Ciao a tutti. È da un po' di tempo che non scrivo sul Forum. Lo faccio ora perché è da una settimana che le parole che mi ha detto la mia attuale terapeuta mi girano per la testa. Devo premettere che la terapia va avanti a fatica, un po' perché io di mio fatico a fidarmi (per la mia storia passata), e forse un po' perché sono arrivata alla conclusione che è la "struttura" stessa della psicoterapia che non fa per me. Ci penso da un po', e mi sento davvero delusa e avvilita, ma non so cos'altro pensare. Premetto un'altra cosa: ahimè, di psicologia ne so abbastanza (per gli studi fatti, anche se non sono una psicologa), e questo probabilmente mi porta ad analizzare tutto ciò che la terapeuta dice, a confrontarlo con altre teorie psicologiche che conosco, a soppesare le differenze,... insomma, non prendo semplicemente per buono quello che mi sento dire. Mi è stato detto che è una cosa negativa (tra l'altro, pare che il peggior paziente per un terapeuta sia un altro terapeuta, così come per un medico un altro medico). Io però sono stata ingannata troppe volte nella mia vita per non soppesare e analizzare ciò che mi viene detto, da chicchessia.
Dunque, durante l'ultima seduta siamo arrivate a parlare di responsabilità. Ciò che mi ha urtato parecchio è che la terapeuta ha detto che, nelle relazioni (relazioni in generale, non necessariamente di coppia) tra due adulti la responsabilità è sempre condivisa. Ora, questo mi pare un vecchio "dogma" della psicologia (lo disse a scuola, in una delle prime lezioni, anche la mia ex Professoressa di psicologia), ma questa è solo una mia opinione. Comunque, io le ho detto che allora la mia ansia ha una ragione d'essere: se qualcuno mi fa del male e poi io mi devo trovare a condividere la responsabilità di ciò, be', la cosa non mi fa stare per niente tranquilla. (Per sbaglio avevo usato il termine "colpa" invece che "responsabilità", e lei mi ha fatto tutta l'etimologia del termine, che tra l'altro io già conoscevo, ma non pensavo che in terapia fosse necessario essere così precisi, soprattutto visto che il concetto che volevo esprimere si capiva benissimo) Al ché lei ha tirato fuori la violenza sulle donne come esempio, dicendo che una donna maltrattata che non se ne va è in parte responsabile, appunto perché non fa la scelta di andarsene, specie se ci sono dei minori. (Tralasciando l'ovvia considerazione che eventuali figli/e ne saranno danneggiati, lei non ha detto una parola sulla responsabilità dell'uomo: insomma, come padre, sarebbero anche figli suoi, no? il loro benessere non dovrebbe essere anche una sua responsabilità?) Io le ho detto che secondo me è anche perché la gente la pensa così che le donne non denunciano, per non sentirsi dare la "colpa"/responsabilità della violenza subita (cosa che è condivisa da chi si occupa del tema), ma lei ha detto di no. "Non tutte le donne restano, alcune se ne vanno da una relazione violenta", ha detto. Sì, ma questo cosa ha a che fare col fatto che esercitare violenza su una persona sia una cosa orribile e moralmente sbagliata, che (almeno secondo me) andrebbe condannata a prescindere?, ho pensato io. Forse sono ancora troppo ingenua. Poi ha fatto l'esempio del mobbing sul lavoro: un dipendente che subisce soprusi e angherie da parte del datore di lavoro e non cambia lavoro è in parte responsabile, perché restando lo accetta. Fantastico. È proprio una regola generale: chi esercita violenza non è interamente responsabile del suo comportamento, ma lo è anche la vittima. Non so, io non riesco ad essere d'accordo. A livello etico, mi sembra una posizione insostenibile (il problema probabilmente è che, come mi disse la mia ex terapeuta, la morale deve restare fuori dalle sedute). In base a questo ragionamento, comunque, uno sarebbe quasi "legittimato" a esercitare una qualche forma di violenza su una persona che, per qualsiasi motivo, non sia in grado di reagire. Ma allora non è vero che il rispetto è qualcosa di dovuto, davvero va "conquistato" (una volta un'altra persona, sul posto di lavoro, mi disse appunto questo, cioè che io non potevo pretendere di essere rispettata, ma dovevo farmi rispettare). È una sorta di Far-West, mi pare. Un mondo così, per quanto probabilmente sia davvero così nei fatti, mi fa ribrezzo.
Non so se tutto ciò sia dovuto al fatto che in terapia vige la più ferrea neutralità (neutralità che a mio avviso è piuttosto fasulla, visto che nessuno può essere davvero neutrale, e poi, come scriveva qualcuno, chi non si schiera sta di fatto dalla parte del carnefice). Io però pensavo che almeno un minimo principio morale come quello del rispetto dovuto alle persone dovesse valere. Evidentemente mi sbagliavo.
Certo, lei ha anche elencato tutta una serie di "attenuanti" (del tipo: a uno serve uno stipendio e quindi "accetta" di lavorare in un posto dove subisce mobbing; una donna non ha un lavoro e/o teme le minacce del partner e quindi non lo lascia, ecc.), ma comunque l'attenzione era sempre e solo su chi subisce violenza, come se commetterla non fosse più grave. Boh, sono piuttosto confusa.
Insomma, è una settimana che rimugino su questo. E mi chiedo che senso abbia continuare, visto che per me pensare a una cosa simile fa stare davvero male. Qualcuno definirebbe una posizione simile "victim blaming". Non so se sia corretto o meno, ma volevo sentire il parere di qualcun altro. Di sicuro la prossima volta che la vedo le esporrò le mie perplessità, specialmente il fatto che l'idea di prendermi la responsabilità del male che ho subito (quando ero già maggiorenne, quindi, secondo il suo ragionamento, avrei dovuto reagire diversamente da come ho reagito), anche soltanto l'1% della responsabilità, non è qualcosa che intendo fare. La responsabilità delle mie azioni sì. Ma il resto proprio no, non ce la faccio. E poi, perché dovrei farlo?