia affiora poiché la persona perde le sue connessioni, I suoi supporti. La folla sparisce e tu ti senti solo. Improvvisamente c’ é l’ oscurità, e lì c’ é la paura. Non sei mai stato allenato per stare da solo, e questa é la funzione della meditazione.

Nessuna terapia é completa senza la meditazione, poiché solo la meditazione può restituirti le tue radici perdute, la tua forza per essere un individuo. Non c’é niente di cui avere paura. Il condizionamento che hai ti porta ad avere paura in ogni momento. L’ intera umanità vive nella paranoia, potrebbe vivere in paradiso, invece vive nell’ inferno.

La meditazione aiuta le persone a comprendere che non c’ é nulla di cui preoccuparsi, non c’é nulla di cui avere paura: si tratta di una paura creata. Puoi giocare con i serpenti senza paura, non sapere cos’ é la paura della morte. La meditazione riporta le persone alla loro infanzia, li fa rinascere, aiuta le persone a comprendere perché c’ é paura, fa chiarezza sul fatto che la paura é un fenomeno imposto sulle persone quindi non c’é motivo di preoccuparsi.

In questa situazione puoi permetterti di impazzire. Non avere paura, goditi la situazione in cui per la prima volta puoi essere pazzo e non essere condannato, ma amato e rispettato. Il gruppo deve rispettare la persona, amare questa persona: questa persona ha bisogno di ciò. Tornerà con I piedi per terra, con molta forza e integrità.


LA PAURA DELL’ ORGASMO SESSUALE

La seconda paura é relativa all’orgasmo sessuale. anche questa, é creata dalle religioni. Tutte le religioni esistono perché hanno condotto l’ uomo contro la sua stessa energia. Il sesso é l’intera energia dell’ uomo, la sua energia vitale. I profeti religiosi e i messìa, i messaggeri di dio, hanno fatto tutti lo stesso lavoro con parole differenti, con linguaggi differenti, ma il loro lavoro é lo stesso: portare l’uomo ad essere nemico di se stesso. La strategia di base é che, poiché il sesso é l’energia più potente in ogni individuo, il sesso dovrebbe essere condannato. Il senso di colpa dovrebbe essere creato, allora affiora il problema per l’individuo. La sua natura é sensuale, sessuale, e la sua mente é piena di spazzatura contro la sua natura. L’uomo si sente così in conflitto. Non puó né lasciare andare la sua mente, poiché lasciare andare la mente significa lasciare andare la società, la religione, il profeta, Gesù Cristo, dio, tutto. Egli non é capace di fare questo, a meno che non sia diventato un individuo e non sia in grado di stare da solo senza paura.

Così l’uomo ha paura del sesso poiché la sua mente ne é coinvolta, ma la sua biologia non ha niente a che vedere con la mente. La biologia non ha ricevuto alcuna informazione dalla mente. Non c’é comunicazione, la biologia ha il suo modo di funzionare. Così la biologia lo spinge verso il sesso, mentre la sua mente sarà sempre pronta a condannarlo. Quindi fa l’ amore, ma in fretta. Questa fretta ha una ragione molto psicologica. La fretta accade perché egli pensa che stia facendo qualcosa contro dio, contro la religione, si sente in colpa e non sa come gestire la situazione. Quindi l’unico compromesso possibile é di farlo, ma farlo in fretta, questo evita l’orgasmo.

Ora nascono implicazioni su implicazioni. Un uomo che non conosce l’orgasmo si sente inappagato, frustrato e arrabbiato, poiché egli non é mai stato nello stato che la natura gli fornisce liberamente, dove avrebbe potuto rilassarsi totalmente e diventare uno con l’esistenza almeno per pochi momenti. A causa di questa fretta non riesce a gestire l’ orgasmo. Il sesso per lui equivale all’ eiaculazione. ciò non é vero quando la natura é coinvolta. L’ eiaculazione é solo una parte che é possibile gestire senza avere l’ orgasmo. Infatti é possibile avere bambini, quindi la biologia non é preoccupata per il tuo orgasmo. La tua biologia é soddisfatta se fai bambini, essi possono essere riprodotti solo attraverso l’ eiaculazione, non c’é alcun bisogno di avere un orgasmo.

L’ orgasmo é un tremendo regalo della natura. Se l’uomo ne é privato, eiaculando velocemente, anche la donna ne é privata. La donna ha bisogno di tempo per scaldarsi. Tutto il suo corpo é erotico, e a meno che il suo corpo non venga stimolato con gioia, non sarà in grado di sperimentare l’ orgasmo, se non c’é tempo per ciò. Così per milioni di anni alle donne é stato completamente negato il loro diritto di nascita, ecco perché sono diventate così negative e sempre pronte a litigare. Non c’ é possibilità di avere una conversazione con una donna. Vivi con una donna per anni, ma non c’ é una sola conversazione che di cui ti ricordi, dove eravate seduti insieme a parlare delle cose belle della vita. No, tutto quello di cui ti ricordi sono i litigi, il tirarsi addosso le cose, l’ essere cattivi gli uni con gli altri.

La donna non é responsabile per tutto questo. E’ stata privata di ogni possibilità di vivere in beatitudine. Così é diventata negativa e ha dato una grande possibilità ai preti. Tutte le chiese sono piene di donne, poiché sono ancora più perdenti degli uomini. L’orgasmo dell’uomo é locale, il suo corpo non é erotico, così tutto il suo corpo non soffre quando non c’ é una esperienza orgasmica, ma tutto il corpo della donna invece soffre.

E’un buon business per le religioni. A meno che le persone non siano psicologicamente sofferenti, non vanno in chiesa, non ascoltano tutte le teologie idiote. Poiché invece soffrono, vogliono essere consolati. Vogliono una speranza almeno dopo la morte. In vita lo sanno che non hanno speranza. Ciò ha dato alle religioni la possibilità di mostrare alla gente che il sesso é assolutamente futile. Non ha significato. Stai inutilmente perdendo la tua energia. I loro argomenti sembrano corretti, poiché non hai mai sperimentato altro, così impedendo l’ esperienza orgasmica le religioni hanno reso schiavi sia gli uomini che le donne.

Ora lo stesso tipo di schiavitù funziona per altri interessi costituiti: l’ultimo prete è lo psicoanalista. Sta sfruttando la stessa cosa. Ero stupito di sapere che quasi tutti i nuovi preti, in particolare i Cristiani, studiano psicologia nei loro collegi teologici. La psicologia e la psicoanalisi sono diventati una parte necessaria alla loro educazione. Ora cosa ha a che vedere la psicologia con la Bibbia? Cosa ha a che fare la psicoanalisi con Gesù Cristo? I preti hanno una formazione in psicologia e psicoanalisi poiché è chiaro che il vecchio prete sta scomparendo, sta perdendo il tuo carisma con la gente si deve aggiornare, così che non solo può funzionare come un prete religioso, ma anche come uno psicoanalista e psicologo. Naturalmente lo psicologo non può competere con lui, che ha qualcosa in più: la religione. Tutto ciò è successo attraverso la semplice condanna del sesso.

Così quando nei gruppi trovi persone che hanno paura dell’orgasmo, aiutali a capire che tale orgasmo li farà diventare più sani, più intelligenti, meno arrabbiati, meno violenti, più amabili. L’orgasmo restituirà loro le radici che sono state tolte, perciò non preoccuparti.

Insieme alla paura dell’orgasmo c’è anche la paura di impazzire. Se durante l’orgasmo una persona impazzisce, aiutalo a impazzire. Solo così sarà in grado di provare l’orgasmo nella sua totalità.

L’orgasmo rilassa ogni fibra della tua mente, del tuo cuore, del tuo corpo. E’ immensamente importante per la meditazione che l’altra persona abbia l’esperienza dell’orgasmo. In questo modo puoi fargli capire cosa è la meditazione. E’ una esperienza orgasmica con l’intera esistenza. L’orgasmo può essere così bello, così benefico, così salutare, con un singolo essere umano; la meditazione ti porta a essere uno con tutto ciò che ti circonda, dal più piccolo filo d’erba alla stella più grande, milioni di anni luce lontana.

Il punto è sempre la prima esperienza: così poi lo sai, che la tua pazzia non era pazzia, ma una specie di esplosione di gioia. Ciò poi si raffredda e ti lascia più sano, più integro e più intelligente. In questo modo la paura dell’orgasmo sparisce, e con ciò è finita con la religione, con la psicoanalisi e con tutti i non sensi per i quali le persone pagano così tremendamente.


LA PAURA DELLA MORTE

La terza paura, dici, è quella della morte. La prima è quella di stare da solo. Molta della paura della morte sarà distrutta dalla prima esperienza di essere solo e non avere paura. La paura della morte sarà immediatamente distrutta dall’esperienza dell’orgasmo. Nell’orgasmo la persona sparisce. L’ego non c’è più. C’è uno sperimentare, ma non c’è più lo sperimentatore.

Questi primi due passi ti aiuteranno a risolvere il terzo passo molto facilmente. In ogni fase devi andare avanti a sviluppare la tua capacità di meditare. Qualsiasi terapia senza meditazione non può aiutare molto. E’ solo un toccare qua e là superficiale, e presto l’uomo sarà di nuovo lo stesso. Una vera trasformazione non è mai successa senza la meditazione. Queste sono situazioni bellissime nel momento in cui è coinvolta la meditazione.

Utilizza la prima paura per sentire la solitudine; usa la seconda paura per trovare il coraggio di lasciare andare tutti i pensieri; semplicemente diventa pazzamente orgasmico, non preoccuparti di cosa succede, siamo qui per prenderci cura di te. Con queste due fasi, la terza sarà molto facile. Questa è la più facile. Sembra la più grande paura dell’uomo, non è vero. Non conosci la morte, come puoi averne paura? Hai sempre visto gli altri morire, non hai mai visto te stesso morire. Chi lo sa, forse sei un’eccezione? Poiché non c’è alcuna prova che morirai! Quelli che sono morti hanno dato prova della loro mortalità.

Quando ero all’università e imparavo logica dal mio professore, in ogni libro di logica, in ogni università nel mondo era scritto lo stesso sillogismo aristotelico “L’uomo è mortale, Socrate è un uomo quindi Socrate è mortale”. Quando mi è stato insegnato questo sillogismo per la prima volta mi sono alzato in piedi e ho detto: “Aspetta, potrei essere un’eccezione! Fino ad ora sono stato un’eccezione, perché non domani? Riguardo a Socrate accetto che il sillogismo è vero, perché è morto, ma riguardo me? Riguardo a te? Riguardo a tutte le persone viventi? Esse non sono ancora morte!

E’ semplicemente sperimentando la morte di gente che muore nel disgusto, nella miseria, nella sofferenza, in ogni forma di sofferenza, nella vecchiaia, che ti fa venire la paura della morte. Nessuno ha conosciuto la morte di un uomo illuminato, come è bello quando muore, come è gioioso quando muore. Il momento della sua morte è tremendamente luminoso, silenzioso, come se la gioia irradia da ogni poro del suo essere. Coloro che sono vicino a lui saranno semplicemente stupiti dal fatto che la morte è così tanto più gloriosa di quanto non lo sia stata la vita. Questo tipo di morte accade solamente alle persone che sono state totali nella loro vita, senza paura. Coloro che hanno vissuto orgasmicamente, senza farsi disturbare da quello che dicono gli idioti.

La paura della morte sarà la più semplice delle tre. Hai risolto le prime due. Allora puoi dire alla persona che la morte non è la fine della vita. Se mediti profondamente, e raggiungi il tuo centro più profondo, improvvisamente troverai una corrente di vita eterna. I corpi ne hanno molte. Ci sono state tante forme prima di raggiungere il tuo essere, ma tu sei semplicemente lo stesso; non è solamente una credenza, deve diventare la loro esperienza.

Quindi ricorda una cosa: i tuoi gruppi di terapia non dovrebbero essere terapia ordinaria, un semplice un lavaggio per dare all’uomo la sensazione che ha imparato qualcosa, che ha sperimentato qualcosa, e dopo una settimana o due è lo stesso, Non c’è una singola persona al mondo che è totalmente psicoanalizzata. Ci sono migliaia di psicoanalisti che fanno psicoanalisi. Non c’è un singolo caso che è stato mai completato, per la semplice ragione che non hanno niente a che fare con la meditazione. Senza la meditazione puoi andare avanti a dipingere la superficie, ma la realtà interiore rimane la stessa.

I miei terapisti devono introdurre la meditazione come il vero centro della terapia. Tutto il resto dovrebbe essere risolto intorno a ciò. Allora abbiamo fatto della terapia qualcosa di veramente valido. Allora non è solamente il bisogno di quelli che sono malati, o di coloro che sono in qualche modo mentalmente squilibrati, o di coloro che sentono paura, gelosia, violenza… questa è la parte negativa della terapia. La nostra terapia dovrebbe essere tale per cui restituiamo alle persone la loro individualità, diamo loro integrità, in modo che non abbiano paura della morte. Una volta che la paura della morte sparisce, tutte le altre paure sono molto piccole; esse seguiranno e semplicemente scompariranno. Dobbiamo insegnare alla gente come vivere in modo totale e integro, contro gli insegnamenti di tutte le religioni. Loro insegnano la rinuncia, io insegno la gioia.

Osho
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LA RABBIA

Messaggioda Royalsapphire » 22/03/2016, 9:12



Che cos'è la rabbia? La rabbia è una emozione tipica, considerata fondamentale da tutte le teorie psicologiche poiché per essa è possibile identificare una specifica origine funzionale, degli antecedenti caratteristici, delle manifestazioni espressive e delle modificazioni fisiologiche costanti, delle prevedibili tendenze all'azione. Essendo un'emozione primitiva, essa può essere osservata sia in bambini molto piccoli che in specie animali diverse dell'uomo.

Quindi, insieme alla gioia e al dolore, la rabbia è una tra le emozioni più precoci.
Essendo l'emozione la cui manifestazione viene maggiormente inibita dalla cultura e dalle società attuali, molto interessanti risultano gli studi evolutivi, in grado di analizzare le pure espressioni della rabbia, prima cioè che vengano apprese quelle regole che ne controllano l'esibizione. Inoltre, la rabbia fa parte della triade dell'ostilità insieme al disgusto e al disprezzo, e ne rappresenta il fulcro e l'emozione di base. Tali sentimenti si presentano spesso in combinazione e pur avendo origini, vissuti e conseguenze diverse risulta difficile identificare l'emozione che predomina sulle altre. Moltissimi risultano essere i termini linguistici che si riferiscono a questa reazione emotiva: collera, esasperazione, furore ed ira rappresentano lo stato emotivo intenso della rabbia; altri invece esprimono lo stesso sentimento ma di intensità minore, come: irritazione, fastidio, impazienza.

Da dove nasce la rabbia?
Per la maggior parte delle teorie la rabbia rappresenta la tipica reazione alla frustrazione e alla costrizione, sia fisica che psicologica.
Pur rappresentandone i denominatori comuni, la costrizione e la frustrazione non costituiscono in sé le condizioni sufficienti e neppure necessarie perché si origini il sentimento della rabbia. La relazione causale che lega la frustrazione alla rabbia non è affatto semplice. Altri fattori sembrano infatti implicati affinché origini l'emozione della rabbia. La responsabilità e la consapevolezza che si attribuisce alla persona che induce frustrazione o costrizione sembrano essere altri importanti fattori.

Ancor più delle circostanze concrete del danno, quello che più pesa nell'attivare una emozione di rabbia sembra cioè essere la volontà che si attribuisce all'altro di ferire e l'eventuale possibilità di evitare l'evento o situazione frustrante.
Insomma ci si arrabbia quando qualcosa o qualcuno si oppone alla realizzazione di un nostro bisogno, soprattutto quando viene percepita l'intenzionalità di ostacolare l'appagamento.

Contro chi ci si arrabbia?

L'emozione della rabbia può essere quindi definita come la reazione che consegue ad una precisa sequenza di eventi

stato di bisogno
oggetto (vivente o non vivente) che si oppone alla realizzazione di tale bisogno
attribuzione a tale oggetto dell'intenzionalità di opporsi
assenza di paura verso l'oggetto frustrante
forte intenzione di attaccare, aggredire l'oggetto frustrante
azione di aggressione che si realizza mediante l'attacco.

Questo è quello che avviene in natura, anche se l'evoluzione sembra aver plasmato forti segnali che inducono la paura e di conseguenza la fuga, impedendo cosi l'aggressione dell'avversario. Nella specie umana, di solito, si assiste non solo ad una inibizione della tendenza all'azione di agg ressione e attacco ma addirittura al mascheramento dei segnali della rabbia verso l'oggetto frustrante. Nella specie umana, la cultura e le regole sociali a volte impediscono di dirigere la manifestazione e l'azione direttamente verso l'agente che scatena la rabbia.

Tre possono quindi essere i fondamentali destinatari finali della nostra rabbia:

oggetto che provoca la frustrazione
un oggetto diverso rispetto a quello che provoca la frustrazione (spostamento dall'obiettivo originale)
la rabbia può infine essere diretta verso se stessi, trasformandosi in autolesionismo ed auto aggressione.

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Come il corpo manifesta la rabbia?
Per quanto siano estremamente forti le pressioni contro la manifestazione della rabbia, essa possiede una tipica espressione facciale, ben riconoscibile in tutte le culture studiate. L'aggrottare violento della fronte e delle sopracciglia e lo scoprire e digrignare i denti, rappresentano le modificazioni sintomatiche del viso che meglio esprimono l'emozione della rabbia. Tutta la muscolatura del corpo può estendersi fino all'immobilità.
Le sensazioni soggettive più frequenti possono essere: la paura di perdere il controllo, l'irrigidimento della muscolatura, l'irrequietezza ed il calore. La voce si fa più intensa, il tono sibilante, stridulo e minaccioso. L'organismo si prepara all'azione, all'attacco e all'aggressione. Le variazioni psicofisiologiche sono quelle tipiche di una forte attivazione del sistema nervoso autonomo simpatico, ossia: accelerazione del battito cardiaco, aumento della pressione arteriosa e dell'irrorazione dei vasi sanguigni periferici, aumento della tensione muscolare e della sudorazione. Gli studi sugli effetti dell'inibizione delle manifestazioni aggressive sembrano indicare che chi non esprime in alcun modo i propri sentimenti di rabbia tende a viverli per un tempo più lungo.

Quali sono le funzioni della rabbia?
Le modificazioni psicofisiologiche che si manifestano attraverso la potente impulsività e la forte propensione all'agire con modalità aggressive sono funzionali alla rimozione dell'oggetto frustrante. La rabbia è sicuramente uno stato emotivo che aumenta nell'organismo il propellente energetico utilizzabile per passare alle vie di fatto, siano queste azioni oppure solo espressioni verbali. La rimozione dell'ostacolo che si oppone alla realizzazione del bisogno può avvenire sia attraverso l'induzione della paura e la conseguente fuga sia mediante un violento attacco.
Le numerose ricerche compiute sui comportamenti di specie diverse dall'uomo, hanno dimostrato che l'ira e le conseguenti manifestazioni aggressive sono determinate da motivi direttamente o indirettamente legati alla sopravvivenza dell'individuo e delle specie. Gli animali spesso attaccano perché qualcosa li spaventa oppure perché vengono aggrediti da predatori, per avere la meglio sul rivale sessuale, per cacciare un intruso dal territorio o per difendere la propria prole.

Negli uomini invece, i motivi alla base di un attacco di rabbia riguardano maggiormente la frustrazione di attività che erano connesse con l'immagine e la realizzazione di sé. Lo scopo in questo caso sembra più rivolto a modificare un comportamento che non si ritiene adeguato. L'arrabbiarsi, motivando chiaramente le motivazioni dello scontento, sembra infatti essere una procedura per ottenere un utile cambiamento.


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IL DISPREZZO

Messaggioda Royalsapphire » 22/03/2016, 9:13



A cura della Dott.ssa E. Maino
Tutti noi, anche se probabilmente con modalità ed intensità diverse, proviamo emozioni e quotidianamente sperimentiamo quanto i nostri pensieri e comportamenti siano da esse influenzati. Le emozioni, oltre a dare colore alla nostra esistenza, hanno anche un valore evolutivo e adattivo per l'individuo e la specie. Tale assunto è valido non solo per le emozioni più semplici e universalmente riconosciute, ma anche per le emozioni complesse maggiormente connesse all'interazione sociale.
Viene qui analizzato il valore adattivo ed il manifestarsi di due emozioni tra loro connesse che sono l'emozione fondamentale del disgusto e quella complessa del disprezzo.

Il valore adattivo delle emozioni

In misura maggiore o minore, tutti noi proviamo emozioni e sperimentiamo quanto i nostri pensieri e comportamenti siano da esse influenzati. Del resto le emozioni svolgono una funzione molto importante per l'individuo e hanno un valore evolutivo per la specie in quanto sono in grado di trasmettere rapidamente un contenuto semplice ma di grande valore adattivo.
Pensiamo ad esempio alle cosiddette emozioni fondamentali quali felicità, tristezza, paura, rabbia, disgusto. Queste ultime sono attivate da categorie di individui o di oggetti che possiedono un alto significato per l'individuo e la specie: in questo senso, felicità e tristezza sono le tipiche emozioni connesse alla presenza o alla perdita delle figure di attaccamento, quali ad esempio le figure genitoriali, il partner, i figli, i compagni o gli amici; al contrario la paura e la rabbia sono evocate da concorrenti, da nemici o da eventi nel territorio; infine il disgusto è collegato con il cibo e segnala la presenza di sostanze dannose (D'Urso, 1990).

Allo stesso modo anche le emozioni complesse, quali ad esempio l'imbarazzo, la vergogna, il senso di colpa, l'invidia, la gelosia, il disprezzo, hanno un loro valore adattivo. Infatti tali emozioni, essendo strettamente connesse al modo di percepire se stessi e il proprio modo di relazionarsi con l'ambiente esterno, consentono all'individuo di modulare al meglio le sue relazioni sociali. Da questo punto di vista appare interessante descrivere e confrontare, a partire da una prospettiva evolutiva ed adattiva, due emozioni che, sebbene abbiano ricevuto meno attenzione di altre, sono comunque importanti da un punto di vista funzionale e cioè: l'emozione fondamentale del disgusto e l'emozione ad essa vicina, ma più complessa quale il disprezzo.

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Il valore adattivo del disgusto e del disprezzo

A differenza della maggior parte delle emozioni, il disgusto ha per stimolo scatenante non un essere vivente, ma un qualcosa di inanimato rappresentato essenzialmente dal cibo. Il disgusto è considerato un'emozione fondamentale, è riconosciuto universalmente nelle sue manifestazioni e secondo l'interpretazione corrente ha la funzione di proteggere dal rischio di entrare in contatto e specialmente di ingerire sostanze potenzialmente dannose.
Si prova disgusto principalmente di fronte a stimoli sensoriali: vedere, toccare o essere colpiti dall'odore di qualcosa che ispira repulsione, spinge ad allontanare dal proprio campo percettivo l'oggetto disgustoso, distogliendo lo sguardo, scuotendo le dita o sputandolo se lo si era già messo in bocca (Garotti, 1992).
Anche il disprezzo ha una valenza adattiva. In una prospettiva evoluzionistica lo si può considerare come una modalità espressiva che serve per preparare l'individuo o il gruppo a fronteggiare un avversario pericoloso, un nemico (D'Urso e Trentin, 1992). Come il disgusto, anche il disprezzo mette in guardia l'individuo da situazioni potenzialmente pericolose, ma a differenza del disgusto, sembra essere un'emozione più evoluta in quanto ha come referente principale non un oggetto inanimato, ma un essere vivente ed è connesso con l'interazione sociale. Da questo punto di vista il disprezzo è considerato un'emozione complessa non solo, come si è visto, per il suo referente, ma anche perché è riconosciuto con minore facilità rispetto ad altri stati emotivi primari e perché si manifesta più tardi: infatti l'emozione del disprezzo compare tra i 15 e i 18 mesi d'età e si ipotizza che su di essa e sulla sua espressione influiscano le regole sociali e culturali che il bambino apprende durante il suo sviluppo (Izard e Buechler, 1979).

Come si manifestano

Il disgusto è riconosciuto e si manifesta in modo universale tramite un'espressione facciale molto caratteristica e poco controllabile che consiste principalmente nell'arricciare le narici e nell'allargare la bocca come per spingere fuori il suo contenuto. L'emozione del disgusto, quando è particolarmente intensa, è accompagnata da nausea e vomito. Generalmente di fronte ad un oggetto che provoca disgusto tutto il corpo si contrae e cerca di allontanarsi dall'oggetto in questione. Inoltre spesso, in concomitanza a questi comportamenti, si emettono vocalizzazioni che sono riconoscibili come segnali di ribrezzo. Esistono alcune somiglianze nel modo di manifestare fisicamente disprezzo e disgusto: infatti l'espressione facciale del disprezzo si differenzia dall'espressione del disgusto solo per la minore intensità e, qualora il disprezzo verso una persona sia molto forte, esso può manifestarsi come ripugnanza o nausea esprimendosi in maniera molto simile al disgusto per un odore ripugnante (D'Urso e Trentin, 1992).

Una caratteristica peculiare dell'emozione del disprezzo, rispetto al disgusto e ad altre emozioni, è invece definita dal ruolo importante svolto dalle reazioni verbali: in particolare queste ultime comprendono la battuta ironico/sarcastica, lo scherno, la derisione e nei casi estremi l'insulto (Garotti, 1982).

A cosa sono legati il disgusto ed il disprezzo

Rozin e Fallon (1987), gli psicologi che più recentemente hanno studiato l'emozione del disgusto, ritengono che l'oggetto che scatena questa emozione sia quasi sempre di origine animale; può essere un animale vivo e integro (come ad esempio uno scarafaggio), la parte di un essere vivente (come un arto amputato) o pezzi di origine animale (come il sangue o le budella). Inoltre, nonostante si sia rilevato che gli oggetti che ispirano disgusto variano da cultura a cultura più che da individuo ad individuo ne esistono alcuni, come le feci, l'urina il muco, che unificano tutti gli abitanti della terra in una repulsione unanime.

L'emozione del disprezzo, al contrario, viene espressa prevalentemente nelle situazioni di interazione sociale. In particolare, secondo Garotti (1982), il disprezzo verso un altro individuo è provocato soprattutto da comportamenti trasgressivi di norme morali, dal tradimento della fiducia, dalla trasgressione di convenzioni sociali, da comportamenti aggressivi e violenti, da atteggiamenti immotivati di superioriorità, da insincerità e falsità.
Si è anche visto che ci sono differenze significative tra maschi e femmine nello sperimentare disprezzo: per i maschi il tradimento della fiducia e atteggiamenti immotivati di superiorità sono le cause scatenanti più frequenti; viceversa per le femmine le cause scatenanti più rappresentate sono le trasgressioni di norme morali e la falsità.

Conclusioni

Da quanto sin qui riportato emerge come anche le emozioni del disgusto e del disprezzo, emozioni alle quali la letteratura ha concesso una minor attenzione rispetto ad altre, siano estremamente funzionali al benessere dell'individuo e alla preservazione della specie. Infatti, da un lato tra le funzioni più antiche dell'emozione del disgusto c'è quella di impedire che l'organismo entri in contatto, ingererendoli, inalandoli o toccandoli, con alimenti o sostanze potenzialmente dannosi per l'organismo; dall'altro l'emozione più complessa e più evoluta del disprezzo consente all'individuo di modulare, rendendole più funzionali, le proprie relazioni sociali e di confrontarsi, anche nell'immediatezza del vissuto emotivo, con valori e norme di comportamento socialmente condivise.


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LE EMOZIONI

Messaggioda Royalsapphire » 22/03/2016, 9:16



Il cuore che pulsa, le mani sudate, il respiro affannato, il tremore degli arti che accompagna, ad esempio, sensazioni di intensa paura, sono correlati fisiologici molto evidenti dell'emozione.

LE EMOZIONI

L'emozione, specialmente se intensa, può provocare alterazioni somatiche diffuse: il sistema nervoso centrale influenza le reazioni mimiche (l'espressione del viso), la tensione muscolare; il sistema vegetativo e le ghiandole endocrine, la secrezione di adrenalina, l' accelerazione del ritmo cardiaco e altre risposte viscerali.

cercherà di aiutarti a comprendere in cosa consiste l'emozione, adottando un approccio cognitivo-comportamentale.

Secondo tale approccio, l’emozione rappresenta un comportamento di risposta profondamente legato alle motivazioni , che si manifesta a tre diversi livelli:

psicologico
comportamentale
fisiologico

Ma...quali sono le motivazioni del comportamento umano? che cos'è l'emozione? quante e quali sono le emozioni?

L’insieme degli eventi che si succedono tra la comparsa dello stimolo scatenante l’attivazione dei tre sistemi di risposta (sensazione soggettiva - comportamento - variazioni fisiologiche)

Motivazioni

Comunemente si pensa di dedurre le motivazioni dal comportamento; in realtà lo stesso comportamento può essere causato da motivazioni diverse. Uno studente può passare tre ore a studiare per interesse per la materia, per compiacere un genitore o per primeggiare sui compagni e sentirsi importante.Ci sono infatti vari tipi di disaccordo tra attività e obiettivo:

lo stesso obiettivo può essere raggiunto con diversi comportamenti
differenti obiettivi possono essere raggiunti con lo stesso comportamento
un comportamento può essere strumentale al raggiungimento di differenti obiettivi

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Per meglio definire le motivazioni profonde del comportamento umano sono state sviluppate molte teorie, citiamo le più importanti: la teoria psicoanalitica , la teoria comportamentistica e la teoria cognitiva .

Secondo la teoria psicoanalitica di Freud le pulsioni fondamentali sono il sesso e l'aggressività. La teoria comportamentistica sottolinea l'importanza della relazione stimolo-risposta e dell'apprendimento nello sviluppo del comportamento.La teoria cognitiva può essere definita come la teoria della scelta preferenziale; cioè la decisione di impegnarsi in una certa attività piuttosto che in altre ed il grado di partecipazione si determinano sulla base di considerazioni di carattere cognitivo.

Che cos’è l’emozione?

Sebbene l’emozione si realizzi all’interno della complessa relazione tra l’individuo e l’ambiente, è utile, per chiarirne gli aspetti, considerarla come indotta da una specifica condizione stimolo.In altre parole, l’emozione è un esempio di comportamento rispondente , comportamento cioè dove può essere individuato uno stimolo scatenante , legato alle motivazioni profonde.

L’emozione può essere definita come quella complessa catena di eventi compresa tra la comparsa dello stimolo scatenante (INPUT) e l’esecuzione del comportamento rispondente (OUTPUT).

Tre sono i diversi livelli o sistemi di risposta attraverso i quali si manifesta l’emozione:

Il primo sistema, detto psicologico, comprende i resoconti verbali relativi all’esperienza soggettiva, come ad esempio: “ho provato una intensa sensazione di rabbia quando ......”.
Il secondo sistema, denominato comportamentale, riguarda invece le manifestazioni motorie dell’emozione, come ad esempio il comportamento di evitamento, di avvicinamento, di attacco e la fuga ecc., e le modificazioni dell’atteggiamento posturale e dell’espressione facciale.
Infine, vi è il livello fisiologico, prevalentemente rappresentato delle modificazioni fisiche: ad esempio negli effettori innervati dal sistema nervoso autonomo, quindi alterazioni della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa, dell'irrorazione vascolare facciale (l’arrossire), l’aumento della sudorazione delle mani, o le modificazione del ritmo respiratorio. Tutte queste variazioni sono connesse con, e anche indotte da, modificazioni di tipo endocrino, per esempio del sistema ipofisi-corticosurrenale (ACTH e cortisolo) o della midollare del surrene (adrenalina e noradrenalina).

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Nessuno di questi tre sistemi (psicologico, comportamentale e fisiologico) è prioritario rispetto agli altri, ma piuttosto ognuno risulta strettamente connesso agli altri in una globale risposta emozionale. I tre sistemi cioè interagiscono tra loro pur essendo parzialmente indipendenti.
Concludendo, l’emozione risulta essere un “insieme di risposte”.

Quante e quali sono le emozioni? Possiamo ipotizzare che la moltitudine delle esperienze emotive sia spiegabile mediante una decina di emozioni fondamentali o primarie. Plutchik (1970, 1980) ha suggerito un modello efficace (parzialmente verificato sul piano empirico per la classificazione delle espressioni facciali). Tre sono le fondamentali dimensioni rappresentate in questo modello: intensità, polarità e somiglianza.

Immagine


Il cerchio rappresenta la somiglianza e la polarità delle otto emozioni primarie. L’intensità può variare su un asse ortogonale al cerchio, per esempio la paura aumentando può divenire terrore, diminuendo può divenire apprensione.

Immagine


Il modello sembra essere in grado di spiegare la maggior parte delle emozioni umane, ciascuna delle quali può essere considerata come una combinazione di queste emozioni primarie.
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IL NARCISISMO: MITO, FENOMENOLOGIA E COMPRENSIONE PSICODINAMICA

Messaggioda Royalsapphire » 22/03/2016, 9:17



IL NARCISISMO: MITO, FENOMENOLOGIA E COMPRENSIONE PSICODINAMICA


A cura di Monica Barassi, Psicologa e Socia fondatrice dell’Associazione Psicologia in Movimento

Il mito
Il narcisismo patologico è uno dei disturbi di personalità più frequenti nell’epoca contemporanea. Le origini della tematica si rintracciano nella letteratura classica; nella mitologia greca, infatti, è presente la narrazione della vicenda di Narciso, figlio di Cefiso, divinità fluviale, e della ninfa Liriope.
Secondo il mito narrato da Ovidio nelle “Metamorfosi” Narciso era un bellissimo giovane, di cui tutti, sia donne che uomini, si innamoravano alla follia. Tuttavia Narciso preferiva passare le sue giornate cacciando, non curandosi delle sue spasimanti; tra queste era la ninfa Eco, condannata da Giunione a ripetere le ultime parole che le venivano rivolte, poiché le sue chiacchiere distraevano la dea, impedendole di scoprire gli amori furtivi di Giove. Rifiutata da Narciso la ninfa, consumata dall'amore, si nascose nei boschi fino a scomparire e a restare solo un'eco lontana. Non solo Eco, ma tutte le giovani ed i giovani disprezzati da Narciso, invocarono la vendetta degli dei. Narciso venne condannato, da Nemesi, ad innamorarsi della sua immagine riflessa nell’acqua. Disperato perché non avrebbe potuto soddisfare la passione che nutriva, si struggeva in inutili lamenti, ripetuti da Eco. Resosi conto dell'impossibilità del suo amore Narciso si lasciò morire. Quando le Naiadi e le Driadi cercarono il suo corpo per poterlo collocare sul rogo funebre, trovarono vicino allo specchio d'acqua il fiore omonimo. Si narra che Narciso, quando attraversò lo Stige, il fiume dei morti, per entrare nell'Oltretomba, si affacciò sulle acque del fiume, sempre sperando di vedersi riflesso. Ma non riuscì a scorgere nulla a causa della natura torbida, limacciosa di quelle acque. In fin dei conti però, Narciso fu contento di non vedere la sua immagine riflessa perché questo veniva a significare che il fanciullo-sè stesso che amava, non era morto ancora. Nella versione beotica il giovane Narciso, cittadino di Tepsi, venne condannato ad amare la sua immagine, quando Amenia, una giovane del luogo da lui rifiutata sprezzantemente, si tolse la vita davanti alla sua casa, con la stessa spada che Narciso gli aveva inviato come macabro invito a non dargli più noia.
Il mito di Narciso rivive anche nella commedia del drammaturgo e poeta inglese William Shakespeare (1564-1616), attraverso il personaggio di Malvolio, il quale appare all’osservazione del pubblico come inequivocabilmente affetto da un eccessivo amore per se stesso associato alla tendenza a prendere lievi offese per attacchi devastanti.

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Fenomenologia e comprensione psicodinamica
Passando dalla narrazione del mito alla spiegazione fenomenologia del narcisismo vi è da dire, anzitutto, che la differenza tra i livelli di narcisismo sano e narcisismo patologico è molto difficile da cogliere. Una certa dose di amor proprio, stima e rispetto di sé, non solo è normale ma bensì auspicabile in ogni individuo. Non è facile da identificare il punto lungo un immaginario continuum dell’amore di sé, dove il sano narcisismo si tramuta in narcisismo patologico.
Quali criteri adottare, dunque, per cogliere tale distinzione? Senz’altro il criterio della valutazione della fase del ciclo di vita che un individuo attraversa, è un utile indicatore, basti pensare, ad esempio, alla valutazione benigna che si prova verso un ragazzo adolescente, che passa ogni mattina un’ora allo specchio prima di uscire per rendere perfetto ogni capello della propria acconciatura. Al contrario, l’opinione non favorevole che susciterebbe un uomo trentenne impegnato nella stessa operazione, forse eccessiva a quella ètà, e, infine, nuovamente l’empatia e il senso di comprensione che scaturirebbe dall’osservare un uomo di 45 anni, alle prese con la crisi di mezza età, anch’esso assorbito a lungo davanti allo specchio a trovare l’acconciatura per lui più gradevole.
Anche la considerazione e la stima delle differenze culturali in cui un individuo è immerso, possono aiutare a valutare laddove la dose di narcisismo sia sana e quando, invece, eccessiva. Senz’altro la società contemporanea occidentale è improntata a una cultura narcisistica, dove i mass media inducono a fare propri i valori dell’estetica, dell’immagine, dell’apparire a discapito dell’essere, della profondità e della sostanza delle cose e dove la paura dell’invecchiare e della morte sono rimosse e negate. Se, dunque, le differenze evolutive e le influenze culturali sono validi indicatori, tuttavia, le forme sane o patologiche del narciso, sono però soprattutto identificabili andando a considerare la qualità delle relazioni oggettuali del soggetto. Infatti, nell’ambito della sfera delle relazioni interpersonali, una costante che caratterizza il soggetto affetto da narcisismo patologico è la sofferenza, il vuoto e la solitudine associate alla incapacità d’amare.
Da una parte, nelle relazioni interpersonali del sano narcisista, si possono individuare alcune caratteristiche fondamentali quali: empatia e preoccupazione per i sentimenti dell’altro, genuino interesse per le idee altrui, capacità di tollerare l’ambivalenza nelle relazioni di lunga durata, senza pervenire a una rottura e riconoscere il proprio contributo nei conflitti interpersonali. Dall’altra, invece, nelle relazioni interpersonali del narcisista patologico si riscontra che: si accosta agli altri trattandoli come oggetti da usare e da abbandonare secondo i bisogni narcisistici, incurante dei loro sentimenti, che non vive gli altri come persone che hanno un’esistenza separata o bisogni propri, spesso interrompe una relazione dopo un breve periodo di tempo, quando il partner comincia a porre richieste relative ai propri bisogni.

Nella letteratura psicologica, molti autori si sono occupati della descrizione dei vari aspetti del continuum fra narcisismo sano e patologico. Fra essi, spiccano i nomi di Kohut, che ha descritto la tipologia del narcisista ipervigile: ovvero un tipo vulnerabile, tendente alla frammentazione di sé, fortemente sensibile alle reazioni degli altri, inibito, schivo o persino portato ad eclissarsi e ad evitare di essere al centro dell’attenzione e di Kernberg, che ha descritto la tipologia del narcisista inconsapevole, un tipo invidioso, avido, che richiede attenzione ed acclamazione da parte degli altri, non ha consapevolezza delle reazioni degli altri, arrogante e aggressivo, “trasmittente”, ma non “ricevente”.
Sebbene queste tipologie possano presentarsi in forma pura, molti individui mostrano una miscela di caratteristiche fenomenologiche di entrambi i tipi.

Il criterio diagnostico DSM-IV
La diagnosi secondo il criterio DSM IV - Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders richiede che almeno cinque dei seguenti sintomi siano presenti in modo tale da formare un pattern pervasivo, cioè che rimane tendenzialmente costante in situazioni e relazioni diverse:

Senso grandioso del sé ovvero senso esagerato della propria importanza
Occupato/a in fantasie di successo illimitato, di potere, di effetto sugli altri, di bellezza o di amore ideale
Crede di essere "speciale" e unico/a, e di poter essere capito/a solo da persone speciali; o è eccessivamente preoccupato da ricercare vicinanza/essere associato a persone di status molto alto in qualche ambito
Desidera o richiede un’ammirazione eccessiva rispetto al normale o al suo reale valore
Ha un forte sentimento di propri diritti e facoltà, è irrealisticamente convinto che altri individui/situazioni debbano soddisfare le sue aspettative
Approfitta degli altri per raggiungere i propri scopi, e non ne prova rimorso
È carente di empatia: non si accorge (non riconosce) o non dà importanza a sentimenti altrui, non desidera identificarsi con i loro desideri
Prova spesso invidia ed è generalmente convinto che altri provino invidia per lui/lei
Modalità affettiva di tipo predatorio (rapporti di forza sbilanciati, con scarso impegno personale, desidera ricevere più di quello che dà, che altri siano affettivamente coinvolti più di quanto lui/lei lo è).

Diffusione
Secondo i dati riportati dall'American Psychiatric Association (APA) il disturbo narcisistico di personalità è diagnosticabile in circa l'1% della popolazione adulta. Esistono tuttavia stime più elevate, che collocano il dato tra il 2% e il 4%. Tra i pazienti ricoverati la diffusione del disturbo aumenta molto (tra il 2% e il 16%). La diffusione di questa patologia non sembra ubiquitaria, bensì fortemente influenzata - perlomeno nelle modalità di manifestarsi - dai contesti culturali. Secondo alcuni osservatori, essa è diffusa con queste caratteristiche quasi esclusivamente in paesi capitalistici occidentali. Il disturbo sembra avere una componente sessuale o di genere per cui la diffusione non è uguale fra i due sessi: i maschi affetti sono più numerosi delle donne, di una quota compresa tra il 50% e il 75%. Alcuni tratti narcisistici appaiono nel corso dello sviluppo dell'individuo e in un certo grado sono normali. Questi tratti del carattere sono molto diffusi tra adolescenti e teenagers, senza che necessariamente l'esito sia una personalità patologica in età adulta.

Approccio terapeutico
Diverse sono le possibilità terapeutiche a cui possono rivolgersi i pazienti affetti da narcisismo patologico, per trovare risoluzione al loro malessere esistenziale. Per Kohut e Kernberg la psicoanalisi è il trattamento elettivo per questi pazienti al fine di superare le esperienze deficitarie infantili; tuttavia, anche un approccio supportivo-espressivo, meno impegnativo dal punto di vista del numero di sedute a settimana e della durata del trattamento possono produrre risultati favorevoli. In taluni casi, è auspicabile la scelta di un trattamento combinato che associ la psicoterapia individuale con quella di gruppo. Tale trattamento può risultare molto efficace, grazie alla sinergia della profondità e intensità offerta dal rapporto individuale e dalle possibilità di confronto e feedback proprie del lavoro in gruppo. Sostanzialmente strumenti essenziali di qualsiasi intervento terapeutico saranno, grazie all’ambiente protetto offerto dal setting di lavoro, la costruzione di un’alleanza positiva fra terapeuta e paziente e l’esperire e sperimentare nuove, più piene, evolutive e soddisfacenti possibilità relazionali fra gli individui.

Bibliografia:

Quick Reference to the Diagnostic Criteria from DSM-IV by American Psychiatric Association, Washington D.C., 1994-1995.
Gabbard G. O. (2000), Psychodynamic Psychiatry in Clinical Practice, American Psychiatric Press, Inc. (trad. it. Psichiatria psicodinamica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1992)
Greenberg J. R., Mitchell S. A. (1983), Object Relations in Psychoanalytic Theory, Cambridge, Harvard university Press. (trad. It. Le relazioni oggettuali nella teoria psicoanalitica, Il Mulino, Bologna, 1986)
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LA GELOSIA

Messaggioda Royalsapphire » 22/03/2016, 9:20



A cura della Dott.ssa E. Maino
La gelosia è da sempre argomento privilegiato nell'arte e nella letteratura. Da più parti si è cercato di descriverla, di definirla, ma soprattutto di stabilire quali persone vi siano più inclini, quali fatti la producano e quali comportamenti provochi. In questo articolo si cerca di dare una definizione a questo stato emotivo-affettivo complesso e si descrivono alcuni aspetti di due tipi di gelosia: la gelosia romantica e la gelosia da competizione sociale.

Che cos'è la gelosia

Definire la gelosia è difficile soprattutto perché non si sa bene se sia un'emozione , uno stato d'animo o un sentimento. Potrebbe essere considerata un'emozione in quanto si presenta in modo brusco e accompagnata da tipiche modificazioni psico-fisiologiche; tuttavia è anche un sentimento nel momento in cui permane nel tempo, viene evocata da eventi esterni o rappresentazioni mentali e occupa gran parte del vissuto emotivo e cognitivo dell'individuo. Il fatto che esistano più tipi di gelosia distinguibili in base all'oggetto verso cui questo stato emotivo o affettivo è rivolto complica ulteriormente il problema. Infatti è diverso essere gelosi di uno cosa ed essere gelosi di una persona. Nel primo caso c'è un desiderio di esclusività per delle cose che ci appartengono e che non vorremmo cedere in uso ad altri (gelosia materiale); nel secondo caso domina il timore di perdere l'affetto, il più delle volte l'affetto esclusivo di una persona (gelosia romantica).
In ultimo esiste anche una gelosia da confronto sociale che origina dal desiderio di ottenere un bene che non si ha - l'amore di una persona, un lavoro o un premio - e dal timore che qualcun altro possa ottenerlo al posto nostro (D'Urso, 1990).

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La gelosia romantica

In genere le ricerche in ambito psicologico così come la letteratura in senso lato, si sono occupate in prevalenza di questo tipo di gelosia. La gelosia romantica suscita un insieme di sentimenti ed emozioni riguardo la persona amata, il rivale e il sé (D'Urso e Trentin, 1992). Queste emozioni si riassumono in una sorta di ambivalenza nei confronti della persona amata che si traduce in un aumento dell'interesse e del desiderio nei suoi confronti associato a rabbia, ostilità e al timore della perdita. Parallelamente la persona gelosa sperimenta verso il rivale odio e desiderio di annullamento che diventano tanto più forti quanto più il rivale è percepito con caratteristiche positive come la bellezza, l'intelligenza, la cultura ecc. In questo senso una delle cose curiose è costituita dal fatto che il geloso percepisce come più pericoloso un rivale che possiede le caratteristiche positive che lui stesso vorrebbe possedere, piuttosto che un rivale considerato ideale dalla persona amata (Schmitt, 1988).

Esistono delle strategie che consentono di far fronte alla gelosia romantica? D'Urso e Trentin (1992) ne riportano tre, ossia:

rafforzare la fiducia in se stessi: questo consente di ridurre ansia e aggressività connesse alla gelosia stessa
affinare le proprie capacità : in questo modo si migliora l'immagine di sé e si riducono depressione e rabbia connesse all'idea della possibile perdita della persona amata
ignorare tutto ciò che concerne la persona amata e il rivale o che è psicologicamente associato ai luoghi, alle occasioni, ai motivi della gelosia

La gelosia da competizione sociale

Secondo Salovey e Rodin (1984) la caratteristica specifica della gelosia da competizione sociale è l'oggetto del desiderio , che non è mai una persona, ma è sempre una cosa , un tipo di successo o una buona posizione sociale. In realtà è possibile sperimentare questo tipo di gelosia anche verso una persona e competere in ambito sociale per ottenere i suoi favori, la sua attenzione o il suo amore. Il sorgere e l'intensità di questo tipo di gelosia variano a seconda dell'importanza che l'individuo attribuisce alla meta ambita, dell'identità e della valenza emotiva degli altri concorrenti. In base ad una serie di esperimenti Mikulincer, Bizman e Aizemberg (1989) hanno trovato che la gelosia da confronto sociale aumenta quando:

si attribuisce prevalentemente a se stessi la responsabilità di un confronto sfavorevole o di un proprio fallimento
si considera lo scacco almeno in parte controllabile
si ritiene che lo sfavore nel confronto dipenda da condizioni relativamente stabili nel tempo e soprattutto relative alla propria personalità

Chi sono le persone gelose

In genere le persone gelose sono descritte come insicure, ansiose, possessive, invidiose, sospettose, irrazionali, con una scarsa stima di sé.

Non sembra ci siano differenze tra i sessi rispetto all'intensità della gelosia (Bringle e Buunk, 1985), anche se si rilevano vistose diversità rispetto ai comportamenti associati. Da questo punto di vista gli uomini sono più inclini delle donne ad assumere iniziative aperte in caso di tradimento, cercano cioè di discutere il problema, di affrontare il rivale o aggredire la compagna. Al contrario le donne sembrano esternalizzare meno la gelosia e i comportamenti connessi soffrendo però maggiormente di intensi sentimenti negativi, quali disperazione, depressione e di malattie psicosomatiche (D'Urso e Trentin, 1992). Non sembra invece ci siano differenze tra i sessi rispetto agli aspetti cognitivi messi in atto. Pines e Aronson (1981) hanno infatti accertato che la reazione più comune a uomini e donne è quella di rimuginare tormentosamente sull'accaduto e questo avviene con frequenza, durata e intensità equivalente nei due sessi.
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L'IMBARAZZO

Messaggioda Royalsapphire » 22/03/2016, 9:22



A cura della Dott.ssa E. Maino
Tutte le teorie psicologiche delle emozioni ammettono o sottolineano che le reazioni emotive hanno una funzione adattativa per l’individuo e per la specie. In questo senso se alle emozioni considerate fondamentali – quali felicità, tristezza, paura, rabbia, disgusto – si attribuiscono funzioni e scopi evolutivi semplici – quali mantenere i legami affettivi con le figure di attaccamento, segnalare l’esistenza di pericoli, difendersi dagli attacchi e dalle circostanze pericolose – alle emozioni più complesse si attribuiscono funzioni maggiormente evolute e connesse alla formazione della consapevolezza di se stessi e alla regolazione delle proprie relazioni con gli altri.

Da questo punto di vista, l’imbarazzo è una tipica emozione sociale fortemente connessa alla percezione che ciascuno di noi ha di se stesso e delle sue caratteristiche in relazione agli altri. Posto che l’imbarazzo potrebbe non essere solo un’emozione negativa, in questo articolo si è cercato di fornire una definizione di questo stato emotivo, di considerare le situazioni e i motivi che più comunemente suscitano imbarazzo, di rilevare se ci sono persone che sperimentano questo stato emotivo più facilmente di altre, di descrivere i correlati comportamentali e psico-fisiologici di questa emozione e, in ultimo, di suggerire alcuni accorgimenti per tenerla sotto controllo.

Alcune definizioni
Non è facile fornire una definizione per il termine imbarazzo dal momento che è stato utilizzato da letterati e studiosi in svariati modi e con significati abbastanza distanti tra loro. D’Urso (1990) ad esempio, riporta che il significato primitivo del termine, è quello di ingombro materiale dovuto alla presenza di oggetti voluminosi d’ostacolo a qualche attività. In epoca più recente compaiono i significati di incombenza, compito sgradevole oppure preoccupazione e inquietudine. A partire dal secolo scorso si diffonde l’uso di questo termine nell’accezione di «difficoltà economica» oppure, in un ambito più legato al corporeo, nell’accezione di peso, o appunto, imbarazzo di stomaco.
In termini di vissuti emotivi, per imbarazzo si intende uno stato più o meno intenso e di durata variabile (da pochi secondi a pochi minuti) che si manifesta esclusivamente in una situazione sociale, caratterizzato da modificazioni psicofisiologiche e manifestazioni comportamentali esprimenti disagio.

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Perché ci si imbarazza
Tutti gli studiosi, siano essi sociologi, antropologi o psicologi, concordano nel legare strettamente il vissuto dell’imbarazzo ad eventi che mettono in crisi l’immagine pubblica dell’individuo e nel connettere tale vissuto emotivo all’hic et nunc, quindi al presente e al luogo dell’azione: infatti perché si origini è necessario che sulla scena siano presenti chi si imbarazza e chi causa o assiste all’imbarazzo (Goffman, 1956; Modigliani, 1968; Edelmann, 1987).

Da questo punto di vista non c’è un imbarazzo privato, né un imbarazzo prospettivo o retrospettivo (D’Urso, 1990). Un altro punto d’accordo tra gli studiosi è l’aver rilevato come spesso le situazioni che generano imbarazzo sono quelle in cui mancano norme esplicite di comportamento , quelle dove non è ben chiaro quali siano le norme comportamentali più adeguate o socialmente accettate. Un esempio tipico è quello in cui ci si trova in due in un ascensore: non si sa mai bene quali atteggiamenti o comportamenti tenere e questo sovente genera imbarazzo. Un altro modo per dar ragione dell’imbarazzo è quello di considerarlo come sanzione per una regola sociale violata o in pericolo (Modigliani, 1971). Secondo Castelfranchi (1988) invece il nucleo dell’imbarazzo consisterebbe in una perdita, avvenuta o temuta e comunque momentanea, della propria autostima situazionale: è il caso ad esempio di una persona in genere agile, che in una particolare circostanza e di fronte ad altri si è mostrata goffa e impacciata.

Secondo D’Urso e Trentin (1992) le condizioni che normalmente devono essere presenti perché insorga l’imbarazzo sono:

la consapevolezza che un proprio comportamento è regolato da norme sociali;
la presenza di un pubblico e in particolare il sentire su di sé l’attenzione degli altri;
desiderio di conformarsi alle norme e il timore di infrangerle;
l’insicurezza sulle proprie capacità e quindi la paura di perdere la faccia davanti agli altri.

Quando ci si imbarazza
Quali sono le situazioni nelle quali è più facile imbarazzarsi?
Non esiste una risposta univoca a questa domanda perché molto dipende da quali sono i valori, le regole che ciascuno ha e soprattutto dall’immagine che di noi stessi abbiamo e che desideriamo preservare davanti agli altri. Tuttavia è possibile individuare alcune situazioni nelle quali più che in altre è possibile provare imbarazzo.

In genere queste situazioni sono connesse ad un fallimento in pubblico, alla contraddizione fra le richieste di ruoli diversi, alla perdita del contegno o del controllo del proprio corpo, all’intimità fisica ed emotiva (Gross e Stone, 1964; Sattler, 1965 ).
Inoltre esistono situazioni nelle quali siamo imbarazzati per l’imbarazzo di qualcuno che ci è vicino , oppure circostanze nelle quali noi lo sperimentiamo al posto di qualcun altro.
Altra situazione che spesso genera imbarazzo è l’essere oggetto di lodi o di attenzione o il venir insigniti di premi. In questo caso l’imbarazzo si genera non tanto per la situazione di per sé positiva quanto per il timore o la sensazione di dover subire ulteriori valutazioni e quindi di non dimostrarsi all’altezza della situazione.

Cosa ci succede quando siamo imbarazzati?
Le manifestazioni comportamentali tipiche dell’imbarazzo , quali il rossore, l’irrequietezza motoria, le alterazioni della voce, oltre a segnalare agli altri lo stato emotivo in cui ci si trova, agiscono come causa ulteriore d’imbarazzo. Si tratta di un rinforzo circolare che opera per l’imbarazzo più che per ogni altra emozione (D’Urso e Trentin, 1992).
A livello comportamentale, l’imbarazzo si esprime soprattutto con il distogliere lo sguardo dall’interlocutore, abbassandolo o deviandolo su punti dello spazio per nulla interessanti; la postura può essere o estremamente rigida con pochissimi movimenti o al contrario presentare movimenti irrequieti di braccia, gambe, mani e continui cambi di posizione. Inoltre quando ci si sente imbarazzati si mettono in atto dei comportamenti tesi ad allentare la tensione emotiva, quali toccarsi ripetutamente i capelli o giocherellare con piccoli oggetti. Anche il linguaggio delle persone imbarazzate si modifica (Kast e Mahl, 1965). La voce diventa stridula, con tonalità irregolari, spesso si balbetta o si incespica, il volume della voce si alza e/o si abbassa rispetto alla propria norma, si fanno insoliti errori di grammatica, vi sono esitazioni, false partenze, lunghe pause tra una parola e l’altra. A livello psico-fisiologico il segnale caratteristico dell’imbarazzo è l'arrossarsi in modo repentino del viso e del collo fattore dovuto ad una vasodilatazione periferica; il battito del cuore rallenta (anche se spesso si pensa che aumenti), la temperatura corporea si innalza o ha degli sbalzi, i vasi sanguigni si dilatano, aumenta la tensione muscolare, la respirazione si fa irregolare, si suda di più e la motilità gastrica così come la secchezza delle fauci aumentano (D’Urso e Trentin, 1992).

Ci sono persone che si imbarazzano più di altre?
In genere si imbarazzano più facilmente le persone che tendono da un lato, a sopravvalutare l’importanza e la severità del giudizio degli altri, dall’altro a sottovalutare le proprie capacità (Edelman, 1987); spesso si tratta di persone che hanno una forte consapevolezza di sé e del proprio modo di apparire in pubblico, di persone che hanno livelli di aspirazioni più alti della media e che presentano una grande capacità empatica. Rispetto alla facilità con cui ci si imbarazza, non sembra ci siano differenze significative tra uomini e donne, anche se le donne sembra si imbarazzino più facilmente per il doversi esibirsi in pubblico e per l’intimità fisica, mentre gli uomini si imbarazzano di più per questioni legate al proprio prestigio economico e professionale (D’Urso, Trentin, 1992).

Che fare quando si è in imbarazzo?
D’Urso e Trentin (1992) riportano alcuni accorgimenti da adottare in situazioni imbarazzanti:

se avete fatto una goffaggine piccola e che danneggia solo voi siate i primi a farla notare e a riderci sopra
se avete fatto una goffaggine grossa e che danneggia qualcuno, scusatevi rapidamente, mettete in chiaro che riparerete e cambiate discorso
se siete imbarazzati senza aver fatto nulla, per paura di essere brutti, poco eleganti, o di balbettare, o non sapere cosa dire, vi si aprono due strade: a) quella eroica: dire come vi sentite. E’ consigliabile però in una situazione a due oppure di fronte ad un pubblico vero e attento ad esempio quello di una conferenza. Da evitare in situazioni di gruppo informale di persone poco attent b) quella facile: cercare di mantenere l’autocontrollo, non fare assolutamente niente, guardare con interesse gli altri, ascoltare, cercare di capire senza preoccuparsi di dover dire qualcosa, cercare di rendere a se stessi il più familiare possibile la situazione dal momento che l’imbarazzo diminuisce quanto più una situazione è familiare e prevedibile

Conclusioni
Sentirsi in imbarazzo non è per nulla piacevole e per quanto possibile si cerca in ogni modo di evitare occasioni che possano alimentare questo stato emotivo. Tuttavia, l’imbarazzo rivela ciò che per noi conta, il valore che attribuiamo agli altri e alle cose. Imbarazzarsi di fronte a qualcuno significa riconoscergli che per noi è importante, in un certo senso è come rendere omaggio al nostro interlocutore. In effetti, come sostiene D’Urso (1990), se l’imbarazzo parla un po’ male dell’imbarazzato, parla bene dell’imbarazzante o comunque segnala che gli viene attribuito valore e questo, da un certo punto di vista e in talune circostanze, non può che attribuire un fascino sottile alla relazione.
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LA GIOIA

Messaggioda Royalsapphire » 22/03/2016, 9:23



ALLA RICERCA DELLA FELICITA'


A cura della Dott.ssa E. Maino
Le emozioni sono componenti fondamentali della nostra vita, da esse, sovente, traiamo gli stimoli che muovono le nostre giornate. Seppure ogni singola emozione sia importante e permetta a chi la sperimenta di sentirsi vivo, l'uomo è soprattutto alla ricerca di quelle sensazioni ed emozioni che lo facciano star bene e lo appaghino, in una parola è alla ricerca di quello stato emotivo di benessere chiamato felicità . Quest'ultima è data da un senso di appagamento generale e la sua intensità varia a seconda del numero e della forza delle emozioni positive che un individuo sperimenta.

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Questo stato di benessere, soprattutto nella sua forma più intensa - la gioia - non solo viene esperito dall'individuo, ma si accompagna da un punto di vista fisiologico, ad una attivazione generalizzata dell'organismo.

Molte ricerche mettono in luce come essere felici abbia notevoli ripercussioni positive sul comportamento, sui processi cognitivi, nonché sul benessere generale della persona. Ma chi sono le persone felici? Gli studi che hanno cercato di rispondere a questa domanda evidenziano come la felicità non dipenda tanto da variabili anagrafiche come l'età o il sesso, né in misura rilevante dalla bellezza, ricchezza, salute o cultura. Al contrario sembra che le caratteristiche maggiormente associate alla felicità siano quelle relative alla personalità quali ad esempio estroversione, fiducia in se stessi, sensazione di controllo sulla propria persona e il proprio futuro.

Le emozioni: IL COLORE DELL'ESISTENZA

Le emozioni sono componenti fondamentali della nostra vita, danno colore e sapore all'esistenza, anche se, in una civiltà come quella occidentale impostata sul primato della ragione, spesso sono considerate con sospetto e timore. Del resto non potrebbe essere altrimenti: infatti se la ragione promette all'uomo il dominio su se stesso e le cose, le emozioni spesso producono turbamento e conflitto, non sono mai totalmente controllabili e a volte ci trascinano a dire o fare cose di cui, una volta cessato l'impeto emotivo, ci si pente. Eppure, sono le emozioni che ci fanno gustare la vita ed è proprio dalle emozioni, piccole o grandi che siano, che l'individuo spera di ricavare nuovi stimoli che muovano le sue giornate. Del resto come si potrebbe dire di vivere appieno se non si sperimentassero mai la gioia, il tremito dello smarrimento o della paura, l'impeto della passione, l'abbandono alla nostalgia, il peso e la disperazione provocate dalla sofferenza?
Tuttavia, seppur ogni singola emozione sia importante e permetta a chi la sperimenta di sentirsi vivo, l'uomo è soprattutto alla ricerca di quelle sensazioni ed emozioni che lo facciano star bene e lo appaghino, in una parola è alla ricerca di quello stato emotivo di benessere chiamato felicità .

FELICITA': alcune definizioni

Il tema della felicità appassiona da sempre l'umanità: scrittori, poeti, filosofi, persone comuni, ognuno si trova a pensare, descrivere, cercare questo stato di grazia. Per tentare di definire questa condizione alcuni studiosi hanno posto l'accento sulla componente emozionale , come il sentirsi di buon umore, altri sottolineano l'aspetto cognitivo e riflessivo , come il considerarsi soddisfatti della propria vita. La felicità a volte viene descritta come contentezza, soddisfazione, tranquillità, appagamento a volte come gioia, piacere, divertimento.

Secondo Argyle (1987), il maggiore studioso di questa emozione, la felicità è rappresentata da un senso generale di appagamento complessivo che può essere scomposto in termini di appagamento in aree specifiche quali ad esempio il matrimonio, il lavoro, il tempo libero, i rapporti sociali, l'autorealizzazione e la salute.
La felicità è anche legata al numero e all'intensità delle emozioni positive che la persona sperimenta e, in ultimo, come evento o processo emotivo improvviso e piuttosto intenso è meglio designata come gioia . In questo caso è definibile come l'emozione che segue il soddisfacimento di un bisogno o la realizzazione di un desiderio e in essa, accanto all'esperienza del piacere, compaiono una certa dose di sorpresa e di attivazione (D'Urso e Trentin , 1992).

Cosa succede quando siamo felici?

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Tutti noi, in misura più o meno accentuata, proviamo emozioni, in un certo senso le agiamo a livello di comportamenti più o meno visibili e consapevoli, le condividiamo con gli altri parlando o scrivendo di esse, alcuni riescono perfino ad immortalarle nelle opere d'arte.
Ma cosa succede dentro e fuori di noi quando siamo felici?

Alcuni autori (Maslow , 1968; Privette , 1983) riportano che le sensazioni esperite con più frequenza dalle persone che si trovano in una condizione di felicità o di gioia sono quelle di sentire con maggiore intensità le sensazioni corporee positive e con minore intensità la fatica fisica, di sperimentare uno stato di attenzione focalizzata e concentrata, di sentirsi maggiormente consapevoli delle proprie capacità.
Spesso le persone felici si sentono più libere e spontanee , riferiscono una sensazione di benessere in relazione a se stesse e alle persone vicine e infine descrivono il mondo circostante in termini più significativi e colorati.
Inoltre le persone che provano emozioni positive, quali ad esempio gioia e felicità, a livello fisiologico presentano un'attivazione generale dell'organismo che si manifesta con un'accelerazione della frequenza cardiaca, un aumento del tono muscolare e della conduttanza cutanea e infine una certa irregolarità della respirazione.
In ultimo chi è felice sorride spesso . In effetti il sorriso, sovente accompagnato da uno sguardo luminoso e aperto, è la manifestazione comportamentale più rappresentativa, inconfondibile e universalmente riconosciuta della felicità e della gioia.

Chi sono le persone felici?

Probabilmente chiunque, passando in rassegna le persone che gli sono vicine, è in grado di identificare tra tutte un amico, un parente o un conoscente che è considerato da tutti la persona felice per antonomasia, la persona che non perde il buonumore anche quando deve affrontare delle situazioni difficili o fastidiose, quella che ha sempre la battuta pronta e che sembra serena in ogni circostanza.
Ma la felicità da cosa dipende? Esistono delle caratteristiche dell'individuo che lo rendono maggiormente permeabile a sentimenti di felicità e gioia piuttosto che a sentimenti negativi?
E' molto difficile, probabilmente impossibile, rispondere in modo sufficientemente accurato a tali quesiti. Tuttavia le ricerche sulla felicità mettono in luce come essere più o meno felici non dipende in modo diretto da variabili anagrafiche come l'età o il sesso, né in misura rilevante dalla bellezza, ricchezza, salute o cultura. Al contrario sembra che le caratteristiche maggiormente associate alla felicità siano quelle relative alla personalità e in particolare quelle relative all'estroversione, alla fiducia in se stessi, alla sensazione di controllo su se stessi e il proprio futuro (D'Urso e Trentin , 1992).
Secondo Argyle e Lu (1990) la persona estroversa è più felice perché ha più rapporti sociali, fa amicizie più facilmente, partecipa ad un maggior numero di attività pubbliche e collettive dove trova maggiori motivi di interesse e divertimento. Inoltre una persona felice è anche una persona che sta bene con se stessa e che ha fiducia nelle sue capacità e percepisce una fondamentale congruenza tra ciò che è e ciò che vorrebbe essere. In sostanza, più le persone riescono ad accettarsi per quello che sono, con tutti i loro pregi e i loro limiti, più sono felici. Analogamente, quanto più una persona ritiene di poter ragionevolmente controllare gli eventi che gli accadono nella sua vita affettiva, sociale, lavorativa, più è felice, e in particolar modo, è più felice di chi si considera in balia del caso o degli altri.

Felicità e benessere

Gli stati d'animo positivi possono influire in modo considerevole sia sul comportamento sia sui processi di pensiero rendendoli maggiormente adeguati e funzionali alle situazioni di vita dell'individuo. E' poi ovvio che tutto questo si ripercuota positivamente sullo star bene dell'individuo con se stesso e gli altri.
In effetti quando le persone sono di buon umore pensano alle cose in modo molto diverso rispetto a quando sono di cattivo umore. Ad esempio, si è trovato che il buon umore porta a descrivere in modo positivo gli eventi sociali a percepirsi come socialmente competenti, a provare sicurezza in se stessi e autostima (Bower , 1983). Inoltre quando si è felici si tende a valutare più positivamente la propria persona: ci si sente pieni di energia, si considerano meno gravi i propri difetti e si pensa meno alle proprie difficoltà. In ultimo, si è visto che più si è felici più si curano e si allargano i propri interessi sociali e artistici, si pone maggiore attenzione alle questioni politiche generali, ci si sente più inclini ad accettare dei compiti nuovi e stimolanti, anche se difficili (Cunningham , 1986; 1988).
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Da questo punto di vista non c'è da stupirsi che uno stato emotivo positivo induca all'ottimismo : Mayer e Volanth (1985), infatti, hanno trovato una correlazione diretta tra grado di buonumore e probabilità stimata di eventi positivi.
Essere felici induce anche ad essere più audaci . A questo proposito, Isen e Patrick (1983) hanno messo in luce come la gioia tendenzialmente porti a sottovalutare la gravità dei rischi e quindi porti ad agire in modo meno prudente.
In ogni caso si è anche visto che questo accade solo se la decisione da prendere non comporta dei rischi seri. In presenza di uno stato d'animo positivo, non solo il mondo sembra più colorato e desiderabile e le azioni più facili, ma anche le persone che ci circondano sembrano migliori. E' forse per questo che molti esperimenti rilevano come le persone felici siano più disponibili, generose e altruiste e provochino negli altri una maggior simpatia.
In ultimo, per quanto riguarda gli aspetti cognitivi, si è visto che il buon umore ha degli effetti positivi sulle capacità di apprendimento e di memoria e sulla creatività: in sostanza quando si è felici si apprende con più facilità, in misura maggiore e in modo più duraturo (Ellis , Thomas e Rodriguez , 1984; Ellis , Thomas McFarland e Lane , 1985) e inoltre si è maggiormente creativi nella soluzione dei problemi.

FELICITA': istruzioni per l'uso

A questo punto, visti i vantaggi che essere felici comporta, ci si potrebbe chiedere se esistono delle strategie che ci aiutino a sentirci felici o a recuperare il buonumore quando lo si è perso. In questo senso D'Urso e Trentin (1992) riportano una serie di attività e atteggiamenti che si accompagnano o favoriscono uno stato di benessere. Tali attività o atteggiamenti sono:

1 non attribuire interamente a noi stessi la responsabilità degli eventi spiacevoli che ci capitano
2 stare in compagnia di persone felici
3 fare esercizio fisico
4 non confrontare la nostra condizione (salute, bellezza, ricchezza ecc.) con quella degli altri
6 individuare quello che ci piace nel nostro lavoro e valorizzarlo
6 curare il corpo e l'abbigliamento
7 riconoscere i legami tra cattivo umore e cattivo stato di salute: spesso è il malessere fisico, più che altri fattori oggettivi, a determinare un cattivo umore
8 dimensionare le nostre aspettative alle capacità e alle opportunità medie della situazione
9 aiutare le persone a cui piace essere aiutate
10 non fare progetti a lunga scadenza
11 frequentare le persone che ci hanno fatto dei piaceri e alle quali abbiamo fatto dei piaceri
12 non trarre conclusioni generali dagli insuccessi
13 fare una lista delle attività che personalmente ci fanno stare di buon umore e praticarle
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