LE CAUSE
Esistono diverse formulazioni teoriche che cercano di spiegare un disturbo complesso come la FOBIA SOCIALE. Vale la pena, in ogni caso, sottolineare che i modelli psicologici, così come le teorie psicologiche, non hanno alcuna pretesa di essere verità assolute, ma cercano unicamente di spiegare nel modo più esaustivo possibile un fenomeno.
Il paradigma al quale ci riferiamo in questa pagina attiene soprattutto alle teorie cognitiviste ed, in misura minore, a quelle comportamentali.
FOBIA SOCIALE: CAUSE PSICOLOGICHE
La fobia sociale è caratterizzata da un’ansia clinicamente significativa, determinata dall’esposizione a situazioni o attività sociali; il timore del giudizio o delle conseguenze porta spesso le persone ad evitare tali situazioni.
Sono stati eseguiti molti studi sull’ansia sociale, ma l’origine esatta non è ancora chiara; le principali spiegazioni sembrano implicare una serie di fattori, come quelli psicologici, ambientali, genetici e biologici. Alcune persone con fobia sociale dichiarano di saper identificare un evento che ha provocato il primo disturbo, ma una relazione di causa effetto non é stata ancora confermata dagli studi.
Prendendo in esame i fattori psicologici possiamo dire che alla base della fobia sociale ci sono tre teorie principali: condizionamento diretto, apprendimento osservativo e trasferimento dell’informazione.
Per quel che riguarda il condizionamento diretto, numerosi studi confermano che la risposta di paura è spesso il frutto di esperienze negative o traumatiche. Un certo numero di studi formali di caratteristiche legate all’esordio della fobia sociale prova l’importanza dell’evento traumatico come origine del disturbo. Questo significa che quando qualcuno particolarmente ansioso vive un evento traumatico, ne deriva ansia o fobia sociale, probabilmente anche in funzione della propria costituzione biologica. E’ importante dire che non è necessario che il condizionamento si verifichi come il risultato di un singolo evento traumatico, ma anche una serie di piccoli episodi condizionanti si possono combinare per generare una risposta di paura.
Di seguito alcuni esempi che mostrano il tipo di situazioni temute, che le persone con fobia sociale riferiscono essere la causa delle loro paure. Come nel caso di chi evita di scrivere in pubblico per timore che gli altri possano vedere il tremore delle loro mani, chi ha paura di parlare in pubblico per la preoccupazione che gli altri notino il tremore della loro voce, o l’arrossarsi della pelle. Può essere accaduto un qualsiasi evento di questo tipo per poi sentirsi in imbarazzo in tutte le situazioni sociali future, quindi ci sarà una tendenza da parte della persona ad evitare le occasioni sociali.
L’apprendimento osservativo fa riferimento al fatto che il guardare un’altra persona subire l’evento traumatico può portare alla comparsa di una fobia sociale in chi osserva.
Albert Bandura è un famoso teorico, il quale sostiene che questo tipo di apprendimento favorisca l’acquisizione di repertori comportamentali e cognitivi, ovvero si apprendono molti comportamenti guardando ciò che gli altri fanno e ciò che succede loro dopo.
Molti di coloro che soffrono di fobia sociale hanno genitori o parenti stretti che risentono dello stesso disturbo e si può ipotizzare che l’apprendimento osservativo concorra, tanto quanto i fattori genetici, alla maggiore prevalenza della fobia sociale tra parenti. Quindi, tramite la componente genetica, i genitori possono trasmettere un’inclinazione all’ ansia.
Molti studiosi hanno considerato i disturbi emozionali come il risultato di una predisposizione costituzionale di fattori biologici ed ambientali, è possibile che, per coloro che sviluppano disturbi emozionali attraverso tali modalità, sia più probabile sviluppare una fobia sociale.
La forma meno studiata relativamente all’acquisizione di paura e della fobia sociale è il trasferimento dell’informazione. Dati recenti sulla comunicazione verbale e non verbale dei genitori verso i figli indicano che la paura può essere acquisita attraverso questo percorso. Alla luce degli studi che sono stati effettuati sui soggetti ansiosi ed i loro figli, si può comunque supporre che genitori timidi e con tendenza ad isolarsi, per mezzo della comunicazione sia verbale che non verbale, riproducano un comportamento socialmente fobico ed evitante. Ugualmente, le espressioni di angoscia dei genitori riguardo alle opinioni degli altri, o anche l’insegnamento che certe circostanze possono essere imbarazzanti, spaventose o socialmente pericolose creerebbero, attraverso il trasferimento dell’informazione, circostanze per imparare ad aver paura. Per fare un esempio, sentirsi dire “stai attento” può essere un rinforzo per evitare una situazione, in questo caso sono i genitori stessi ad essere diffidenti verso la gente, trasmettendo ai figli determinate convinzioni. Può anche essere che i genitori conducano una vita socialmente povera, magari per timidezza, o per assenza di possibilità. In questa maniera, al bambino può essere tolta l’opportunità per imparare ad avere fiducia negli altri, ad ambientarsi alla loro presenza e non averne ansia. In questi casi il bambino viene privato di occasioni concrete per imparare alcune abilità sociali di base, come per esempio parlare senza vergognarsi. A tal proposito, per alcuni genitori infondere il senso di vergogna può essere una modalità educativa, questo può accadere quando certi argomenti sono vissuti con imbarazzo dai genitori. Per esempio, un genitore che vede il proprio figlio mettersi le dita nel naso in pubblico, che lo brontola per quel che ha fatto, farà sì che il bambino impari ad aver vergogna. Molto dipende soprattutto dal contesto in cui la situazione viene vissuta, in quanto se l’evento viene vissuto al di fuori del contesto domestico, può nascere anche nel genitore la vergogna di essere considerato inadeguato per come ha educato il figlio e di questo il bambino può risentirne.
L’impatto che può avere l’ambiente familiare, è stato dimostrato da diversi studiosi ed è emerso che i comportamenti giudicanti e quelli protettivi dei genitori, possono servire a mantenere condotte di evitamento nei bambini ansiosi, questo suggerisce che il comportamento dei genitori giochi un ruolo importante nella manifestazione delle fobie sociali.
Da quanto sopra riportato è evidente come le esperienze adolescenziali ed infantili possono produrre le basi per sviluppare il disturbo in età adulta. Molto importante è anche la storia di attaccamento, ovvero il tipo di legame con le figure genitoriali, o di riferimento. In quanto i genitori, ma anche gli amici possono trasmettere al bambino, ma anche in età adulta le proprie ansie e paure attraverso il comportamento osservativo ed il trasferimento dell’informazione.
È importante dire che, come la trasmissione genetica da sola non può rendere conto dello sviluppo del disturbo, così il condizionamento diretto, l’apprendimento osservativo o il trasferimento di informazione non possono spiegare completamente l’eziologia del disturbo.
Dott.ssa Francesca Birello
INIBIZIONE COMPORTAMENTALE: UN FATTORE IMPORTANTE NELLO SVILUPPO DELL’ANSIA SOCIALE
L’inibizione comportamentale (IC) è una caratteristica che può essere riscontrata nei bambini già nei primi anni di vita e che risulta connessa con la timidezza, il disagio sociale e probabilmente anche con lo svilupparsi della fobia sociale.
Per molti anni le cause dell’ansia sociale sono state fatte risalire esclusivamente a fattori ambientali, quali rapporti sociali disfunzionali, apprendimenti errati, traumi.
Jerome Kagan nel 1988 con i suoi collaboratori dell’Università di Harvard cercò invece di comprendere per quale motivo esistono delle differenze individuali per cui solo alcune persone acquisiscono certe paure ingiustificate, mentre altre, nelle medesime condizioni, non lo fanno.
A questo scopo studiarono i comportamenti di bambini molto piccoli (dai 4 ai 31 mesi) esposti a situazioni nuove che non conoscevano.
Gli autori riscontrarono già a questa età una percentuale del campione che presentava un’inibizione del comportamento, manifestata attraverso timidezza, riservatezza, disagio e paura di fronte a persone, oggetti ed eventi non familiari. La presenza in età così precoci di questa caratteristica ha indotto l’autore a pensare che l’inibizione comportamentale fosse una variabile del temperamento: i bambini che possiedono questa predisposizione quando vengono collocati in situazioni nuove piangono e sono irrequieti, mostrano espressioni facciali di angoscia, si lamentano o se ne stanno in disparte senza interagire con lo sperimentatore.
Kagan dunque ha ipotizzato che alcuni soggetti presentino una disfunzione biologica di base (diatesi) che li predispone a percepire e a reagire in modo disfunzionale a certi stimoli e che li rende maggiormente a rischio di sviluppare una fobia sociale in situazioni dove convergono più fattori di stress per il soggetto.
Inoltre analizzando gli elettroencefalogramma (EEG) dei bambini che presentavano IC era emerso in essi una maggiore attivazione della Corteccia Frontale Destra. La Corteccia Frontale è una parte del cervello che gioca un ruolo importante nella regolazione e nell’ espressione della paura e delle altre emozioni: in particolare la parte destra della corteccia dimostra una maggiore attività durante le emozioni negative provate dal soggetto (rabbia, paura), mentre quella sinistra risulta essere più attiva durante l’elaborazione di emozioni positive (interesse, gioia).
Per comprendere il motivo per cui questo dato risultava interessante dobbiamo precisare che la attività della Corteccia Frontale è strettamente collegata al ruolo dell’amigdala: questa parte del cervello, che deve il suo nome alla parola greca “mandorla” data la sua forma, controlla le emozioni come la paura, monitorando gli stimoli percepiti nel mondo esterno, rilevando eventuali pericoli e attivando, in caso di necessità, le risposte comportamentali e i cambiamenti fisiologici dell’organismo adatti per rispondervi. L’amigdala filtra gli stimoli provenienti dall’esterno, attivando l’organismo esclusivamente per stimoli ritenuti pericolosi. Ciò che permette il corretto funzionamento di questo “filtro” è un neuromodulatore, cioè una sostanza che regola le trasmissioni tra i neuroni, chiamato GABA: se questo non è presente in quantità sufficienti o non funziona come dovrebbe, alcuni stimoli risulteranno al soggetto pericolosi pur non essendolo. L’amigdala è inoltre influenzata dalla concentrazione di serotonina, un’altra sostanza legata al funzionamento dei neuroni, e a sua volta condiziona la presenza nel flusso ematico di cortisolo, un ormone rilasciato dalla ghiandola surrenale. Basse concentrazioni di serotonina nell’amigdala diminuiscono la presenza di GABA, aumentando la possibilità di manifestazioni ansiose; di conseguenza l’attivazione dell’amigdala induce la produzione di cortisolo, che ha lo scopo di mobilitare le risorse dell’organismo nel breve periodo di necessità per rispondere allo stress.
Le persone che già nell’infanzia presentano IC sono caratterizzate di fatto da un maggiore livello di cortisolo salivare al mattino, da un ritmo cardiaco elevato, e crescendo, anche da una maggiore dilatazione pupillare nei momenti di esame o di prova, rispetto ai loro coetanei che non si dimostrano timidi o ritirati.
E’ possibile ipotizzare dunque che coloro che svilupperanno ansia sociale abbiano vere e proprie differenze neurobiologiche rispetto a chi non è predisposto a sviluppare questa patologia. Possono presentare ad esempio problemi nei meccanismi di selezione degli stimoli ritenuti pericolosi, avendo una soglia molto bassa (difficoltà nella fase di input), o avere un’attività disfunzionale dell’amigdala (problemi nei processi legati alla paura) o attivare risposte comportamentali non proporzionali allo stimolo (ad esempio un aumento esagerato del rilascio del cortisolo, un forte aumento del battito cardiaco davanti a stimoli nuovi, una salivazione esagerata). Tuttavia questa predisposizione all’ ansia sociale è necessaria, ma non sufficiente per sviluppare nel tempo una vera e propria fobia.
Questa modalità di funzionamento, probabilmente ereditaria e riscontrabile nei geni, può essere un terreno fertile su cui ulteriori fattori ambientali possono incidere, ma non tutti i bambini mantengono un comportamento inibito nel corso dell’infanzia o sviluppano necessariamente un disturbo legato all’ansia.
Ci possono essere infatti nell’ambiente fattori che concorrono al rinforzo e al mantenimento del comportamento inibito del bambino. Facciamone di seguito alcuni esempi.
La figura di riferimento per il bambino (spesso la madre, ma non necessariamente) può a sua volta mostrare sentimenti di ansia e preoccupazione di fronte alle reazioni di lamento e agitazione del figlio, cercando di proteggerlo e di evitargli situazioni di novità o incontri con persone non conosciute: in questo modo però trasmetterà al piccolo messaggi del tipo “Il mondo è pericoloso, e va dunque evitato il più possibile di esporsi”, e non farà altro che rinforzare le reazioni del bambino, invece che smussarle. Inoltre, proprio per la paura di mettere il proprio figlio ulteriormente in difficoltà, molti genitori cercheranno di evitare di coinvolgerlo nelle varie situazioni sociali, aggravando in questo modo l’isolamento e impedendo lo sviluppo delle capacità sociali di cui ogni essere umano ha bisogno. Sarebbe caso mai più opportuno facilitare il bambino inibito nell’ incontro con gli altri, specie in ambienti familiari, per permettergli di iniziare piano, piano a non avere paura nell’interagire con le persone.
Per cui un comportamento protettivo nei suoi confronti non fa altro che mantenere la IC stessa. Non si deve fare l’errore comunque di far pesare troppo al bambino le proprie difficoltà, si rischia altrimenti di renderlo ancora più insicuro e ansioso di fronte alle situazioni da affrontare.
Anche nella relazione con i pari i soggetti che dimostrano IC tendono ad essere percepiti come indifferenti al gruppo e col tempo rischiano di non venir cercati o di essere lasciati in disparte. Si dovrebbe invece provare nell’ambiente scolastico e nel tempo libero, ad incoraggiare l’inclusione del bambino nei gruppi e a stimolarlo nella partecipazione attiva di essi.
I fattori sopra indicati sono alcuni esempi che ci mostrano come l’ambiente possa favorire lo sviluppo di una patologia, o possa invece ostacolare il suo esordio, partendo da una predisposizione del soggetto.
L’approccio di Kagan ci aiuta dunque in due modi: da un lato ci fa comprendere la complessità della nascita della fobia sociale, mostrandoci che esistono fattori multipli che incidono su di essa, e non una sola causa; dall’altro ci aiuta ad individuare i suoi sintomi già nell’età infantile, dandoci delle indicazioni per evitare l’esordio conclamato in seguito.
Dott.ssa. Mori Sara
MODELLO COGNITIVISTA
Secondo il modello cognitivista l'essere umano elabora ciò che gli accade attraverso i propri schemi mentali, costruitisi attraverso le proprie esperienze. Tali schemi mentali sono costituiti da pensieri, emozioni, sensazioni. In un certo senso gli schemi mentali diventano "le lenti attraverso le quali ognuno di noi vede il proprio mondo".
Secondo tale modello, quindi, schemi che presentano delle distorsioni rendono distorta la visione del mondo, un po' come quando una persona si riflette ad un specchio concavo o convesso.
In generale le persone che soffrono di tale disturbo sembrano presentare questo tipo di caratteristiche:
una sopravvalutazione degli aspetti negativi del proprio comportamento;
la paura del giudizio negativo;
standard di performance elevati;
la sensazione di poter perdere il controllo;
la sensazione di essere sempre al centro dell'attenzione.
Quest'ultimo fattore merita una particolare attenzione, poiché sembra essere molto importante per comprendere questo disturbo. La persona che soffre di fobia sociale è COME SE si sentisse sempre al centro delle attenzioni degli altri, COME SE tutti osservassero e giudicassero i suoi comportamenti, che essendo assolutamente evidenti, non possono che essere notati.
In fondo questa è una sensazione che forse tutti abbiamo provato quando ci è capitato di trovarci ad una festa e di non conoscere nessuno: ci si ritrova con un bicchiere in mano a "fare da tappezzeria", ma si ha la netta sensazione che tutti si stiano accorgendo della nostra presenza e del nostro disagio.
Probabilmente l'aspetto centrale è il bisogno assoluto del soggetto di fare una buona impressione, accompagnato, solitamente, dal costante timore di non riuscire.
Le persone che soffrono di fobia sociale temono di agire in una situazione pubblica in modo inadatto, e assumono che questo avrà conseguenze disastrose per il loro status sociale, riflettendosi anche sulla loro stima personale.
Quando si trovano a dover agire in una situazione pubblica, hanno un'immediata reazione ansiosa, che prende il nome di ANSIA ANTICIPATORIA. Questa viene interpretata come un ulteriore minaccia, poiché potrebbe influire con la performance, innescando un circolo vizioso ansiogeno.
La persona comincia, nell'approssimarsi alla situazione temuta, a tenere sott'occhio la propria ansia, cercando, per contro, di rilassarsi. Tale tipo di controllo, però, non fa altro che far mantenere l'attenzione sull'ansia, facendo di fatto aumentare alla persona, la sensazione di essere agitato.
Solitamente questo tipo di tentativo di tenere l'ansia sotto controllo, continua anche quando il soggetto è nella situazione sociale. Facendo così, però, la persona non si concentra sulle azione che deve compiere, rendendo di fatto ancora più difficile una buona prestazione.
Tali tipi di comportamento hanno una funzione protettiva per il soggetto, ma molto spesso si rivelano, al contrario, comportamenti che portano a sbagliare le proprie azioni.
Prendiamo per esempio una persona che ha paura di far la propria firma in pubblico: teme che se la sua mano tremasse o se la sua scrittura non fosse "normalmente fluida", gli altri capirebbero che è agitato e probabilmente lo giudicherebbero male; facilmente un comportamento protettivo potrebbe essere quello di impugnare la penna con forte decisione, così che non possa cadere, né la mano possa tremare. Questo però rende particolarmente difficile firmare in modo fluido!
Una volta terminata la prestazione sociale, scatta inesorabile l'auto valutazione circa il proprio comportamento: solitamente non è mai una valutazione positiva. Le affermazioni che la persona fa su di sé quando ripensa alla situazione appena passata sono, di solito, di aver fatto una pessima impressione, di aver mostrato la propria ansia, di non aver saputo intervenire con la risposta giusta o al momento giusto, di aver sbagliato tutto e quindi di non essere in grado di gestire alcuna situazione sociale. Queste valutazioni negative, oltre a giocare un ruolo immediato nell'abbassare la propria autostima, alimentano ovviamente anche l'ansia anticipatoria della successiva situazione sociale, completando di fatto un circolo vizioso.
MODELLO COMPORTAMENTALE
I modelli teorici comportamentali hanno sempre posta l'accento su due fondamentali ipotesi: l'ipotesi del deficit primario e quella della disinibizione.
Secondo la prima ipotesi, la fobia sociale deriva da una carenza di abilità sociali, che conseguentemente si riflette nella difficoltà di gestire adeguatamente i rapporti con gli altri. Tale carenza deriva dalla mancanza di modelli sociali, dai quali apprendere delle adeguate abilità sociali. Per esempio, in diversi studi, è stato possibile osservare come il comportamento timido ed inibito dei genitori fornisse un modello socialmente fobico ed evitante ai figli.
L'ipotesi della disinibizione postula che le abilità sociali siano presenti, ma inibite da alti livelli di ansia che si sono associati alle situazioni sociali. Secondo tale modello i soggetti che presentano tale disturbo, sanno benissimo come ci si deve comportare nelle situazioni sociali, ma a causa di un alto livello di ansia non riescono a mettere in atto i comportamenti adatti. Così, per esempio, una persona che sa tranquillamente raccontare una barzelletta al proprio partner, diventa goffo ed impacciato quando deve raccontare la stessa ad uno sconosciuto, poiché l'ansia in questa situazione inibisce tale comportamento.
MODELLO ETOLOGICO
I modelli etologici, facendo riferimento alla scienza che studia il comportamento animale, cercano di spiegare il comportamento umano riferendosi ai comportamenti che presentano alcuni mammiferi sociali, come le scimmie, dalle quali discendiamo.
Analizzando i comportamenti dei mammiferi sociali, gli autori che si rifanno a tale filone evidenziano come la regolazione delle gerarchie e dell'interazione tra pari sia basata su processi e meccanismi psicobiologici e comportamentali a base innata. Questi meccanismi, che non fanno riferimento alla difesa da predatori, ma solo alla regolazione tra conspecifici, sono presenti nel corso dell'evoluzione della specie. In genere fanno riferimento a due sistemi motivazionali specifici: quello agonista e quello edonista. Il primo regola le posizioni gerarchiche e la difesa tra conspecifici, attraverso l'emissione di comportamenti aggressivi dominanti o, viceversa, attraverso comportamenti di sottomissione: insomma si tratta di comportamenti che vengono utilizzati dagli animali per far capire chi comanda all'interno di un gruppo e chi invece deve stare sottomesso. Il secondo sistema motivazionale segnala, invece, la disponibilità all'interazione tra pari, al gioco e, presumibilmente, alla cooperazione per il raggiungimento di un comune obiettivo.
L'equilibrio tra questi due sistemi regola l'insieme dei comportamenti sociali. Secondo questa interpretazione, nei pazienti con fobia sociale, questo rapporto è ampiamente sbilanciato a favore di una costante attivazione del sistema motivazionale agonista. A causa di questo, l'altro viene sempre percepito come un avversario da cui difendersi piuttosto che un pari con il quale cooperare. Questo porterebbe il fobico, temendo costantemente un attacco, ad inibire comportamenti aggressivi e a mostrare segnali di sottomissione per evitare l'attacco, inibendo così le proprie manifestazioni sociali e cercando di evitare le situazioni sociali.