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Psicopatologia - Gabbard

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30/11/2014, 15:04
da Royalsapphire
Schizofrenia
I fattori genetici giocano un ruolo molto importante nello sviluppo della schizofrenia.Tuttavia, come accade per quasi tutti i disturbi psichiatrici, non si tratta di una chiara modalità di trasmissione di tipo mendeliano. È probabile che vi sia una certa eterogeneità genetica - in altre parole, è probabile che i geni difettivi coinvolti siano più di uno e che diversi quadri genetici sottendano il disturbo. Anche fattori ambientali sembrano essere coinvolti nello sviluppo della schizofrenia, sebbene non vi sia ancora un consenso sulla natura specifica di questi insulti. Tra i possibili fattori vi sono danni perinatali, infezioni virali durante la gestazione, problemi di perfusione ematica intrauterina, fattori legati alla dieta, incidenti evolutivi e certi tipi di traumi infantili. Nessuna delle scoperte della ricerca biologica attenua però l'impatto di uri fatto irriducibile - la schizofrenia è una malattia che colpisce una persona con una particolare configurazione psicologica. Anche se i fattori genetici fossero responsabili del 100 per cento dell'eziologia della schizofrenia, i clinici si troverebbero sempre di fronte a un individuo dinamicamente complesso che reagisce a una malattia profondamente disturbante. Sofisticati approcci psicodinamici alla gestione del paziente schizofrenico saranno sempre una componente essenziale dell'armamentario terapeutico del clinico. Probabilmente non più del 10 per cento dei pazienti schizofrenici è in grado di rispondere adeguatamente a un approccio terapeutico che consista solamente di farmaci antipsicotici e di un breve ricovero. I1 rimanente 90 per cento necessita di approcci terapeutici dinamicamente orientati, che includono una farmacoterapia psicodinamica, una terapia individuale, una terapia di gruppo, approcci familiari e un trattamento ospedaliero psicodinamicamente orientato come ingredienti cruciali per una gestione efficace della loro malattia. Non esiste una cosa come il trattamento della schizofrenia. Tutti gli interventi terapeutici devono essere confezionati su misura per i bisogni specifici di ciascun paziente. La schizofrenia è una malattia eterogenea, con manifestazioni cliniche proteiformi. Un'utile strutturazione della sintomatologia descrittiva del disturbo è la suddivisione in tre raggruppamenti: 1) sintomi positivi, 2) sintomi negativi, 3) relazioni personali disturbate (Andreasen et al., 1982; Keith, Matthews, 1984; Munich et al., 1985; Strauss et al., 1974). Proposto per la prima volta da Strauss e collaboratori (1974), questo modello individua tre distinti processi psicopatologici riscontrati nei pazienti schizofrenici. I sintomi positivi comprendono i disturbi del contenuto del pensiero (come i deliri), i disturbi di percezione (come le allucinazioni) e le manifestazioni comportamentali (come la catatonia e l'agitazione) che si sviluppano in breve tempo e sono spesso accompagnate da un episodio psicotico acuto. Mentre i sintomi positivi floridi costituiscono un'innegabile "presenza", i sintomi negativi della schizofrenia possono essere caratterizzati come un “assenza" di funzioni. Questi sintomi negativi comprendono un'affettività coartata, povertà di pensiero, apatia e anedonia. Carpenter e collaboratori (1988) hanno suggerito un'ulteriore distinzione dei sintomi negativi. Essi hanno evidenziato come certe forme di ritiro sociale, affettività appiattita e apparente impoverimento del pensiero possano essere in realtà secondarie ad ansia, depressione, deprivazione ambientale o all'effetto di sostanze psicotrope. Queste manifestazioni non dovrebbero pertanto essere etichettate come sintomi negativi in quanto sono secondarie e di breve durata. Carpenter e collaboratori hanno proposto la definizione sindrome da deficit per indicare sintomi negativi chiaramente primari che persistono nel tempo. Anche la durata dei sintomi negativi è prognosticamente significativa. Mentre una volta si riteneva che la loro presenza implicasse una prognosi peggiore, recenti ricerche suggeriscono che i sintomi negativi sono predittori affidabili di esito sfavorevole soltanto quando persistono al di là della fase iniziale della malattia. Come i sintomi negativi, le relazioni personali disturbate tendono a svilupparsi in un notevole arco di tempo. Manifestazioni preminenti di relazioni interpersonali disturbate comprendono il ritiro, l'espressione inadeguata dell'aggressività e della sessualità, la mancanza di consapevolezza dei bisogni altrui, le pretese eccessive e l'incapacità di avere un contatto significativo con altre persone. In effetti tutte e tre le categorie si sovrappongono ampiamente, e lo stesso paziente schizofrenico può spostarsi, nel corso della malattia, da un gruppo a un altro. 179-81 Sono stati proposti molti modelli psicodinamici per aiutare i clinici nella comprensione del processo schizofrenico. La controversia tra il modello del conflitto rispetto a quello del deficit (descritta nel cap. 2) è un tratto preminente nelle discussioni sulle teorie della schizofrenia. Lo stesso Freud vacillò tra un modello del conflitto e un modello del deficit per la schizofrenia a mano a mano che le sue concettualizzazioní evolvevano (Arlow, Brenner, 1969; Grotstein, 1977a, b; London, 1973a, b; Pao, 1973). Gran parte della concettualizzazione freudiana (1910, 1914, 1915, 1923, 1924) si sviluppò a partire dalla sua nozione di cathexis (carica, investimento energetico) con la quale indicava la quantità di energia legata a qualunque struttura intrapsichica o rappresentazione oggettuale. Egli era convinto che la schizofrenia fosse caratterizzata dal disinvestimento energetico (decathexas) degli oggetti. A volte utilizzò questo concetto di disinvestimento per descrivere il distacco di investimento emotivo o libidico dalle rappresentazioni oggettuali intrapsichiche, mentre altre volte lo utilizzò per descrivere il ritiro sociale da parte delle persone reali dell'ambiente circostante (London, 1973a). Freud definì la schizofrenia come una regressione in risposta a un'íntensa frustrazione e al conflitto con altre persone. Tale regressione dalle relazioni oggettuali a uno stadio evolutivo autoerotico avveniva parallelamente a un ritiro di investimento emotivo dalle rappresentazioni oggettuali e dalle figure esterne, spiegando così la comparsa del ritiro autistico nei pazienti schizofrenici. Freud postulò allora che la carica energetica disinvestita fosse reinvestita sul Sé o sull'Io (1914). Dopo aver elaborato il modello strutturale, modificò, di conseguenza, la propria concezione della psicosi (1923, 1924). Mentre riteneva la nevrosi un conflitto tra l'Io e 1'Es, considerava la psicosi un conflitto tra l'Io e il mondo esterno. La psicosi comportava un disconoscimento e un conseguente rimodellamento della realtà. Nonostante tale revisione, Freud continuò a parlare del ritiro dell'investimento di energia e del suo reinvestimento nell'Io. Harry Stack Sullivan riteneva innanzi tutto che 1'eziología del disturbo fosse da rintracciare in precoci difficoltà interpersonali (soprattutto nel rapporto bambino-genitori), e concettualizzò il trattamento come un processo interpersonale a lungo termine, che tentava di individuare quelle problematiche precoci. Inadeguate cure materne, secondo Sullivan (1962), determinano nel neonato un Sé carico d'angoscia e impediscono al bambino di ricevere soddisfazione per i suoi bisogni. Questo aspetto dell'esperienza-di sé viene poi dissociato, ma il danno alla stima di sé rimane profondo. L'esordio della malattia schizofrenica, nella concezione di Sullivan, consiste in una rinascita del Sé dissociato, che porta a uno stato di panico e quindi alla disorganizzazione psicotica. Sullivan ritenne che vi fosse sempre, anche negli schizofrenici più ritirati, una capacità di rapporto interpersonale. Il suo lavoro pionieristico con pazienti schizofrenici venne portato avanti dalla sua allieva, Frieda Fromm-Reichmann (1950), la quale evidenziò come i soggetti schizofrenici non siano felici nel loro stato di ritiro. Sono persone fondamentalmente sole, che non riescono a superare la loro paura e la loro sfiducia verso gli altri a causa delle esperienze avverse vissute precocemente. Mentre Sullivan e collaboratori stavano sviluppando le loro teorie interpersonali, i primi psicologi dell'Io osservarono come un difettoso confine dell'Io sia uno dei deficit principali nei pazienti schizofrenici. Federn (1952) dissentiva dall'affermazione di Freud secondo cui nella schizofrenia vi è un ritiro dell'investimento oggettuale. Al contrario, Federn sottolineò il ritiro di investimento energetico rispetto ai confini dell'Io. Egli notò che i pazienti schizofrenici sono caratteristicamente privi di barriera tra quello che è dentro e quello che è fuori, perché il confine del loro lo non è psicologicamente investito (come invece è nei pazienti nevrotici). I bambini che finiscono per sviluppare una schizofrenia hanno un'avversione per le relazioni oggettuali che rende difficile il legame. L'ipersensibilità agli stimoli e le difficoltà di concentrazione e di attenzione sono tratti comuni della personalità preschizofrenica. Recenti ricerche hanno suggerito che diffuse perdite, a livello di determinate aree, del normale filtro sensoriale nel sistema nervoso centrale possono essere caratteristiche della schizofrenia (Freedman et al., 1996; Judd et al., 1992), cosicché i pazienti trovano difficile schermare gli stimoli irrilevanti e avvertono una sensazione cronica di sovraccarico del sensorio. In un'esaustiva sintesi della letteratura, Olin e Mednick (1996) hanno identificato caratteristiche premorbose che sembrano costituire marker di rischio per una futura psicosi. Queste caratteristiche rientrano in due categorie: 1) fattori eziologici precoci, tra cui una storia familiare di schizofrenia, complicazioni perinatali, esposizione della madre a virus influenzale durante la gravidanza, deficit neurocomportamentali, separazione dei genitori nel corso del primo anno di vita, disfunzioni familiari e crescita all'interno di un'istituzione; 2) precursori comportamentali e sociali di malattia mentale, identificati da clinici e insegnanti, e variabili di personalità rivelate da interviste e questionari. In altre parole, si verifica un'interazione tra vulnerabilità genetica, caratteristiche ambientali e tratti individuali. una comprensione psicodinamica è importante per la terapia della schizofrenia, a prescindere dalla sua eziologia. Alcuni temi sono comuni a molte delle teorie psicodinamiche che influenzano l'approccio clinico al paziente. Innanzi tutto, i sintomi psicotici hanno un significato (Karon, 1992). Le allucinazioni o i deliri di grandezza, ad esempio, compaiono spesso immediatamente dopo un affronto alla stima di sé del paziente schizofrenico. Il contenuto grandioso del pensiero o della percezione rappresenta il tentativo del paziente di compensare la ferita narcisistica. Un secondo concetto comune è che le relazioni interpersonali sono fonte di terrore per questi pazienti. Le intense ansie correlate al contatto con gli altri sono evidenti anche se non è possibile esplicitarne chiaramente le cause. I timori sull'integrità dei confini dell'Io e la paura della fusione con gli altri rappresentano un problema di intensità crescente, che è spesso risolto con l'isolamento. La relazione terapeutica rappresenta per il paziente una sfida a essere capace di credere che dalla sua relazione con gli altri non deriverà una catastrofe. Infine, un terzo punto comune riguarda la convinzione di tutti gli autori di orientamento psicodinamico che relazioni terapeutiche psicodinamiche con clinici sensibili possano fondamentalmente migliorare la qualità della vita dei pazienti schizofrenici. In uno studio condotto su pazienti in completa remissione (Rund, 1990), 1'80 per cento aveva fruito di una psicoterapia a lungo termine attribuendovi una grande importanza. Anche quando non veniva raggiunta una completa remissione, la relazione terapeutíca poteva considerarsi di straordinaria rilevanza nell'adattamento globale del paziente alla vita. 181-5 Studi di controllo ben progettati hanno ampiamente dimostrato che i farmaci antipsicotici sono altamente efficaci nel trattamento dei sintomi positivi della schizofrenia. L'accessibilità del paziente schizofrenico a tutte le altre forme di intervento terapeutico viene notevolmente accresciuta da un uso giudizioso di neurolettici. Keith e Matthews (1984) hanno addirittura affermato che la "libertà dai sintomi positivi è quasi una conditio sine qua non per i trattamenti psicosociali".I sintomi negativi e le relazioni interpersonali disturbate, tuttavia, sono molto meno influenzati dai farmaci e richiedono pertanto approcci di tipo psicosociale. Sembra che alcuni dei nuovi agenti antipsicotici atipici (come la clozapina, il risperidone e 1'olanzapina) abbiano un impatto migliore sulla costellazione dei sintomi negativi. I nuovi antipsicotici atipici che sono diventati di ampio utilizzo nell'ultima decade hanno rivoluzionato la terapia della schizofrenia. Questi agenti, fra i quali il risperidone, la clozapina, l'olanzapina, la quetiapina e il ziprasidone, sono efficaci almeno come i comuni farmaci antipsicotici rispetto ai sintomi positivi, mentre sono più efficaci rispetto agli antipsicotici convenzionali nei confronti dei sintomi negativi. Inoltre questi farmaci spesso evitano ai pazienti tutta una serie di fastidiosi effetti collaterali, così che essi sono maggiormente disposti ad assumere la terapia e a partecipare ai trattamenti psicosociali. Si è riscontrato che trattamenti con risperidone esercitano un effetto più favorevole sulla memoria di lavoro verbale rispetto a terapie con un agente antipsicotico convenzionale, rendendo così la collaborazione in un trattamento psicoterapeutico o psicosociale qualcosa di più di una possibilità (Green et al., 1997). L'avvento degli antipsicotici atipici si è tradotto in nuove sfide psicoterapeutiche per il clinico. Alcuni pazienti cronicamente ammalati da molti, molti anni a causa di una mancata risposta ai farmaci tradizionali si sono improvvisamente ritrovati in una condizione di remissione. Alcuni osservatori (Degen, Nasper, 1996; Duckworth et al., 1997) hanno paragonato queste drammatiche remissioni a ciò che Oliver Sacks (1973) ha descritto come "risvegli". La psicosi può assolvere una funzione difensiva per molti pazienti, così che possono evitare di confrontarsi con le incertezze delle relazioni, le complessità delle situazioni lavorative e il significato dell'esistenza. La totalità dell'identità dell'individuo può essere assorbita dalla consapevolezza di avere una malattia cronica. Quando si realizza finalmente una remissione dei sintomi, si verifica spesso un processo di lutto correlato a ciò che è stato perduto e alla sensazione sconcertante di non sapere chi si è in uno stato mentale non psicotico. Come hanno notato Degen e Nasper (1996), "nonostante il miglioramento inequivocabile, per alcuni individui l'improvvisa assenza di sintomi diventa come minimo altrettanto dolorosa della psicosi". L'intervento psicoterapeutico può aiutare il paziente a integrare il vecchio e il nuovo Sé. I pazienti con psicosi cronica possono anche essere stati al riparo dai rischi dell'intimità. La remissione dei sintomi psicotici rende possibili, per la prima volta dopo molti anni, coinvolgimenti romantici e sessuali. Di fronte a questa prospettiva diversi pazienti possono provare un'ansia molto intensa. I rischi di perdita e di rifiuto che vi sono connessi devono essere affrontati allorché questi pazienti cominciano ad avvicinarsi agli altri (Duckworth et al., 1997). Infine, l'emergere dalla psicosí può esporre i pazienti a una crisi esistenziale sullo scopo e il significato della vita. Riconoscono che una buona porzione della loro vita è stata perduta a causa della malattia cronica e sono ora obbligati a ridefinire i loro valori personali e spirituali. Quelli che entrano a far parte del mondo del lavoro devono confrontarsi con l'integrazione del significato del lavoro in un senso di scopo e identità personale dopo essere stati incapaci di svolgere un'attività professionale per un lungo periodo di tempo. Oltre che di training per lo sviluppo delle competenze, di riabilitazione e di interventi di altro tipo, i pazienti che rispondono bene agli antipsicotici atipici hanno anche bisogno di una relazione umana di sostegno nella quale poter esplorare questi adattamenti. 185-7 Dopo che i sintomi del paziente si sono stabilizzati, la sfida principale per il terapeuta è quella di cominciare a costruire un'alleanza terapeutica. A causa della mancanza di insight di questi pazienti nei confronti della loro malattia, questo è spesso un compito particolarmente difficile. Ne deriva che i terapeuti devono essere creativi nell'individuare una certa base comune. Selzer e Carsky (1990) hanno sottolineato l'importanza di trovare un oggetto organizzatore - una persona, un'idea o un oggetto - che consenta al paziente e al terapeuta di parlare di ciò che accade tra loro. In questa fase iniziale della terapia i pazienti spesso non sono in grado di riconoscere che sono malati e hanno bisogno di cure, e 1'obiettivo principale deve essere quello di stabilire una relazione. Per esempio, Frese (1997) mette in guardia i clinici affinché evitino di sfidare le convinzioni deliranti dei pazienti. Egli sottolinea il fatto che quando i pazienti hanno convinzioni deliranti, danno per scontato che siano vere anche se messi di fronte all'evidenza del contrario. Frese, che ha sofferto di schizofrenia per molti anni mentre portava avanti una carriera di successo come psicologo, consiglia ai clinici di pensare ai pazienti come se essi parlassero in modo poetico e metaforico. Egli suggerisce che è utile aiutare i pazienti a vedere come gli altri considerano le loro convinzioni, così che imparino a evitare azioni che possono essere causa di un loro ricovero in un reparto psichiatrico. Alleandosi con il bisogno del paziente di evitare un'ospedalizzazione, il terapeuta può conquistare la sua collaborazione e la sua disponibilità a partecipare agli altri momenti del piano terapeutico, come quello della farmacoterapia. Gran parte del lavoro iniziale dovrà essere direttivo e finalizzato a riparare i deficit del paziente che impediscono lo sviluppo di un'alleanza terapeutica (Selzer, 1983; Selzer, Carsky,1990; Selzer et al., 1989). Il lavoro dedicato alla costruzione di un'alleanza può venire in seguito ricompensato. Quando Frank e Gunderson (1990) esaminarono il ruolo dell'alleanza terapeutica rispetto al decorso e all'esito dei 143 pazienti schizofrenici coinvolti nello studio di Boston, scoprirono che tale fattore costituiva un indice predittivo importante di successo della terapia. 1 pazienti che formavano una buona alleanza terapeutica con i loro psicoterapeuti restavano in psicoterapia, assumevano i farmaci prescritti e riuscivano a raggiungere migliori risultati alla fine dei due anni con maggiore probabilità. Lo sviluppo di un'alleanza terapeutica può essere facilitato anche supportando e ristabilendo le difese del paziente, focalizzandosi sulle sue risorse e cercando di fornirgli un rifugio sicuro. McGlashan e Keats (1989) hanno sottolineato come la psicoterapia debba soprattutto offrire asilo. Sentimenti e pensieri che gli altri non comprendono vengono accettati dallo psicoterapeuta. Analogamente, il ritiro o il comportamento bizzarro sono accolti e compresi senza che al paziente venga in alcun modo richiesto di cambiare per essere accettabile. Gran parte di questo aspetto della tecnica consiste nell'"essere con" (McGlashan, Keats, 1989, p. 159), ovvero nella disponibilità a stare costantemente in compagnia di un altro essere umano senza fare richieste inopportune. Come ha osservato Karon (1992), il terrore è l'affetto primario del paziente schizofrenico. I terapeuti devono essere in grado di accettare i sentimenti di terrore nel momento in cui vengono proiettati al loro interno, ed evitare di ritirarsi e di essere sopraffatti di fronte al potere di questi stati affettivi. Quando l'alleanza diviene più solida, il terapeuta può cominciare a identificare i fattori individuo-specifici che favoriscono l'insorgenza di recidive, e aiutare il paziente ad accettare il fatto di essere affetto da una malattia grave. Il terapeuta deve anche fungere da lo ausiliario per il paziente. Quando si evidenziano profonde debolezze dell'Io, come una ridotta capacità di critica, il terapeuta può aiutare il paziente ad anticipare le conseguenze delle sue azioni. II terapeuta deve cercare di essere schietto e aperto con il paziente. Se nella relazione terapeutica tutti i sentimenti negativi vengono negati e scissi, il paziente sentirà il terapeuta come irreale. Inoltre, l'apparente capacità del terapeuta di trascendere tutti i sentimenti di rabbia, noia, odio e frustrazione accrescerà semplicemente l'invidia del paziente nei suoi confronti (Searles, 1967). Questo atteggiamento non implica che il terapeuta debba aprirsi eccessivamente; egli può però decidere di condividere temi di interesse personale con il paziente e può voler convalidare la percezione che il paziente ha di sentimenti come irritazione, tristezza, noia e altre sensazioni sgradevoli. Il terapeuta deve prestare una particolare attenzione a eventuali deficit. Alcuni pazienti avranno limitazioni neurocognitive sostanziali, che il terapeuta può evidenziare con cautela. Allorché questi deficit saranno identificati, il terapeuta potrà anche decidere di indicare al paziente possibili strategie per compensarli, affinché il paziente non si senta disperato a causa loro. Per esempio, nel discutere le allucinazioni di un paziente, il terapeuta può cercare di esplorare la qualità idiosínerasica della percezione. Potrebbero essere fatte domande del tipo: "C'è qualcun altro che può ascoltare ciò che le viene detto?" e il terapeuta potrebbe approfondire le convinzioni che il paziente ha rispetto all'origine delle voci. Lavorando sui deliri, il terapeuta potrebbe delicatamente chiedere se vi sono altre possibili spiegazioni per i fatti descritti dal paziente. È possibile che il paziente prenda le cose troppo personalmente, o veda nel comportamento, degli altri cose che non ci sono? È anche opportuno esplorare la catena delle inferenze. Per esempio, se il paziente ritiene che nel suo cervello si trovi un chip al silicone, il terapeuta potrebbe chiedere quanta elettricità consuma. L'esperienza del paziente in generale va accettata, e si dovrebbe costruire un'atmosfera positiva per l'analisi che può portare il paziente a esaminare criticamente possibili alternative. Soltanto dopo che si è stabilita una solida alleanza, che si sono individuati e discussi i fattori specifici che inducono recidive, che sono stati affrontati i problemi legati a eventuali deficit e che il paziente ha raggiunto una stabile condizione abitativa con la famiglia o con altri, il terapeuta potrebbe tentare un approccio espressivo in cui 1'insight o l'interpretazione siano centrali. Alcuni pazienti non raggiungeranno mai questo punto. Quando le strategie supportive e riabilitative sono sufficienti, il terapeuta può ritenere che ciò sia abbastanza. Deve essere evitata la fantasia di salvare i pazienti dalla schizofrenia - il peggior atteggiamento psicologico possibile per un terapeuta. I terapeuti devono accettare la possibilità che i pazienti scelgano "il male noto" piuttosto che affrontare le incertezze del cambiamento e del miglioramento. Una psicoterapia efficace richiede da parte del terapeuta un atteggiamento che consenta al paziente la possibilità di desiderare di restare malato come alternativa accettabile al cambiamento psicoterapeutico (Searles, 1979). Ciò nonostante, un sostanziale sottogruppo di individui affetti da schizofrenia vorranno collaborare con un terapeuta per arrivare a comprendere la loro malattia e il modo con cui essa ha mandato in frantumi il loro senso di identità. Nella letteratura recente, i pazienti schizofrenici si sono espressi eloquentemente sui benefici della psicoterapia individuale (Anonimo, 1986; Ruocchío, 1989). Questi pazienti sottolineano l'importanza di avere avuto una figura costante nella loro vita, presente di fronte a qualunque avversità per un periodo di molti anni. Illustrano come la loro esperienza soggettiva sia stata notevolmente modificata nel corso di una relazione psicoterapeutica a lungo termine 187-95 Gli studi che sono stati effettuati sulla psicoterapia di gruppo con pazienti schizofrenici suggeriscono che questa modalità terapeutica può essere utille, ma mettono in evidenza il problema di determinare quando debba essere intrapresa. Il momento ottimale sembra essere dopo che i sintomi positivi sono stati stabilizzati per mezzo di un intervento farmacologico (Kanas et al., 1980; Keith, Matthews, 1984). Il paziente in fase acuta di disorganizzazione non è in grado di selezionare gli stimoli ambientali, e i molteplici input di un setting gruppale possono sopraffare l'Io assediato proprio quando esso sta tentando di ristabilirsi. Dopo che è stata posta sotto controllo la sintomatologia positiva, i gruppi possono essere di grande sostegno per i pazienti schizofrenici che si stanno riorganizzando e vedono altri che si preparano per la dimissione. Per il paziente stabilizzato farmacologicamente, sedute settimanali della durata di 60-90 minuti possono servire alla costruzione della fiducia e possono offrire un gruppo di sostegno nel quale i pazienti possono discutere liberamente le loro preoccupazioni su argomenti come il modo di affrontare le allucinazioni uditive o di convivere con lo stigma della malattia mentale. 195 Numerosi studi hanno dimostrato che la terapia della famiglia associata a farmaci antipsicotici è tre volte più efficace della sola farmacoterapia nella prevenzione di ricadute. Queste ricerche hanno utilizzato un fattore noto come emozione espressa (EE), identificato per la prima volta da Brown e collaboratori (1972). Questo termine venne coniato per descrivere uno stile di interazione tra i membri della famiglia e il paziente caratterizzato da intenso ipercoinvolgimento e critica eccessiva. Sebbene tale concetto non accusi i genitori di essere la causa della schizofrenia dei loro figli, riconosce che sono le famiglie stesse a essere affette dalla malattia, e che esse possono diventare fattori secondari che contribuiscono alle ricadute attraverso un'intensificazione delle interazioni col paziente. In breve, le famiglie con alto indice di EE inducono una maggiore frequenza di recidive nel membro schizofrenico di quelle con basso indice di EE. Una meta-analisi di ventisette studi sulla relazione tra EE ed esito nella schizofrenia ha confermato che rispetto alle recidive 1'EE è un indice predittivo affidabile e significativo (Butzlaff, Hooley, 1998). La relazione tra elevata EE e ricadute sembra essere più forte per i pazienti con forme di schizofrenia caratterizzate da una maggiore cronicità. La vasta ricerca sull'EE ha portato a un sofisticato approccio psicoeducativo con le famiglie di soggetti schizofrenici. I familiari vengono preparati a riconoscere segni e sintomi prodromici che fanno presagire una ricaduta, viene loro insegnato a ridurre le critiche e 1'ipercoinvolgimento e vengono aiutati a capire come un programma farmacologico costante possa preservare un funzionamento ottimale. Altre aree di educazione comprendono indicazioni sugli effetti collaterali dei farmaci e sulla loro gestione, il decorso a lungo termine e la prognosi della schizofrenia, e le basi genetiche e biologiche della malattia. I clinici che utilizzano questo approccio possono effettivamente contare sulla collaborazione della famiglia nella prevenzione delle recidive. una recente ricerca suggerisce che le due componenti dell'EE-1'ipercoinvolgimento emotivo e l'eccesso di critica - non dovrebbero essere considerate alla stessa stregua (King, Díxon, 1996). In questo studio, condotto su 69 pazienti e 108 familiari, l'ipercoinvolgimento emotivo appare associato a un migliore risultato sociale dei pazienti, indicando che l'eccesso di critica potrebbe essere il fattore che favorisce le ricadute. 195-8 La riabilitazione psicosociale, definita comunemente come un approccio terapeutico che incoraggia il paziente a sviluppare al massimo le proprie capacità attraverso il supporto ambientale e l'apprendimento di procedure (Bachrach, 1992), attualmente dovrebbe rappresentare una parte molto importante della terapia per tutte le persone affette da schizofrenia. Questo approccio, adattato ai singoli individui, si basa su strategie tese a capitalizzare le forze e le competenze del paziente, a ridargli speranza, a ottimizzare il suo potenziale occupazionale, a incoraggiare il suo coinvolgimento attivo nella terapia e ad aiutarlo a sviluppare abilità sociali. L'insieme di questi obiettivi è spesso riassunto con il termine inglese psychosocial skills training (educazione alle abilità psicosociali). Hogarty e collaboratori (1991) hanno rilevato che i destinatari di interventi di formazione delle capacità psicosociali mostravano miglioramenti sostanziali rispetto a parametri di valutazione dell'adattamento sociale, e presentavano, secondo una verifica effettuata dopo un anno, una frequenza di ricadute più bassa di quella riscontrata in un gruppo di controllo. Tuttavia, questi effetti positivi scemavano entro due anni dalla terapia. Anche la riabilitazione cognitiva è stata incorporata in queste strategie. Attraverso la ripetuta applicazione di tecniche correlate, vari deficit cognitivi vengono modificati. Negli interventi di formazione delle capacità sociali, i pazienti partecipano al role-playing (gioco dei ruoli) e ad altri esercizi tesi a migliorare il loro funzionamento nei setting interpersonali. esiste un consenso generale sul fatto che l'insegnamento di specifiche abilità e la modifica dei deficit cognitivi possono essere utili all'interno di un piano terapeutico più globale. Per il paziente schizofrenico che abbia un crollo psicotico acuto, un breve ricovero offre una "pausa", un'occasione di riorganizzarsi e di acquisire una nuova direzione per il futuro. I farmaci antipsicotici forniscono un sollievo alla maggior parte dei sintomi positivi. La struttura del reparto ospedaliero offre un luogo sicuro che impedisce ai pazienti di recare danno a se stessi o agli altri. I componenti dello staff infermieristico svolgono, per il paziente, funzioni ausiliarie dell'Io. Può essere iniziato uno sforzo psicoeducativo con la famiglia e il paziente per instaurare un ambiente post ospedaliero ottonale. Essi dovrebbero essere preparati al fatto di avere a che fare con una malattia che dura tutta la vita e al fatto che (obiettivo è quello di ridurre al minimo l'invalidità, non di operare una guarigione permanente. Viene messa in evidenza l'importanza di una costante assunzione dei farmaci, e può anche essere spiegato il concetto di emozione espressa. Al medesimo tempo, l'equipe terapeutíca dev'essere in grado di infondere un senso di speranza. Se il paziente non è già in psicoterapia, l'ospedale può essere utilizzato per preparare il paziente a un processo psicoterapeutico ambulatoriale (Selzer, 1983). L'onnipotenza del paziente viene sfidata dalla necessità di adeguarsi alle necessità altrui. Introducendo nella vita dei pazienti un programma di routine, è inevitabile che alcuni dei loro bisogni e desideri vengano frustrati. Questo ottimale livello di frustrazione aiuta il paziente a migliorare l'esame di realtà e altre funzioni dell'Io (Selzer, 1983). Se la psicoterapia può avere inizio durante il ricovero ospedaliero, il paziente può mantenere un senso di continuità portando avanti la relazione terapeutica dopo la dimissione. Quando la sintomatologia positiva del paziente è stata in parte alleviata può essere intrapresa una terapia di gruppo, che può anche proseguire a livello ambulatoriale esterno in relazione alla disponibilità del paziente. Per alcuni pazienti ambulatoriali isolati gli incontri di gruppo possono costituire l'unico contatto sociale significativo. Per pazienti con predominanza di sintomi negativi, la diagnosi e le prescrizioni farmacologiche possono essere riconsiderate. Vi sono ragioni secondarie, come depressione, ansia ed effetti collaterali dei farmaci, che possono essere la causa dei sintomi negativi? Analogamente, il processo psicoterapeutico, se in corso, può essere rivalutato con la collaborazione del terapeuta per determinare se sia necessario un cambiamento di strategia. Il lavoro con la famiglia può procedere secondo una modalità psicoeducatíva, e i membri della famiglia possono essere chiamati a cercare la possibile presenza di fattori stressanti che impediscono al paziente di rispondere alla terapia corrente. L'insieme dei sintomi negativi richiede soprattutto una riabilitazione sociale e attitudinale. I gruppi di skill training che si focalizzano sul miglioramento comportamentale in semplici atti quotidiani come mangiare, fare conversazione, camminare ed essere educati con gli altri possono essere estremamente preziosi nei confronti dei sintomi negativi. In maniera analoga, un'attenta valutazione attitudinale in una situazione supervisionata nella quale vengono insegnate e sviluppate concrete abilità lavorative può rappresentare una componente essenziale. Indagini sull'adattamento post ospedaliero e sui tassi di riospedalizzazione mostrano che i pazienti rimangono con maggiore probabilità fuori dall'ospedale quando sono stati insegnati loro abilità e comportamenti adattivi, e quando hanno imparato, nel corso del ricovero, a controllare comportamenti maladattivi e sintomatici (Mosher, Keith, 1979). Sebbene il focus comportamentale di questo genere di programmi ambientali possa sembrare antitetico agli psichiatri a orientamento psicodinamico, in realtà tale focus può funzionare sinergicamente con approcci dinamici. I pazienti che, grazie all'addestramento a orientamento comportamentale in abilità lavorative, migliorano i loro rapporti interpersonali inizieranno a sentire dei cambiamenti nelle loro relazioni oggettuali, che forniscono poi materiale di discussione nell'ambito della psicoterapia. I pazienti schizofrenici refrattari alla terapia possono anche presentare un quadro predominante di rapporti interpersonali disturbati. Questi pazienti hanno spesso gravi difficoltà caratteriali che coesistono con la schizofrenia. I clinici tendono talvolta a dimenticare che ciascun paziente schizofrenico ha anche una propria personalità. Questi problemi caratteriali possono pertanto portare a un rifiuto delle prescrizioni farmacologiche, a un'alienazione rispetto ai familiari e ad altre persone di sostegno dell'ambiente, al diniego della malattia e a un'incapacità funzionale in ambito attitudinale. Un reparto psichiatrico o un day-hospital possono costituire setting ideali per occuparsi degli aspetti caratteriali che accompagnano la schizofrenia e per esaminare le motivazioni soggiacerti alla noncompliance del paziente. Attraverso l'identificazione proiettiva, i pazienti tentano di ristabilire il loro mondo oggettuale interno nell'ambiente ospedaliero. I membri dello staff contengono tali proiezioni e forniscono nuovi modelli di relazione da reinteriorizzare. Inoltre, i pazienti vengono informati dei modelli modelli maladattativi di interazione quando questi si manifestano nel qui e ora del settino ospedaliero. Riassumendo, i pazienti schizofrenici hanno bisogno di figure terapeutiche nella loro vita. Hanno bisogno d'aiuto per navigare attraverso le complicate realtà del sistema di salute mentale. Hanno anche bisogno di qualcuno che li aiuti a comprendere le paure e le fantasie che impediscono loro di seguire i vari aspetti del piano terapeutico globale. Indubbiamente, un ruolo centrale dello psicoterapeuta è l'esplorazione dei problemi di compliance che emergono in altre aree del trattamento. 198-206 Disturbi affettivi I disturbi affettivi sono fortemente influenzati da fattori genetici e biologici. gli individui predisposti a depressione maggiore tendono a porsi in ambienti ad alto rischio. Per esempio, individui con un temperamento caratterizzato da aspetti nevrotici possono tenere lontani gli altri ed essere così la causa della rottura di una relazione significativa. Gli eventi stressanti più potenti sembravano essere la morte di una persona cara, violenze, gravi problemi coniugali e divorzi o separazioni. Tuttavia, esistono molti dati che indicano come precoci esperienze di abuso, di abbandono o di separazione possano creare una sensibilità neurobiologica che predispone gli individui a rispondere a fattori stressanti in età adulta con lo sviluppo di un episodio depressivo maggiore. Per esempio, Kendler e collaboratori (1992) hanno riscontrato un aumentato rischio di depressione maggiore in donne che durante l'infanzia o l'adolescenza erano state separate dalla madre o dal padre. Uno studio prospettico (Bifulco et al., 1998) ha riscontrato che le donne con una storia di abuso o di abbandono infantile hanno una probabilità due volte maggiore, rispetto a quelle che non hanno vissuto simili esperienze, di avere in età adulta relazioni negative e una bassa stima di sé. Inoltre, donne che durante l'infanzia hanno subito comportamenti di abuso o trascuratezza (neglect) e presentano da adulte relazioni negative e una bassa stima di sé hanno una probabilità dieci volte maggiore di ammalarsi di depressione. l'impatto del trauma o dell'abbandono infantile può essere cruciale nella terapia psicodinamica dei pazienti depressi. Questi fattori stressanti precoci correlati alla separazione, all'abbandono o all'abuso infantile sembrano rendere gli individui più vulnerabili ai fattori stressanti più tardivi che in età adulta possono portare alla depressione. Comunque, in base a una prospettiva psicodinamica il clinico dovrebbe sempre considerare il significato di un fattore stressante particolare: ciò che a un osservatore esterno potrebbe sembrare un fattore stressante relativamente lieve può rivestire per il paziente potenti significati consci e inconsci, che ne amplificano enormemente l'impatto. Hammen (1995) notava che "esiste un notevole consenso sul fatto che l'elemento cruciale non è il semplice verificarsi di un evento esistenziale negativo, ma piuttosto l'interpretazione dell'individuo del significato dell'evento e dei suoi effetti all'interno del contesto in cui si verifica". In uno studio longitudinale sulle relazioni tra reazioni depressive e fattori stressanti, Hammen e i suoi collaboratori rilevarono che i fattori stressanti il cui contenuto riguarda l'area della definizione del Sé del paziente avevano una maggiore probabilità di innescare episodi depressivi (Hammen et al., 1985). In altre parole, in un individuo in cui il senso di sé è parzialmente definito da legami sociali, la perdita di una relazione interpersonale significativa può precipitare una depressione maggiore. D'altra parte, una persona la cui autostima è correlata soprattutto al conseguimento di risultati e successi ha una maggiore probabilità di andare incontro a un episodio depressivo in risposta alla percezione di un fallimento a scuola o nel lavoro. Questi progressi della ricerca sui disturbi dell'umore suggeriscono che sia i farmaci che la psicoterapia possono essere necessari nel trattamento dei disturbi affettivi maggiori. L'esplorazione psicodinamica del significato dei fattori stressanti può essere di particolare importanza. I pazienti depressi possono anche trarre benefici da una psicoterapia dinamica. Alcuni non aderiranno alle terapie farmacologiche prescritte per una varietà di ragioni, compreso il fatto che sentono di non essere degni di migliorare o che prendere questi farmaci li stigmatizza come malati mentali. Oltre a essere indicata per pazienti con problemi di noncompliance, la psicoterapia deve essere usata con coloro che non possono assumere antidepressivi per preesistenti condizioni fisiche di interesse medico, con pazienti che non possono tollerarne gli effetti collaterali, e con quelli che sono refrattari in parte o del tutto a ogni trattamento somatico. Si deve inoltre ricordare che la depressione abbraccia l'intero spettro della patologia e della salute mentale, e che in corrispondenza di periodi particolarmente stressanti può presentarsi in forme più leggere anche in individui fondamentalmente sani. Gli individui con una depressione minore, che non rientra nei criteri del DSM-IV (American Psychiatric Association, 1994) per un episodio depressivo maggiore o per una distimia, vivono un maggior numero di giorni di disagio nella società rispetto a quelli con depressione maggiore (Broadhead et al., 1990).1 medici forniscono più assistenza agli individui con sintomatologia depressiva che a quelli affetti da disturbi depressivi definiti formalmente (Johnson et al., 1992). Ne deriva che queste forme medie di depressione, anche quando non possiedono le caratteristiche richieste per essere classificate come disturbi maggiori secondo i criteri del DSM-IV, non sono necessariamente benigne. La terapia farmacologica è spesso inefficace nella depressione minore, e questi pazienti possono aver bisogno di una psicoterapia per essere restituiti a un funzionamento normale. Per molti pazienti l'associazione di psicoterapia e farmacoterapia sembra essere particolarmente utile. Un approccio psicodinamico al trattamento è anche estremamente utile nell'affrontare il rapporto tra personalità e depressione. Questo rapporto può essere suddiviso in tre distinte categorie: 1) disturbo depressivo maggiore sull'asse i complicato dalla coesistenza sull'asse 2 di disturbi di personalità, 2) personalità depressiva, 3) depressione caratterologica nel contesto di disturbi di personalità sull'asse 2. Una sintesi della letteratura fornisce un'ampia evidenza che i disturbi di personalità complicano il trattamento dei disturbi depressivi sull'asse 1. Questi studi suggeriscono che certi disturbi di personalità possono contribuire a mantenere una depressione già in atto, e che i fattori caratterologici possono anche essere responsabili di una scarsa compliance verso la terapia farmacologica. Per trattare efficacemente questi pazienti può essere necessaria una psicoterapia in associazione con i farmaci. La seconda categoria, la personalità depressiva, è stata oggetto di controversie nonostante una lunga tradizione psicoanalitica. Nell'Appendice B del DSM-IV, i criteri per il disturbo depressivo di personalità enfatizzano una costellazione di tratti di personalità, in contrasto con i criteri per la distimia che mettono l'accento sui sintomi somatici. Questi tratti includono un umore dominato da infelicità, abbattimento, tristezza; un concetto di sé centrato sulla svalutazione e la bassa autostima; una tendenza all'autocolpevolizzazione e all'autocritica; una facilità nel provare sentimenti di colpa o di rimorso; un atteggiamento pessimistico; un modo negativistico e giudicante di porsi verso gli altri; infine una tendenza a rimuginare e a preoccuparsi. Molte delle controversie si sono imperniate sulla questione se il disturbo depressivo di personalità sia realmente distinto dalla distimia. Comunque, dati recenti indicano che la distinzione tra le due entità patologiche è valida e clinicamente utile. Della terza categoria fanno parte i pazienti con gravi disturbi di personalità, in particolare borderline, che soffrono di "depressione" quantunque manchino i criteri del DSM-IV per un disturbo sull'asse i. Molti di questi pazienti descrivono sentimenti di solitudine o vuoto pervasivi, accompagnati dalla percezione che i loro bisogni emozionali non trovano riscontro negli altri. Vi può anche essere un sentimento consapevole di rabbia e di frustrazione che li distingue dai tipici pazienti dell'asse 1. Lo psichiatra che combini un approccio psicodinamico e misure psicofarmacologiche sarà equipaggiato al meglio per trattare l'ampio spettro di pazienti con disturbi affettivi visti nella pratica clinica. 211-16 Possiamo riassumere le differenti formulazioni teoriche sulla depressione giungendo alla conclusione che, qualunque componente biochimica vi possa essere, i pazienti esperiscono la depressione sul piano psicologico come un disturbo dell'autostima nel contesto di relazioni interpersonali fallimentari. Queste relazioni dell'infanzia vengono interiorizzate e possono successivamente, in età adulta, essere riattivate con l'esordio di disturbi affettivi maggiori. Il tormentato mondo interno delle relazioni oggettuali viene allora esteriorizzato anche nell'ambito delle relazioni attuali nel mondo del paziente. La depressione mostra la stretta connessione esistente tra le intime relazioni interpersonali di un individuo e il mantenimento dell'autostima (Strupp et al., 1982). Nei termini della psicologia del Sé, la depressione può essere vista come la disperazione conseguente al fallimento da parte degli oggetti-Sé nel gratificare i bisogni del Sé di rispecchiamento, gemellarità o idealizzazione. Blatt (1998) ha suggerito che da un punto di vista psicoanalitico queste varie prospettive teoriche descrivono due tipologie sottostanti di depressione. La depressione anaclitica è caratterizzata da sentimenti di impotenza, solitudine e fragilità correlati a croniche paure di abbandono e di mancanza di protezione. Gli individui con questo tipo di depressione hanno un intenso desiderio di essere accuditi, protetti e amati. La depressione introiettava, d'altra parte, è caratterizzata da sentimenti di inutilità, fallimento, inferiorità e colpa. Gli individui affetti da questa variante sono particolarmente autocritici e soffrono per una paura cronica della critica e della disapprovazione da parte degli altri. Sono eccessivamente perfezionisti e competitivi e si sentono costantemente spinti a raggiungere risultati ottimali a livello scolastico o professionale. La depressione anaclitica è caratterizzata dalla vulnerabilità rispetto alla rottura di relazioni interpersonali, e la depressione si manifesta prevalentemente come sentimento disforico di abbandono, perdita e solitudine. La depressione introiettiva comporta una vulnerabilità al venir meno di un senso di sé positivo ed efficiente; si manifesta soprattutto con sentimenti disforici di colpa, fallimento e inutilità, e con la sensazione di non disporre più della propria autonomia e del proprio potere. 216-20 Diversi disturbi psichiatrici possono culminare nel tragico esito del suicidio. Tuttavia, il suicidio è prevalentemente associato ai disturbi affettivi maggiori Gli aspetti psicodinamici emersi dal lavoro psicoterapeutico con pazienti che abbiano tentato il suicidio possono essere secondari a eventuali modificazioni neurochimiche; pertanto, nel contesto di un approccio psicoterapeutico, dovranno essere massivamente usate tutte le modalità disponibili di trattamento somatico. In molti casi la sola psicoterapia è insufficiente con i pazienti che manifestano gravi tendenze suicide. Le motivazioni del suicidio sono altamente diversificate e spesso oscure. 220-21 In linea con la generale negazione della malattia, questi pazienti in genere sostengono che i loro sintomi maniacali o ipomaniacali non fanno parte di un disturbo ma sono piuttosto un riflesso del loro modo di essere. I pazienti con malattia bipolare mancano notoriamente di consapevolezza. Spesso correlato a questa negazione vi è un altro tema psicodinamico che riguarda la scissione o la discontinuità psichica. Molti pazienti bipolari continuano a negare il significato dei precedenti episodi maniacali quando sono in condizioni di eutimia. Possono sostenere che il loro comportamento era semplicemente il risultato di una scarsa cura di sé, e frequentemente insistono in modo inflessibile sul fatto che ciò che è accaduto non si verificherà mai più. In questa forma di scissione la rappresentazione di Sé coinvolta nell'episodio maniacale è considerata completamente slegata rispetto al Sé della fase eutimica. Questa mancanza di continuità del Sé non sembra infastidire il paziente, mentre familiari e medici possono esserne decisamente esasperati. La gestione clinica del paziente richiede un lavoro a livello psicoterapeutico per cercare di ricucire i frammenti del Sé in un continuum narrativo nella vita del paziente, così che il bisogno di seguire la terapia farmacologica divenga più importante per il paziente. Esiste una forte associazione tra traumi fisici infantili e mania in età adulta 225-6 Il primo passo in una terapia, indipendentemente dal fatto che il paziente sia ricoverato in ospedale o meno, deve essere la costruzione di un'alleanza terapeutica. Affinché si instauri il rapporto necessario, il clinico deve semplicemente ascoltare il paziente, empatizzando con il suo punto di vista. Forse l'errore più comune, sia dei familiari che dei professionisti della salute mentale inesperti, è quello di cercare di consolare il paziente focalizzandosi su quanto vi è di positivo. Commenti come "Lei non ha ragione d'essere così depresso - ha così tante belle qualità", oppure "Perché dovrebbe suicidarsi? Ci sono così tante cose per le quali vale la pena di vivere" sortiranno facilmente l'effetto contrario. Questi commenti "incoraggianti" sono vissuti dai pazienti depressi come completi fallimenti dell'empatia, che potrebbero portarli a sentirsi maggiormente incompresi e soli incrementando così le loro tendenze suicide. I terapeuti che lavorano con questi pazienti dovrebbero invece comunicare di comprendere che ci sono certamente dei motivi per essere depressi. Potranno empatizzare con il dolore della depressione, chiedendo però, allo stesso tempo, la collaborazione del paziente per una ricerca delle cause che sono alla base della malattia. L'approccio iniziale dovrebbe essere supportivo ma fermo (Arieti, 1977; Lesse, 1978). Interpretazioni premature, come ad esempio "In realtà lei non è depresso - è arrabbiato", verranno sentite sia come non empatiche che come non centrate. Il terapeuta sarà maggiormente d'aiuto semplicemente ascoltando, e sforzandosi di comprendere come il paziente stesso interpreta la malattia. Durante le prime fasi della raccolta dell'anamnesi, il clinico elaborerà una formulazione esplicativa della depressione del paziente. Quali eventi hanno apparentemente scatenato la depressione? Qual è l'aspirazione, di elevato valore narcisistico, che il paziente non è riuscito a raggiungere? Qual è l'ideologia dominante del paziente? Chi è l'altro dominante per il quale il paziente sta vivendo e dal quale non riceve le risposte desiderate? Vi sono sentimenti di colpa associati all'aggressività e alla rabbia e, se sì, con chi è arrabbiato il paziente? I tentativi del Sé di ottenere delle risposte dall'oggetto-Sé vengono frustrati? Il paziente ha primariamente una depressione di tipo anaclitico, nella quale il cambiamento terapeutico riguarderà le relazioni interpersonali? Oppure il paziente ha una depressione prevalentemente introiettiva, per la quale saranno centrali la definizione del Sé e del suo valore? Per l'approccio psicodinamico ai pazienti depressi è cruciale stabilire il contesto e il significato interpersonale della loro depressione. Sfortunatamente, i pazienti spesso resistono tenacemente a tali implicazioni interpersonali (Betcher, 1983). Spesso preferiscono vedere la loro depressione è i loro desideri di suicidio come se si sviluppassero nel vuoto, insistendo con fervore che nessuno va incolpato tranne loro stessi. Un'accurata attenzione agli sviluppi del transfert-controtransfert può consentire di penetrare in questa forma di resistenza. Sia in psicoterapia che nel trattamento ospedaliero, i pazienti ricapitolano le loro relazioni oggettuali interne e anche i loro modelli relazionali con figure esterne. I pazienti depressi suscitano sentimenti particolarmente intensi. Nel corso di un trattamento, il terapeuta potrà provare disperazione, rabbia, desideri di sbarazzarsi del paziente, potenti fantasie di salvataggio e una miriade di altri sentimenti. Tutte queste risposte emotive possono riflettere come altre persone nella vita del paziente si possano sentire. Queste dimensioni interpersonali della depressione possono essere implicate nel provocare o perpetuare la condizione patologica. Per esaminare l'impatto della condizione del paziente sugli altri, il terapeuta deve richiedere la collaborazione del paziente utilizzando tali sentimenti in maniera costruttiva all'interno della relazione terapeutica. Molti casi di depressione refrattaria sono giunti a situazioni di impasse nella ripetizione di un modello di relazioni oggettuali caratteristico che ha forti basi caratteriali ed è quindi difficile da modificare. La letteratura sulle famiglie dei pazienti depressi indica chiaramente che la frequenza delle ricadute, il corso della depressione e il comportamento suicidario sono tutti influenzati dal funzionamento familiare (Keitner, Miller, 1990). In uno studio (Hooley, Teasdale, 1989) il miglior predittore, preso singolarmente, di recidive era la percezione del paziente depresso che il coniuge fosse particolarmente critico. Parallelamente alla ricerca sulle famiglie dei pazienti schizofrenici, diversi studi hanno dimostrato che anche un'elevata emotività espressa nei familiari dei pazienti depressi può influenzare negativamente il rischio di ricadute (Hooley et al., 1986; Vaughn, Leff, 1976). I pazienti depressi suscitano una notevole quota di ostilità e di sadismo nei membri della loro famiglia, e i clinici devono aiutare i familiari a superare i loro sentimenti di colpa per tali reazioni, così che essi possano accettarle come risposte comprensibili. 227-32 Innanzi tutto, i clinici debbono tenere sempre a mente un fatto inoppugnabile - i pazienti che sono veramente intenzionati a uccidersi finiranno col farlo. Nessuna entità di contenzione fisica, attenta osservazione e capacità clinica può fermare il paziente realmente determinato al suicidio. Dopo un suicidio portato a compimento, i clinici spesso si sentono in colpa per non aver identificato i segni premonitori che avrebbero consentito di prevedere un imminente tentativo di suicidio. Nonostante una corposa mole di letteratura sui fattori di rischio per il suicidio a breve e a lungo termine, la nostra capacità di prevedere il suicidio di un paziente è ancora notevolmente limitata. Il mezzo principale per valutare un rischio imminente di suicidio in un setting clinico è la comunicazione verbale del paziente rispetto alle sue intenzioni, o un'azione chiaramente suicidaria nei suoi intenti. I clinici non possono leggere nella mente e non devono rimproverarsi per i loro fallimenti quando non sono presenti indicazioni chiare, verbali o non, di rischio suicidario. Uno studio (Isometsà et al., 1995) ha rilevato che in 571 casi di suicidio, soltanto 1136 per cento dei pazienti che erano in terapia psichiatrica comunicò un intento suicidario. Il trattamento della depressione suicidaria deve cominciare con la prescrizione di un farmaco antidepressivo adeguato che non sia letale se assunto in overdose. Devono essere valutati diversi altri fattori di rischio, tra i quali: sentimenti di disperazione, grave ansia o attacchi di panico, abuso di sostanze, presenza di eventi avversi recenti, problemi finanziari o disoccupazione, sesso maschile, un'età di sessant'anni o oltre, e il fatto di vivere da soli o di essere vedovi o divorziati (Clark, Fawcett, 1992; Hirschfeld, Russell, 1997). Se il paziente ha un piano preciso e sembra intenzionato a metterlo presto in atto, è richiesto un ricovero urgente in un reparto di psichiatria. Se il rischio di suicidio è sostanziale ma non imminente, dovrebbe essere coinvolto un membro della famiglia o un'altra persona vicina. Dovrebbe essere valutata la disponibilità di armi da fuoco in casa o altrove. Sintesi della letteratura (Cummings, Koepsell, 1998; Miller, Hemenway, 1999) mettono in evidenza che la disponibilità di una pistola aumenta in modo significativo il rischio di suicidio. Una comunicazione chiara è essenziale in tali circostanze, e deve essere ricercato anche un eventuale abuso di sostanze. In caso di intensa ansia o di panico dovrebbe essere considerato l'uso di una benzodiazepina (Hirschfeld, Russell, 1997).
Psicopatologia - Gabbard

Inviato:
30/11/2014, 15:04
da Royalsapphire
La psicoterapia può anche essere di straordinaria importanza per comprendere perché il paziente vuole morire e che cosa si aspetta che accadrà dopo la morte. I clinici con formazione psicodinamica tendono a essere d'accordo nel ritenere che i terapeuti che cadono preda dell'illusione di poter salvare i loro pazienti dal suicidio stanno in realtà riducendo la loro possibilità di farlo (Hendin, 1982; Meissner, 1986; Richman, Eyman, 1990; Searles, 1967; Zee, 1972). Una preoccupazione psicologica saliente nel paziente suicida è il desiderio che una madre incondizionatamente amorevole si prenda cura di lui (Richman, Eyman, 1990; Smith, Eyman, 1988). Alcuni terapeuti sbagliano nel cercare di gratificare questa fantasia andando incontro a ogni bisogno del paziente. Possono accettare telefonate del paziente a ogni ora del giorno o della notte e durante le ferie. Possono vedere il paziente nel loro studio sette giorni alla settimana. Alcuni hanno addirittura avuto dei coinvolgimenti sessuali con i loro pazienti nel disperato tentativo di gratificare le richieste inesauribili associate alla depressione (Twemlow, Gabbard, 1989). Questo genere di comportamento esacerba ciò che Hendin (1982) ha descritto come una delle caratteristiche più letali dei pazienti con tendenza al suicidio - ovvero, la loro tendenza ad assegnare ad altri la responsabilità del loro restare in vita. Cercando di gratificare queste richieste sempre crescenti, il terapeuta collude con la fantasia del paziente secondo la quale vi è realmente da qualche parte nel mondo una madre incondizionatamente amorevole, diversa da chiunque altro. I terapeuti non possono assolutamente sostenere tale illusione all'infinito; coloro che cercassero di farlo porterebbero il paziente verso una schiacciante delusione, che potrebbe aumentare il rischio di suicidio. 1 clinici che con i pazienti tendenti al suicidio vengono trascinati nel ruolo del salvatore operano spesso sulla base dell'assunto, conscio o inconscio, di essere in grado di offrire l'amore e le attenzioni che altri non sono in grado di dare, trasformando così, magicamente, il desiderio del paziente di morire in un desiderio di vivere. Questa fantasia è tuttavia una trappola perché, come ha notato Hendin (1982): "Il programma segreto del paziente è cercare di dimostrare che nulla di quanto farà il terapeuta sarà sufficiente. Il desiderio del terapeuta di vedersi come il salvatore del paziente con tendenze suicide può rendere il terapeuta cieco rispetto al fatto che il paziente gli ha assegnato la parte del carnefice". I terapeuti sono più utili ai pazienti tendenti al suicidio quando cercano diligentemente di comprendere e analizzare le origini dei desideri suicidi anziché divenire schiavi dei pazienti. Alcuni terapeuti riconoscono apertamente che non possono trattenere il paziente dal commettere il suicidio e offrono invece l'opportunità di comprendere perché il paziente pensi che il suicidio rappresenti l'unica scelta (Henseler, 1991). Spesso questa ammissione ha un effetto calmante e può portare a una maggiore collaborazione nel lavoro psicoterapeutico. È utile distinguere tra terapia e gestione del paziente con intenzioni suicide. La seconda riguarda misure come l'osservazione continua, le limitazioni fisiche e l'allontanamento di oggetti acuminati dall'ambiente. Sebbene questi interventi siano utili per impedire che il paziente metta in atto impulsi suicidi, le tecniche di gestione non riducono necessariamente la futura vulnerabilità del paziente rispetto al ricorso a comportamenti suicidi. La terapia dei pazienti con tendenze suicide - che consiste in un approccio psicoterapeutico volto alla comprensione dei fattori interni e degli agenti stressanti esterni che rendono il paziente potenziale suicida - è necessaria per modificare il radicale desiderio di morire. Il suicidio è anche l'estrema ferita narcisistica per il terapeuta. L'ansia del clinico riguardo al suicidio del paziente può anche sorgere più dal timore che gli altri possano accusarlo per la morte del paziente ché non dalla preoccupazione per il benessere- individuale del paziente. I terapeuti che trattano pazienti con gravi tendenze suicide inizieranno a un certo punto a sentirsi tormentati dalla ripetuta negazione dei loro sforzi. In tali situazioni può facilmente emergere un odio controtransferale, e i terapeuti coveranno spesso un inconscio desiderio che il paziente muoia per mettere fine al tormento. Maltsberger e Buie (1974) hanno notato che sentimenti di malanimo e di avversione sono tra le più frequenti risposte controtransferali associate al trattamento di pazienti con gravi tendenze suicide. L'incapacità di tollerare i propri desideri sadici verso il paziente può portare il terapeuta a mettere in atto i sentimenti controtransferali. Gli autori avvertono che, mentre i sentimenti di malanimo sono più spiacevoli e inaccettabili, quelli di avversione sono potenzialmente più letali, perché possono portare il terapeuta a trascurare il paziente e offrire l'occasione per un tentativo di suicidio. In un reparto ospedaliero, questa forma di controtransfert si può manifestare semplicemente "dimenticandosi" di controllare il paziente, come prevedono le regole per la gestione dei potenziali suicidi. L'odio controtransferale deve essere accettato come parte dell'esperienza terapeutica con pazienti tendenti al suicidio. Esso emerge spesso in risposta diretta all'aggressività del paziente. Minacce suicide possono pendere sulla testa del terapeuta come la mitica spada di Damocle, e tormentarlo giorno e notte. In maniera analoga, i familiari del paziente potranno essere afflitti dalla preoccupazione che una mossa falsa o un commento sgradevole da parte loro possa essere la causa del suicidio. Se il terapeuta scinde e disconosce l'odio controtransferale, questo potrà essere proiettato sul paziente, che oltre ai propri preesistenti impulsi suicidi dovrà anche affrontare i desideri omicidi del terapeuta. I clinici possono anche trattare i loro sentimenti aggressivi tramite una formazione reattiva, che può portare a fantasie di salvezza e a esagerati sforzi per prevenire il suicidio. Gli psicoterapeuti che hanno in terapia pazienti con tendenze suicide devono aiutarli a raggiungere un accordo con la loro ideologia dominante (Arieti, 1977) e con le loro fantasie rigidamente mantenute (Richman, Eyman, 1990; Smith, Eyman, 1988). Quando vi è disparità tra la realtà e la visione ristretta che il paziente ha di quello che la vita dovrebbe essere, il terapeuta può aiutare il paziente a elaborare il lutto per la perdita di tale fantasia. Questa tecnica può paradossalmente comportare che il terapeuta riconosca la disperazione del paziente in maniera tale che possa essere elaborato il lutto per i sogni infranti e questi possano essere sostituiti con altri più realistici. Per trattare efficacemente i pazienti con tendenze suicide, i clinici devono distinguere la responsabilità del paziente dalla responsabilità del terapeuta. I medici in genere, e soprattutto gli psichiatri, sono per carattere inclini a un esagerato senso di responsabilità (Gabbard, 1985). Tendiamo a incolparci per esiti negativi che sono al di fuori del nostro controllo. Dobbiamo, in definitiva, accettare il fatto che vi sono delle malattie psichiatriche terminali. I pazienti devono assumersi la responsabilità di decidere se commettere suicidio o collaborare attivamente con il loro terapeuta per capire il proprio desiderio di morire. Fortunatamente, la grande maggioranza dei pazienti guarda al suicidio con una certa ambivalenza. La parte dell'individuo potenziale suicida che mette in dubbio la soluzione suicida può portare questi pazienti a scegliere la vita anziché la morte. 232-37 Disturbi d’ansia Gli attacchi di panico durano generalmente solo alcuni minuti, ma causano al paziente una considerevole angoscia. Oltre ad allarmanti sintomi fisiologici, come soffocamento, vertigini, sudorazione, tremore e tachicardia, i pazienti con disturbo da attacchi di panico spesso avvertono una sensazione di morte imminente. La maggior parte dei pazienti con disturbo da attacchi di panico soffre anche di agorafobia (la paura d'essere intrappolato in un luogo o in una situazione dai quali la fuga può essere difficile o tremendamente imbarazzante). Siccome gli attacchi di panico sono ricorrenti, i pazienti spesso sviluppano una forma secondaria di ansia anticipatoria, preoccupandosi perennemente di quando e dove avverrà l'attacco successivo. I pazienti con disturbo da attacchi di panico e agorafobia spesso riducono i loro viaggi per cercare di controllare la temuta situazione di avere un attacco di panico in un luogo dal quale non se ne possono andare facilmente. Il disturbo da attacchi di panico può apparire privo di contenuti psicologici. In alcuni casi gli attacchi sembrano venire "dal nulla", senza apparenti fattori precipitanti ambientali o intrapsichici. Di conseguenza, il ruolo dello psichiatra a orientamento psicodinamico è spesso - e purtroppo - considerato irrilevante nel trattamento di questi pazienti. Una percentuale significativa di persone che soffrono di disturbo da attacchi di panico ha tali attacchi a causa di fattori psicodinamici, e potrebbe quindi rispondere a interventi psicologici (Mibrod et al., 1997; Nemiah, 1984). I clinici a orientamento psicodinamico dovrebbero esaminare accuratamente le circostanze in cui si verificano gli attacchi e la storia di ciascun paziente, per determinare se vi siano fattori psicologici rilevanti. Sebbene i dati che dimostrano il coinvolgimento di fattori neurofisiologici nel disturbo da attacchi di panico siano irrefutabili, queste osservazioni sono più persuasive nella spiegazione della patogenesi piuttosto che dell'eziologia. Nessun dato neurobiologico è in grado di spiegare che cosa scateni l'inizio di un attacco di panico. Un'analisi più approfondita degli intervistati dimostrò la presenza di un pattern d'ansia rispetto alla socializzazione con gli altri durante l'infanzia, di relazioni con i genitori non supportive e della sensazione di essere intrappolati. La rabbia e l'aggressività erano di difficile gestione per la maggior parte di questi pazienti. Si é riscontrato che, rispetto a soggetti di controllo, i pazienti con disturbo da attacchi di panico presentano una maggiore incidenza di eventi esistenziali stressanti, in particolare perdite, nel mese che precede l'esordio del disturbo (Faravelli, Pallanti, 1989). In un altro studio controllato su pazienti con disturbo da attacchi di panico (Roy-Byrne et al., 1986), il gruppo sperimentale non solo aveva vissuto un numero significativamente più elevato di eventi stressanti nell'anno precedente l'inizio del disturbo, ma avvertiva altresì un grado maggiore di disagio nei confronti di tali eventi rispetto ai soggetti di controllo. In uno studio su 1018 coppie di gemelle (Kendler et al., 1992a), il disturbo da attacchi di panico è stato associato in modo deciso e significativo sia con la separazione che con la morte dei genitori. Una teoria patogenetica con un certo grado di supporto empirico sostiene che i pazienti con disturbo da attacchi di panico hanno una vulnerabilità neurofisiologica predisponente che può interagire con specifici fattori stressanti ambientali per produrre il disturbo. Kagan e collaboratori (1988) hanno identificato una caratteristica temperamentale innata in un certo numero di bambini, che hanno definito inibizione comportamentale a ciò che non è noto. Questi bambini tendono a essere facilmente spaventati da tutto ciò che è loro estraneo nell'ambiente. Per adattarsi a questa paura, fanno affidamento sulla protezione dei genitori. Crescendo, tuttavia, imparano che i genitori non saranno sempre a disposizione per proteggerli e rassicurarli. Possono allora esternalizzare la propria inadeguatezza proiettandola nei genitori, che considerano inaffidabili e imprevedibili. Possono arrabbiarsi per la loro incoerente disponibilità, ma tale rabbia crea nuovi problemi, poiché si preoccupano che le fantasie rabbiose finiscano col distruggere e allontanare i genitori, lasciandoli privi di figure da cui dipendere per acquisire sicurezza (Busch et al., 1991; Milrod et al., 1997). Ne risulta un circolo vizioso in cui la rabbia del bambino minaccia il legame con il genitore e così accentua la dipendenza ostile e spaventata del bambino. Comprendere la patogenesi del disturbo da attacchi di panico in base alla prospettiva della teoria dell'attaccamento è anche utile in un approccio psicodinamico alla terapia (Shear, 1996). Un piccolo studio preliminare sullo stile di attaccamento di 18 donne affette da disturbi d'ansia indicava che tutte avevano stili di attaccamento problematici (Manassís et al., 1994). Delle 18 pazienti 14 furono diagnosticate affette da disturbo da attacchi di panico; molte di queste ultime presentavano un attaccamento preoccupato. 1 pazienti con disturbo da attacchi di panico spesso vedono la separazione e l'attaccamento come reciprocamente escludentesí. Hanno difficoltà nel modulare la normale oscillazione tra separazione e attaccamento in quanto hanno un'accentuata sensibilità sia alla perdita della libertà che alla perdita della sicurezza e della protezione. Queste difficoltà si traducono in un operare all'interno di uno spettro estremamente ristretto di comportamenti che tentano, nello stesso tempo, di evitare sia la separazione, che è troppo minacciosa, sia l'attaccamento, che è troppo intenso. Questa limitata zona di tranquillità spesso si manifesta in uno stile di interazione con gli altri ipercontrollante. Milrod (1998) suggerisce che coloro che sviluppano un disturbo da attacchi di panico sono soggetti a sensazioni di frammentazione del Sé, e possono avere bisogno di un terapeuta o di altre figure importanti che li aiutino a sentire di avere un senso stabile di identità. Nelle pazienti di sesso femminile un altro fattore eziologico collegato a problemi di attaccamento è l'abuso sessuale e fisico durante l'infanzia. Poiché il trauma infantile interferisce con l'attaccamento del bambino ai genitori, l'abuso sessuale potrebbe spiegare alcune delle difficoltà che i pazienti con disturbo da attacchi di panico hanno nel sentirsi sicuri e tranquilli con gli oggetti significativi della loro vita. L'interiorizzazione di rappresentazioni violente dei genitori interferisce anche con lo sviluppo della fiducia nella vita adulta. I pazienti che soffrono per una costanza d'oggetto scarsamente sviluppata non riescono, in momenti di difficoltà, a fare appello a un'immagine interna del loro terapeuta per acquietare l'ansia. Nei lunghi fine settimana o durante le vacanze del terapeuta, questi pazienti possono avere gravi attacchi di panico indotti dal pensiero di perdere il loro terapeuta. Possono temere che egli sia morto o sul punto di rifiutarli o di abbandonarli. In simili circostanze il solo fatto di udire la voce del terapeuta al telefono può eliminare completamente il panico nel giro di pochi secondi. I pazienti che soffrono di carenza di costanza d'oggetto sono spesso in grado di sviluppare un'immagine interiorizzata del loro terapeuta nel decorso a lungo termine di una psicoterapia espressivo-supportiva. Come risultato di questo processo di interiorizzazione, sia l'angoscia di separazione che gli attacchi di panico possono migliorare considerevolmente. È di solito opportuno che il terapeuta esplori le paure del paziente di divenire completamente dipendente nei suoi confronti con il progredire della terapia. Allo stesso modo vi può essere un'ansia eccessiva per la perdita del terapeuta, sia temporaneamente per le vacanze che definitivamente per la fine della terapia. In molti casi fantasie di rabbia incontrollabile, o anche omicida, possono essere centrali nella terapia. La rabbia dei genitori può essere stata così intensa che ogni esplosione di rabbia è vista come potenzialmente distruttiva. Alcuni bambini possono avere vissuto i genitori come figure che li abbandonavano da un punto di vista emozionale quando essi esprimevano la loro rabbia. Gli psicoterapeuti possono aver bisogno di aiutare i pazienti a divenire consapevoli della loro ansia riguardo all'espressione della rabbia e al bisogno correlato di difendersi da questa emozione. Le difese della somatizzazione e dell'esternalizzazione spesso agiscono sinergicamente per prevenire una riflessione interna. Nella somatizzazione l'attenzione del paziente è focalizzata su fenomeni fisici piuttosto che su cause o significati psicologici. Nell'esternalizzazione i problemi sono attribuiti ad altre persone, che sono considerate in qualche modo avverse al paziente. Usate in associazione queste difese possono creare una specifica forma di relazione d'oggetto in cui gli altri (familiari, amici, medici) sono visti come guaritori a cui è attribuita la capacità di porre rimedio a qualcosa che non va nel corpo del paziente. Questa modalità di relazione d'oggetto si elicita frequentemente anche nel transfert. I pazienti con disturbo da attacchi di panico necessitano spesso di una combinazione di terapia farmacologica e psicoterapia (Nemiah, 1984). Anche quando i loro sintomi sono sotto controllo farmacologico, i pazienti con attacchi di panico e agorafobia sono spesso riluttanti ad avventurarsi nuovamente nel mondo e possono aver bisogno di interventi psicoterapeutici per superare questa paura (Cooper, 1985; Zitrin et al., 1978). Almeno uno studio ha suggerito che la combinazione di terapia dinamica e terapia farmacologica può aiutare a ridurre le ricadute nei pazienti con disturbo da attacchi di panico. Alcuni pazienti presentano una resistenza maggiore ai farmaci, spesso perché credono che il fatto di assumere farmaci li stigmatizzi come malati mentali, e un intervento psicoterapeutico si rende necessario per aiutarli a comprendere e a eliminare le loro riserve sulla farmacoterapia. Altri decidono di interrompere la terapia farmacologica per la loro incapacità di tollerarne gli effetti collaterali. Affinché il piano terapeutico sia completo ed efficace, questi pazienti hanno bisogno di approcci psicoterapeutici in aggiunta a farmaci appropriati. In tutti i pazienti con sintomi di attacchi di panico o agorafobia, un'attenta valutazione psicodinamica aiuterà a soppesare i contributi dei fattori biologici e dinamici. 247-54 I disturbi d'ansia, considerati nel loro complesso, sono i più diffusi tra tutti i principali gruppi di disturbi mentali (Regier et al., 1988), e tra i disturbi d'ansia le fobie sono di gran lunga le più comuni. Nel DSM-IV le fobie sono suddivise in tre categorie: 1) agorafobia (senza anamnesi di disturbo da attacchi di panico), 2) fobia specifica, 3) fobia sociale. La comprensione psicodinamica delle fobie illustra il meccanismo nevrotico della formazione del sintomo descritto in precedenza. Quando pensieri proibiti sessuali o aggressivi che potrebbero portare a una ritorsione punitiva minacciano di emergere dall'inconscio, viene attivato un segnale d'ansia che porta allo spiegamento di tre meccanismi di difesa - spostamento, proiezione ed evitamento (Nemiah, 1981). Queste difese eliminano l'ansia rimuovendo ancora una volta il desiderio proibito, ma il prezzo del controllo dell'ansia è la creazione di una nevrosi fobica. Le fobie si inseriscono perfettamente in un modello di diatesi genetico-costituzionale interagente con stressor ambientali. Kendler e collaboratori (1992b) studiarono 2 163 gemelli di sesso femminile e conclusero che il miglior modello per il disturbo è una disposizione ereditaria alla fobia che richiede specifici fattori eziologici ambientali per produrre una sindrome fobica conclamata. Nei loro studi sulla popolazione, uno degli evidenti stressor ambientali associati a un aumentato rischio di fobia era la morte di un genitore prima dell'età di diciassette anni (Kendler et al., 1992a). Sebbene abbiano osservato che i bambini con questo temperamento presentano già alla nascita una soglia più bassa per l'attivazione limbico-ipotalamica in risposta a cambiamenti ambientali imprevisti, Kagan e colleghi concludono anche che una certa forma di stress ambientale cronico deve agire sulla predisposizione temperamentale originaria per dare luogo, a due anni di età, a un comportamento schivo, timido e taciturno. Essi hanno postulato che stressor come umiliazioni e critiche da parte di un fratello maggiore, liti fra i genitori, la morte di un familiare o la separazione da una figura importante siano probabilmente tra i fattori ambientali che danno il maggior contributo. i bambini comportamentalmente inibiti che arrivano a sviluppare evidenti disturbi d'ansia sono esposti a genitori maggiormente ansiosi, i quali possono comunicare ai figli la sensazione che il mondo sia un luogo pericoloso. La fobia sociale è una condizione con un'alta percentuale di comorbilità. Il lavoro clinico con pazienti socialmente fobici rivela la presenza di alcune relazioni oggettuali interne caratteristiche. In particolare, questi pazienti hanno interiorizzato le rappresentazioni di genitori, agenti di cura o fratelli che inducono vergogna o imbarazzo, criticano, ridicolizzano, umiliano, abbandonano (Gabbarti, 1992). Questi introietti si stabiliscono precocemente nella vita e vengono ripetutamente proiettati in persone dell'ambiente che successivamente vengono evitate. Anche se tali pazienti possono essere geneticamente predisposti a vivere gli altri come minacciosi, esperienze positive possono in parte mitigare questi effetti. È come se sin dalla nascita fosse presente un programma geneticamente determinato. Se coloro che si prendono cura del bambino si comportano in accordo con questo programma, l'individuo diventerà sempre più timoroso nei confronti degli altri e svilupperà una fobia sociale. Se gli agenti di cura sono invece sensibili alle paure del bambino e le compensano, gli introietti saranno più benigni, meno terrificanti, e produrranno con minori probabilità la sindrome della fobia sociale dell'adulto. Sebbene molti pazienti con fobia sociale rispondano bene agli inibitori selettivi del reuptake della serotonina (ssxi) c/o alla terapia cognitiva, anche la terapia dinamica può rivelarsi utile. Alcuni pazienti sono particolarmente resistenti al trattamento in quanto temono ogni situazione nella quale potrebbero essere giudicati o criticati. Poiché il setting terapeutico è considerato una situazione di questo tipo, la paura transferale di essere umiliati o giudicati può portare i pazienti a saltare frequentemente gli appuntamenti o a interrompere del tutto la terapia. Infatti, a causa dell'alta percentuale di comorbilità del disturbo, a volte la fobia sociale può essere scoperta soltanto quando un paziente cerca aiuto per altre ragioni. L'imbarazzo e la vergogna sono gli stati affettivi predominanti e il terapeuta che si sintonizza con questi affetti può avere una migliore possibilità di formare un'alleanza terapeutíca nelle sedute iniziali con il paziente. Esplorare le fantasie sulle modalità con cui il terapeuta e gli altri potrebbero reagire aiuterà questi pazienti anche a cominciare a rendersi conto che le loro percezioni su come gli altri si pongono nei loro confronti potrebbero essere diverse da ciò che gli altri di fatto provano per loro. La resistenza alla terapia dovrebbe essere affrontata con decisione, poiché in assenza di trattamento questi pazienti spesso evitano la scuola o il lavoro, e molti finiscono col vivere di sussidi sociali o pensioni di invalidità (Schneier et al., 1992). Le ramificazioni interpersonali delle fobie traggono spesso beneficio anche da un approccio psicodinamico. In virtù del loro essere confinati in casa, gli individui gravemente agorafobici hanno spesso bisogno di una persona che si prenda cura di loro, come un coniuge o un genitore. È comune, ad esempio, che una donna agorafobica e il marito si siano adattati alla condizione di lei nel corso di molti anni. Il marito può effettivamente sentirsi più sicuro sapendo che la moglie é sempre in casa. Se l'agorafobia viene trattata, l'equilibrio della coppia potrà destabilizzarsi. Il marito potrebbe diventare più ansioso per paura che la moglie, uscendo di casa, possa cercare altri uomini. Una valutazione diagnostica e una terapia adeguate delle fobie devono includere un'attenta valutazione di come la fobia s'inserisce nella rete di relazioni del paziente. Una comprensione psicodinamica del contesto interpersonale di una fobia potrebbe pertanto essere cruciale nell'affrontare le resistenze ai trattamenti convenzionali come la desensibilizzazione comportamentale e i farmaci. 254-8 Le ossessioni vengono definite come pensieri egodistonici ricorrenti, mentre le compulsioni sono delle azioni ritualizzate che devono essere compiute per alleviare l'angoscia. Le lamentele di questi pazienti possono rientrare in cinque categorie principali: 1) rituali che comportano verifiche, 2) rituali che comportano la pulizia, 3) pensieri ossessivi non accompagnati da compulsioni, 4) lentezza ossessiva, 5) rituali misti (Baer, Jenike, 1986). I pazienti che sono impegnati in rituali di pulizia o pensieri ossessivi riguardanti germi e possibili contaminazioni presentano notevoli somiglianze con i pazienti fobici. Il disturbo ossessivo-compulsivo è spesso complicato da depressione e da una grave menomazione nel funzionamento professionale e sociale, tale che anche i familiari e i colleghi dei pazienti possono venire condizionati in maniera significativa dalla malattia. il DSM-3 riclassificò l'OCD come un disturbo d'ansia, in quanto la funzione primaria di un'ossessione o di un rituale sembra essere quella di regolare l'angoscia. È altresì ben noto che i sintomi crescono e scemano in relazione alla presenza o all'assenza di stress nella vita del paziente. Si può verificare un miglioramento col ridursi della tensione, mentre un aumento dello stress o il ritorno della situazione originaria precipitante peggiorerà la sintomatologia (Black, 1974). Tuttavia, i miglioramenti osservati in questi studi erano quasi sempre incompleti, e la combinazione di SSRI e terapia comportamentale viene quindi in genere considerata l'approccio terapeutico ottimale. Ciò nonostante strategie psicodinamiche possono essere di notevole aiuto in molte situazioni. Molti pazienti con OCD sembrano aggrapparsi ai loro sintomi, resistendo tenacemente agli sforzi terapeutici. I sintomi stessi possono servire per proteggere certi pazienti da una disintegrazione psicotica, assolvendo pertanto una funzione molto utile in termini di omeostasi psicologica. Molti familiari descrivevano la sensazione di "essere costretti" dal paziente a fare cose che si adattassero alle sue ossessioni o compulsioni. Allo stesso modo, questo modello di relazione viene interiorizzato e frequentemente riprodotto quando i pazienti sono ricoverati in ospedale. Un atteggiamento caratterologico di legittimazione spesso accompagna la tendenza di alcuni pazienti con OCD nell'insistere che tutti - senza eccezioni - devono adattarsi alla loro malattia. I sintomi dell'OCD in genere portano a gravi problemi relazionali, e questo disturbo è associato a un elevato rischio di divorzio o di separazione (Zetin, Kramer, 1992). In particolare, può essere d'aiuto in questo ambito una psicoterapia dinamica di gruppo o della famiglia. Un altro utile contributo della clinica psicodinamica nel trattamento dell'OCD può derivare dall'analisi dei fattori che attivano o aggravano i sintomi. Aiutando i pazienti e le loro famiglie a comprendere la natura di questi fattori stressanti, i sintomi possono essere gestiti in maniera più efficace. 258-63 l'evento precipitante più comune riportato tra gli individui affetti da PTSD era la morte improvvisa e inaspettata di una persona cara, suggerendo che l'enfasi posta su stupri, aggressioni violente e guerre mette a fuoco soltanto una porzione della popolazione che soffre di questo disturbo. Egli osservò che le vittime di un trauma oscillano tra il diniego dell'evento e la sua ripetizione compulsiva attraverso flashback o incubi. La mente cerca pertanto di elaborare e organizzare gli stimoli eccessivamente opprimenti. Horowitz identificò otto tematiche psicologiche comuni che conseguono a un grave trauma: 1) dolore o tristezza, 2) colpa per i propri impulsi di rabbia o distruttivi, 3) paura di diventare distruttivi, 4) sentimenti di colpa per essere sopravvissuti, 5) paura di identificarsi con le vittime, 6) vergogna rispetto a un sentimento di impotenza e di vuoto, 7) paura di ripetere il trauma, 8) intensa rabbia diretta verso la fonte del trauma. Nonostante le raccomandazioni dell'Advisory Committee affinché si creasse una nuova categoria per la risposta allo stress, il PTSD è stato mantenuto nella sezione dei disturbi d'ansia. Tuttavia, il criterio dello stressor è stato modificato significativamente, così che vengono richieste entrambe le seguenti condizioni: "1) la persona ha vissuto, è stata testimone o ha affrontato uno o più eventi che riguardano la morte, sia essa reale o temuta, un danno grave o una minaccia per l'integrità fisica propria o altrui; 2) la risposta della persona è caratterizzata da un'intensa paura, da impotenza e da orrore. Nei bambini, ciò può essere espresso da un comportamento disorganizzato o agitato". Questi cambiamenti tengono quindi maggiormente presente sia i fattori soggettivi sia il fatto che la prevalenza di eventi traumatici nella popolazione generale è più elevata di quanto ritenuto in precedenza. Questa revisione nel DSM-4 riflette l'importanza di un'attenta valutazione psicodinamica sia dei significati che il paziente assegna all'evento, sia delle specifiche vulnerabilità psicologiche del paziente nella valutazione dei vari fattori precipitanti ambientali (Ursano, 1987; West, Coburn, 1984). Uno studio (Breslau et al., 1991) ha dimostrato che il rischio di sviluppare un PTSD poteva essere associato con una precoce separazione dai genitori, con nervosismo, con una storia familiare di ansia e con una preesistente ansia o depressione. Gli autori concludevano che era necessaria, per l'emergere della sintomatologia, una personalità predisposta allo sviluppo di un PTSD. Gli aspetti della percezione soggettiva che sono stati più ampiamente documentati riguardano l'esperienza di estrema paura, il vissuto soggettivo di impotenza, la percezione di una minaccia per la vita e la percezione di una potenziale violenza fisica (March, 1993). La maggior parte delle persone non sviluppa un PTSD neanche quando si confronta con traumi terrificanti. In alcuni individui eventi che sembrano essere di gravità relativamente modesta possono invece scatenare un PTSD a causa del significato soggettivo che viene loro attribuito. Vecchi traumi possono inoltre essere rievocati da circostanze attuali. Secondo Davidson e Foa (1993),1 fattori predisponenti a una particolare vulnerabilità che influenzano lo sviluppo di un PTSD sono: 1) vulnerabilità genetico-costituzionale a malattie psichiatriche; 2) esperienze negative o traumatiche nell'infanzia; 3) certe caratteristiche di personalità (come quelle che si ritrovano nei pazienti antisociali, dipendenti, paranoici e borderline); 4) recenti stress o cambiamenti esistenziali; 5) un sistema di supporto compromesso o inadeguato; 6) un grave e recente abuso di alcol; 7) la percezione che il locus di controllo sia esterno invece che interno. Quadri di PTSD sintomatologicamente più gravi erano associati a livelli intellettivi inferiori, suggerendo che variabili cognitive possono influenzare la capacità dell'individuo di adattarsi al trauma. questi soggetti soffrono di alessitimia - l'incapacità di identificare o verbalizzare stati affettivi. A causa di queste considerazioni, la psicoterapia dinamica dei pazienti con PTSD deve mantenere un equilibrio tra un approccio distaccato e osservante, che consente al paziente di celare contenuti dolorosi, e un atteggiamento benevolo che incoraggi il paziente a ricostruire un quadro completo del trauma. Integrare il ricordo del trauma nell'ambito della continuità del senso di sé del paziente può essere un obiettivo non realistico, in quanto il paziente non deve essere costretto a procedere con ritmi che diventano eccessivi e disorganizzanti. La costruzione di una solida alleanza terapeutica nella quale il paziente si sente sicuro è decisiva per il successo della terapia. Un'educazione sulle comuni reazioni a un trauma può facilitare lo sviluppo di una simile alleanza, che può essere ulteriormente rinforzata da una conferma empatica del fatto che i pazienti hanno il diritto di sentirsi come si sentono. Il terapeuta, con l'intenzione di salvare il paziente- dal terribile trauma che ha vissuto, può sviluppare fantasie di onnipotenza. Alternativamente, il terapeuta può sentirsi sopraffatto, arrabbiato e impotente di fronte all'apparente resistenza del paziente a superare il trauma. Quando il paziente è particolarmente tenace nell'aggrapparsi ai ricordi del trauma, il terapeuta può perdere le speranze e diventare indifferente. Nella maggior parte dei casi con questi pazienti gli obiettivi della psicoterapia dovrebbero essere modesti - la guarigione o la completa scomparsa dei sintomi sono probabilmente troppo ambiziose. Un'ambizione più ragionevole è quella di arrestare un ulteriore declino, di sostenere le aree di adeguato funzionamento e di ristabilire l'integrità del paziente come persona (Lindy et al., 1984). Il disturbo acuto da stress (ASD) ha, rispetto agli stressor, gli stessi criteri del PTSD - l'individuo deve aver vissuto un evento che implicava un pericolo di morte o di gravi lesioni, a cui ha risposto con intensi sentimenti di impotenza, orrore o paura. Tuttavia, i sintomi indotti dall'evento traumatico devono esordire entro quattro settimane e durare da un minimo di due giorni a un massimo di quattro settimane. In altre parole, questa categoria tiene conto delle sindromi simili al PTSD che possono apparire prima di questo disturbo, durare per un tempo minore, o costituire i prodromi di un più tipico caso di PTSD. Oltre ai criteri che riflettono la sintomatologia del PTSD (come rivivere l'evento, evitare gli stimoli che riattivano i ricordi del trauma, manifestare un'iperattivazione), la diagnosi di un disturbo acuto da stress richiede anche almeno tre dei seguenti sintomi dissociativi: amnesia per importanti aspetti del trauma; depersonalizzazione; derealizzazione; una diminuita consapevolezza dell'ambiente circostante; una sensazione soggettiva di distacco, di intontimento o mancanza di sensibilità emozionale. 263-9 I criteri del DSM-IV per il disturbo d'ansia generalizzato (GAD) hanno cercato di chiarire il limite tra questo disturbo e una normale preoccupazione. L'ansia deve essere eccessiva, difficile da controllare e per un periodo di almeno sei mesi il numero dei giorni in cui è presente deve essere superiore a quello dei giorni in cui è assente. Deve anche essere causa di uno stress significativo dal punto di vista clinico o interferire con le attività lavorative e sociali o con altre importanti aree di funzionamento. La diagnosi richiede che il focus dell'ansia non resti limitato alle caratteristiche di altri disturbi dell'asse 1, come la preoccupazione di avere un attacco di panico, quella di venire contaminato, la paura di essere imbarazzato in pubblico e così via. L'ansia deve essere così pervasiva che il paziente si concentra su una serie di attività o eventi quali bersagli dell'ansia. La qualità della vita di questi pazienti viene materialmente colpita dalla loro perenne apprensione riguardo al futuro, alle attuali circostanze di vita, alla loro situazione finanziaria, alla possibilità che ai familiari succeda qualcosa di doloroso, e a vari altri aspetti della vita. Possono provare tensione fisica e lievi sintomi di attivazione del sistema nervoso simpatico, ma nulla che si avvicini al livello del disturbo da attacchi di panico. L'ansia emerge in risposta a numerose situazioni lungo il corso della vita. Se i pazienti dovessero ricorrere ai farmaci ogni volta che si sentono ansiosi, ciò sarebbe particolarmente preoccupante per gli psichiatri. Con i farmaci si possono eliminare le componenti fisiologiche dell'ansia senza influenzare gli aspetti cognitivi della preoccupazione che permane. Quando si intraprende una terapia psicodinamica con pazienti affetti da GAD, è necessario che il terapeuta si dimostri tollerante nei confronti del paziente che focalizza la sua attenzione su sintomi somatici e altre preoccupazioni che appaiono piuttosto superficiali. Un'ipotesi di lavoro a proposito di tale funzione difensiva è che il fatto di rivolgere l'attenzione su queste preoccupazioni distrae il paziente da problemi più profondi e disturbanti. Questo caratteristico pattern difensivo di evitamento può essere legato a un attaccamento conflittuale insicuro nell'infanzia, così come a traumi precoci (Crits-Christoph et al., 1995). Dopo avere ascoltato empaticamente le preoccupazioni presentate dal paziente, il terapeuta può iniziare a porre domande su relazioni familiari, eventuali difficoltà interpersonali e situazione lavorativa del paziente. Il terapeuta può quindi fare delle associazioni tra le varie situazioni che sono motivo di preoccupazione, così che le modalità nucleari di conflitto nelle relazioni comincino a emergere. 269-73 Disturbi dissociativi Forme patologiche di dissociazione vengono identificate nei disturbi o nelle alterazioni delle funzioni normalmente integrative della memoria, dell'identità e della coscienza (Putnam, 1991). Il DSM-IV (American Psychiatric Association, 1994) include le seguenti entità diagnostiche all'interno della categoria dei disturbi dissociativi: disturbo dissociativo dell'identità (disturbo da personalità multipla), disturbo di depersonalizzazione, disturbo dissociativo non altrimenti specificato, amnesia dissociativa e fuga dissociativa. Nella sua essenza la dissociazione rappresenta il risultato di una mancata integrazione di aspetti della percezione, della memoria, dell'identità e della coscienza. Esempi meno importanti di dissociazione, come "l'ipnosi da autostrada" o sensazioni passeggere di estraneità e "distanziamento" sono fenomeni comuni nella popolazione generale. Una vasta evidenza empirica indica che la dissociazione si verifica in particolare come difesa nei confronti di un trauma. Lo stesso trauma può essere considerato come una brusca interruzione della continuità dell'esperienza (Spiegel, 1997). La dissociazione durante un trauma porta anche a un processo di immagazzinamento dei ricordi discontinuo. Una comune risposta difensiva al trauma è il distacco dissociativo, inteso come modalità per allontanare contenuti affettivi intensi. Allen e collaboratori (1999) hanno sottolineato ché questo distacco restringe notevolmente il campo della coscienza dell'individuo, sicché un ridotto riconoscimento del contesto può interferire con il processo di registrazione e di elaborazione dei ricordi. Senza il pensiero riflessivo necessario per l'immagazzinamento, il ricordo non viene integrato nella narrazione autobiografica. L'amnesia dissociativa, la fuga dissociativa, il disturbo dissociativo dell'identità e il disturbo acuto da stress (classificato tra i disturbi d'ansía, vedi capitolo 9) hanno una base psicodinamica comune. L'amnesia dissociativa implica uno o più episodi di incapacità a ricordare un importante trauma personale; la fuga dissociativa coinvolge un improvviso e inaspettato allontanamento da casa a cui si associa l'incapacità di ricordare il proprio passato e una certa confusione sulla propria identità personale. Il disturbo dissociativo dell'identità (DID), precedentemente definito come disturbo da personalità multipla, riguarda la presenza di due o più identità o stati della personalità distinti, ciascuno con le proprie modalità, relativamente stabili, di percezione, di relazione, di pensiero rispetto all'ambiente e al Sé. Almeno due di queste identità o stati della personalità devono periodicamente assumere il controllo del comportamento dell'individuo. Il DID è anche caratterizzato da una mancanza di ricordi che si riferiscono a importanti informazioni personali che è troppo estesa per potere essere interpretata come una normale forma di dimenticanza. Kluft ha proposto una teoria eziologia basata su 4 fattori: 1) la capacità di attuare una dissociazione difensiva nei confronti di un trauma deve essere presente; 2) esperienze esistenziali traumatiche travolgenti, come un abuso fisico o sessuale, superano le capacità di adattamento e le consuete operazioni difensive del bambino; 3) le forme precise assunte dalle difese dissociative nel processo di formazione dell'altra personalità vengono determinate da influenze plasmatrici e dai substrati disponibili; infine, 4) contatti rassicuranti e ristrutturanti con figure genitoriali o altre persone significative non sono possibili, per cui il bambino avverte una profonda inadeguatezza delle capacità di proteggersi dagli stimoli. Una chiara implicazione del modello eziologico dei quattro fattori è che il trauma è causa necessaria ma non sufficiente per sviluppare un DID. A rischio di asserire ciò che è ovvio, non tutti coloro che subiscono un abuso da bambini sviluppano un DID. La dissociazione, inoltre, può verificarsi anche in assenza di trauma in individui fortemente suggestionabili e portati a fantasticare (Brenneis, 1996; Target, 1998). Dunque la presenza della dissociazione non è di per sé conferma di una storia di trauma infantile precoce. Il terapeuta deve chiarire al paziente che il recupero dei ricordi traumatici non è lo scopo della psicoterapia. La disfunzione della memoria tipica dei pazienti con disturbi dissociativi in realtà li rende dei soggetti tutt'altro che ideali per una terapia che mira a recuperare i ricordi. Un obiettivo più ragionevole è quello di aiutarli a ristabilire funzioni mentali normali, in particolare per quanto riguarda la capacità di riflessione e di mentalizzazione, così che essi possano sviluppare una rappresentazione di se stessi e degli altri più coerente. Nel contesto di una forte relazione di attaccamento al terapeuta, il paziente traumatizzato può beneficiare della capacità del terapeuta di riflettere su ciò che sta accadendo fra loro. Alla fine, i pazienti possono interiorizzare i processi di riflessione del terapeuta e diventare capaci di riportare i propri aspetti dissociati alla consapevolezza, e di acquisire quindi un maggior senso di continuità. L'integrazione delle altre personalità è possibile soltanto per alcuni pazienti che soffrono di DID. Quando i pazienti affetti da DID rievocano gli abusi sessuali subiti nell'infanzia, spesso si vergognano per gli eventi che sono loro accaduti. È per esempio molto comune sentire le donne parlare di sé come "sgualdrine" o "puttane", che si meritano ciò che è loro successo. Da piccoli si attaccano frequentemente alla convinzione di avere ricevuto tale punizione perché erano bambini cattivi che si erano comportati male. Sebbene in una certa misura questo senso di vergogna e di colpa possa essere spiegato da identificazioni introiettive con i genitori "cattivi", l'autoaccusa può anche essere compresa come un disperato tentativo di dare un senso a una situazione terrificante. Se mantengono una certa capacità di mentalizzare, possono spiegare tale situazione cercando di convincersi che i genitori sono sostanzialmente brave persone che hanno a cuore il loro benessere. Se i genitori li trattano così significa che sono stati cattivi e che lo hanno meritato. Quando i clinici cercano di convincere questi pazienti che quanto è accaduto non è colpa loro, i pazienti spesso non si sentono capiti. In questo atteggiamento delle vittime di abusi può essere presente un aspetto adattivo anche se l’evento dell’incesto non può essere cancellato, un pz può arrivare alla consapevolezza che il suo unico modo per sopravvivere era quello di sottomettersi agli approcci amorosi del padre. Un'efficace psicoterapia recupera molto di quanto è stato perduto e aiuta il paziente a costruire una narrazione cronologica o un'autobiografia che fornisce le basi per la formazione di un nuovo Sé (Putnam, 1990). Quando un paziente con DID presenta diverse personalità nel setting clinico, il terapeuta deve trattarle di fatto come aspetti della stessa persona. Inoltre, deve essere pronto nel momento del passaggio da una personalità all'altra e cercare di esplorare con il paziente che cosa attiva il passaggio. La dissociazione nel contesto della terapia è di solito una fuga difensiva da qualcosa che produce dolore o ansia. Questo bisogno di fuga alla fine può essere portato alla consapevolezza del paziente. La terapia psicodinamica dei pazienti con gravi disturbi dissociativi è spesso compromessa per la loro mancanza di capacità riflessiva. Il loro pensiero può essere eccessivamente concreto, ed essi possono essere incapaci di sostenere la sensazione del "come se" tipica del transfert. In altre parole, i pazienti affetti da DID possono essere incapaci di distinguere tra una percezione del terapeuta come rappresentazione e il modo di essere del terapeuta nella realtà. Hanno piuttosto la tendenza a ritenere che le loro percezioni siano fatti assoluti invece di idee che possono essere condivise e comprese. Anche l'esperienza che hanno di sé può essere altrettanto concreta. I pazienti che da bambini hanno subito abusi spesso ritengono che tutti abuseranno di loro in quanto non hanno alcun motivo di pensare diversamente. In base a tale prospettiva, questi pazienti sono intrinsecamente diffidenti rispetto alle rassicurazioni fornite dai terapeuti, che affermano che non abuseranno mai di loro. Le rassicurazioni possono far sentire meglio i terapeuti, ma raramente fanno sentire meglio i pazienti. Le professioni di benevolenza sono intrinsecamente sospette per pazienti che sono stati sfruttati da persone che dicevano di amarli. La maggior parte dei pazienti affetti da DID non ha avuto il vantaggio di crescere con confini generazionali e limiti posti da genitori validi e amorevoli, e spesso vive i confini professionali del contesto terapeutico come una crudele forma di rifiuto. Questi pazienti possono richiedere dimostrazioni di reale interesse da parte del terapeuta che coinvolgono prolungamenti delle sedute, contatti fisici, l'aspettativa che il terapeuta riveli aspetti personali e la pretesa di una sua totale disponibilità. Se i terapeuti cominciano a fare "i salti mortali" per gratificare queste richieste, i loro sforzi sono destinati al fallimento. Il tentativo di diventare un sostituto genitoriale va oltre il bisogno che il paziente ha di esprimere il suo dolore, e fa sorgere la falsa speranza che una relazione genitoriale possa essere disponibile a patto che il paziente trovi la persona giusta. Nella maggior parte dei casi di DID il trattamento prima o poi rivela che i pazienti hanno la tacita convinzione di avere il diritto nel presente a una compensazione per gli abusi vissuti nel passato (Davies, Frawley, 1992). Con il progressivo aumento delle richieste, il terapeuta può rapidamente sviluppare la sensazione di essere tormentato. Il terzo atto del dramma si rivela in certi esempi in cui le crescenti richieste del paziente si accompagnano agli sforzi del terapeuta di gratificarle. Al culmine dell'esasperazione per il fallimento di tutti gli sforzi terapeutici, i terapeuti possono arrivare con il paziente a un drastico superamento dei confini terapeutici riproponendo di fatto l'abuso dell'infanzia. Il terapeuta è diventato allora colui che abusa del paziente che è ancora una volta nel ruolo della vittima. La più tragica - e sfortunatamente fin troppo frequente - manifestazione di questo terzo paradigma è un rapporto sessuale manifesto tra terapeuta e paziente. Altri comuni esempi comprendono un sadico abuso verbale nei confronti del paziente, tentativi di confortare il paziente facendolo sedere in grembo e di riproporsi come suoi "genitori", portare il paziente in gite con la propria famiglia e così via. In tali circostanze la rabbia del terapeuta in risposta alle frustrazioni è spesso completamente disconosciuta. Ciò che era cominciato come un tentativo di aiuto finisce come una riattualizzazione dello sfruttamento e dell'abuso. Molti pazienti affetti da DID soffrono di una sorta di impotenza appresa per cui ritengono di non poter fare nulla per cambiare il loro destino. Danno per scontato che, una volta presi in trappola, non ci siano vie di uscita. Non possiedono un senso di operatività e di efficacia a cui ricorrere. In questo senso i pazienti sono, secondo la definizione di Kluft (1990), delle "anatre appollaiate" nei confronti di ogni forma di abuso e di violazione dei limiti da parte di terapeuti che usano i loro pazienti per gratificare i propri bisogni. I pazienti con un DID che vengono ricoverati nei reparti di psichiatria generale spesso si trovano nel ruolo del classico paziente "speciale" (Burnham, 1966; Gabbard, 1986). Sia i membri dello staff che gli altri pazienti ritengono che essi abbiano delle relazioni privilegiate con il loro psicoterapeuta e spesso il risultato è che finiscono per diventare dei capri espiatori. All'inizio della permanenza in ospedale con il paziente deve essere stipulato un accordo contrattuale che sancisca il suo consenso a rispondere secondo il nome anagrafico quando viene chiamato nel reparto. Il paziente dovrebbe essere informato che non può pretendere che lo staff sia in grado di rispondere alle altre diverse personalità con modalità diverse man mano che esse emergono durante la sua permanenza in reparto. Soltanto il terapeuta individuale chiamerà per nome le altre personalità separate. Un paziente che non sia in grado di fare un contratto a nome di tutte le altre personalità deve essere strutturato al livello della personalità più pericolosa e più autodistruttiva. Questo accordo evita l'ineluttabile confusione tra i membri dello staff sui privilegi e le responsabilità data la variabilità di funzionamento delle diverse altre personalità. Kluft (1991d) ha anche suggerito che lo staff infermieristico dovrebbe costantemente spiegare le regole e le linee di condotta ai pazienti poiché alcune personalità potrebbero non conoscerle. Kluft (1991d) ha avvertito che i pazienti con un DID possono avere una notevole difficoltà con la psicoterapia di gruppo non strutturata nei reparti ospedalieri. Se un paziente non è in grado di stabilire un contratto che gli consenta di partecipare come un'altra personalità che si adegui alle regole del gruppo, secondo Kluft dovrebbe essere escluso dal lavoro di gruppo. 282-301 Il disturbo da depersonalizzazione differisce in modo significativo dagli altri disturbi dissociativi. È di solito caratterizzato da esperienze persistenti o ricorrenti in cui si realizza una sensazione di distacco dal proprio corpo o dai propri processi mentali, come se questi venissero osservati dall'esterno. L'esame di realtà rimane integro, ma tali esperienze sono causa di un disagio significativo e interferiscono in una certa misura con il funzionamento lavorativo e sociale. La derealizzazione in genere fa parte del disturbo di depersonalizzazione e si riferisce specificamente alla sensazione di sentirsi estraniato dal proprio ambiente. La depersonalizzazione può presentarsi sotto diverse forme, inclusa la sensazione che il proprio corpo sia intorpidito oppure privo di vita, la sensazione che certe parti del corpo (come i piedi o le mani) non siano collegate al resto del corpo, la sensazione di essere distaccato dalla propria immagine di sé al punto da vedersi estraneo, o la sensazione di osservarsi a distanza (Gabbard, Twemlow, 1984). L'esperienza soggettiva di reale distacco dal proprio corpo è in realtà piuttosto infrequente nella depersonalizzazione, riscontrandosi soltanto nel 19 per cento dei pazienti psichiatrici con questo disturbo (Noyes et al., 1977). Sebbene le esperienze di déjà vu siano spesso associate con la depersonalizzazione, esse sono di fatto il contrario della depersonalizzazione e dovrebbero essere mantenute come entità separate (Nemiah, 1989). In altre parole, nel déjà vu ciò che è nuovo è vissuto come se fosse familiare, mentre nella depersonalizzazione ciò che è familiare è vissuto come se fosse nuovo o irreale. si manifesta nelle donne con una frequenza doppia rispetto agli uomini e la sua maggiore diffusione tra gli individui al di sotto dei quarant'anni (Nemiah, 1989). Una depersonalizzazione transitoria può anche verificarsi in risposta a situazioni che comportano un pericolo di morte, come incidenti, malattie gravi e simili (Gabbarti, Twemlow, 1984; Noyes et al., 1977; Steinberg, 1991). Vi può essere un significato di sopravvivenza nella scissione che si crea tra un Sé che osserva e un Sé che è coinvolto in una situazione di crisi, così che un individuo è in grado di acquisire il necessario distacco per pensare a come destreggiarsi per togliersi da un contesto pericoloso. La depersonalizzazione che si manifesta nelle persone normali esposte a pericoli non presenta differenze sostanziali rispetto agli episodi che si verificano nel contesto di un disturbo psichiatrico (Noyes et al., 1977). Tra i pazienti psichiatrici, la depersonalizzazione è il terzo disturbo lamentato più frequentemente, dopo depressione e ansia (Cattell, Cattell, 1974). La depersonalizzazione è in effetti relativamente poco comune come disturbo puro, e rappresenta più spesso un sintomo legato a un'altra malattia come la schizofrenia, il disturbo dissociativo dell'identità, la depressione o i disturbi d'ansia (Nemiah, 1989). L'esperienza di depersonalizzazione associata o meno a una malattia, è tipicamente spiacevole e attiva contenuti affettivi come ansia, panico, senso di vuoto. È vissuta come una malattia, una stranezza, un'esperienza simile a un. sogno e spesso porta alla ricerca dell'assistenza di un medico (Gabbarti, Twemlow, 1984). La depersonalizzazione ha un andamento cronico in circa metà dei casi, ma il grado di limitazione che crea nell'individuo può essere molto variabile (Steinberg, 1991). La comorbidità sembra essere frequente nei pazienti con un disturbo di , depersonalizzazione. In uno studio su 30 pazienti, la prevalenza nel corso della vita di depressione maggiore e fobia sociale era del 53 per cento per ciascun disturbo (Simeon et al., 1997). Fu rilevata anche una prevalenza del 37 per cento per il disturbo da attacchi di panico. Erano inoltre comuni in questi pazienti disturbi dell'asse 2: un disturbo evitante di personalità era presente nel 30 per cento dei casi, un disturbo borderline di personalità nel 27 per cento e un disturbo ossessivo-compulsivo di personalità nel 23 per cento. Nel complesso, il 60 per cento dei soggetti studiati avevi almeno un disturbo di personalità. Rosenfeld (1947) considerava la depersonalizzazione conte una difesa contro impulsi distruttivi primitivi e angosce persecutorie originate dalla posizione schizoparanoide. Blank (1954) la vedeva come una difesa nei confronti dell'ansia primitiva generata da rabbia e deprivazione- orali. Infine, Stamm (1962) era d'accordo con entrambi nel considerare gli aspetti profondamente regressivi della depersonalizzazione come difesa. Il punto di vista psicodinamico più attuale è quello di considerare la depersonalizzazione come l'interiorizzazione di identificazioni conflittuali, Jacobson (1959) osservava che è possibile difendersi da identificazioni inaccettabili attraverso il disconoscimento e la negazione di una parte indesiderabile dell'Io. Arlow (1966) considerava la depersonalizzazione come un mezzo difensivo per controllare gli impulsi del Sé coinvolto in una situazione di pericolo, che viene vissuto a quel punto come estraneo dal Sé osservante. In questo modo il conflitto pericoloso viene visto come un processo che si svolge all'interno di un estraneo invece che all'interno del Sé. Il ruolo del trauma nella eziologia del disturbo di depersonalizzazione non è del tutto chiaro. La letteratura suggerisce che i pazienti affetti da questo disturbo presentano un'anamnesi di traumi infantili con una frequenza tendenzialmente maggiore rispetto a soggetti di controllo che non soffrono di disturbi psichiatrici (Simeon et al., 1997), ma sono in genere meno gravemente traumatizzati rispetto a pazienti con altri tipi di disturbi dissociativi. Ciò nonostante, una depersonalizzazione è frequentemente descritta quando pazienti che hanno subìto abusi sessuali nell'infanzia ricordano i dettagli della loro vittimizzazione. Non sempre la depersonalizzazione è una difesa nei confronti di un pericolo esterno o di una spinta pulsionale interna. Secondo una prospettiva derivata dalla psicologia del Sé, la depersonalizzazione può anche essere un riflesso di disturbi nel consolidamento di un senso di sé coeso e stabile (Gabbard, 1983; Stolorow, 1979). In questi pazienti lo stato di depersonalizzazione può riflettere il senso di panico legato alla frammentazione del Sé quando dagli altri non giungono risposte di conferma e di rispecchiamento degli oggetti-Sé. Se la depersonalizzazione è secondaria a un disturbo primario sottostante, il miglioramento clinico del disturbo primario in risposta a una terapia adeguata può anche risolvere la depersonalizzazione. 302-5
Psicopatologia - Gabbard

Inviato:
30/11/2014, 15:07
da Royalsapphire
Parafilie
La definizione delle parafilie del DSM-IV (American Psychiatric Association, 1994), nel tentativo di essere non giudicante, ha suggerito la restrizione del termine alle situazioni in cui vengono utilizzati oggetti non umani, vengono inflitti a sé o al proprio partner un effettivo dolore o umiliazione, o vengono coinvolti bambini o adulti non consenzienti. Per considerare il continuum tra fantasia e azione, il DSM-4 ha elaborato uno spettro di gravità. Nelle forme "lievi", i pazienti sono turbati dalle loro spinte sessuali parafiliache, ma non le mettono in atto. Nelle condizioni di gravità "moderata", i pazienti traducono la spinta in azione, ma solo occasionalmente. Nei casi "gravi", i pazienti mettono ripetutamente in atto le loro spinte parafiliache. Infine, cercando di renderlo più scientifico e meno peggiorativo, nel DSM-IV viene utilizzato il termine parafilia piuttosto che perversione o deviazione. 312 I pazienti con parafilie sono notoriamente difficili da trattare. Nel corso di molti anni hanno sviluppato una ben congegnata soluzione erotica ai loro problemi, e sono raramente interessati a rinunciarvi (MeDougall, 1986). Perché una persona dovrebbe voler interrompere una pratica che produce grande piacere? Molte delle perversioni sono egosintoniche; solo eccezionalmente pazienti che sono disturbati dai loro sintomi ricercano volontariamente un trattamento. Le persone che hanno dei feticci considerano generalmente il loro feticismo come nulla più di una idiosincrasia personale, certamente non come un sintomo psichiatrico (Greenacre, 1979). In genere cercano il trattamento per altre ragioni, e il feticismo emerge nel corso della terapia o dell'analisi. La maggior parte dei pazienti parafiliaci viene in terapia in seguito a pressioni esercitate da altri. Una crisi coniugale può portare un travestito all'attenzione clinica sotto la minaccia di divorzio. In casi di voyeurismo, esibizionismo e soprattutto pedofilia, provvedimenti legali spesso impongono la terapia come indispensabile per ottenere la libertà condizionata quale alternativa al carcere. Vi può essere una causa giudiziaria pendente, e il paziente può quindi sottoporsi al trattamento solo per "sembrare buono" in tribunale e spingere il giudice a proscioglierlo da ogni accusa. In tutti i casi di parafilia, per prima cosa va chiarita la situazione legale del paziente. Il clinico può decidere di differire un'eventuale terapia a lungo termine fino a dopo che il caso sia stato discusso in tribunale. I pazienti che cercano ancora un trattamento dopo che tutte le questioni legali sono state risolte possono avere una prognosi più favorevole (Reid,1989). Siamo pieni di disgusto, di ansia e di disprezzo. Il nostro impulso naturale è di rispondere in maniera punitiva - di moralizzare, di rimproverare, di fare la predica, di fare quanto possiamo per "soffocare" questa perversione. Siamo anche pieni d'orrore all'idea che qualcuno possa dare libero sfogo a tali impulsi mentre noi stessi li controlliamo attentamente. Infine, un'altra tendenza controtransferale è quella di colludere con 1'evitamento messo in atto dal paziente rispetto alla perversione parlando di altri aspetti della sua vita. I clinici possono evitare i loro propri sentimenti di disgusto e di disprezzo evitando l'intera area della patologia sessuale. Con certi pazienti - pedofili, in particolare - alcuni terapeuti possono sentire semplicemente di non riuscire a essere efficaci a causa di un intenso odio controtransferale. In questi casi, è meglio indirizzare il paziente altrove. Un'ultima ragione di difficoltà nel trattamento di soggetti che soffrono di perversioni è la psicopatologia associata. Le fantasie e il comportamento perversi sono già abbastanza difficili da modificare, ma quando la condizione del paziente è complicata da una patologia del carattere antisociale, borderline o narcisistica, la prognosi diventa ancora più sfavorevole. Se la terapia delle parafilie, e in particolare di quelle che coinvolgono pedofilia e altre forme di violenza criminale, sia realmente efficace rimane una questione molto controversa. Dato che, per esempio, un'osservazione giorno e notte dei pedofili non è possibile, i ricercatori non possono sapere con certezza se essi continuano o meno ad agire gli impulsi a molestare i bambini. Associati all'uso degli approcci psicodinamici, vengono comunemente impiegati anche la terapia cognitivo-comportamentale, il ricondizionamento comportamentale e la prevenzione delle ricadute, tecniche che si sono dimostrate utili con certi pazienti. Gli obiettivi della terapia di solito comprendono il fatto di aiutare i pazienti a superare la loro negazione e a sviluppare una certa empatia per le loro vittime; l'identificazione e il trattamento dell'eccitazione sessuale deviante; l'identificazione di deficit sociali e di inadeguate capacità di adattamento; la modifica di distorsioni cognitive; infine, lo sviluppo di un completo piano di prevenzione delle recidive che includa 1'evitamento delle situazioni in cui il paziente può essere "indotto in tentazione". In generale, i pazienti con organizzazioni del carattere di più alto livello hanno un esito migliore di quelli con livelli di organizzazione borderline (Persoti, 1986). In maniera simile, è probabile che i pazienti che possiedono una mentalità psicologica, che hanno un qualche grado di motivazione, che provano un certo disagio per i loro sintomi e sono curiosi riguardo alle origini di tali sintomi traggano maggiori vantaggi rispetto a coloro che non presentano queste caratteristiche. Questi pazienti raramente desiderano focalizzarsi sulla perversione e spesso asseriscono vivacemente che per loro essa non è più un problema. Sebbene gli psicoterapeuti debbano trattare i disturbi associati alla parafilia, devono anche mettere a confronto i pazienti con tale diniego fin dall'inizio. Un compito della terapia é quello di integrare il comportamento perverso con il nucleo centrale del funzionamento della personalità del paziente così che possa essere armonizzato con il resto della sua vita. Goldberg (1995) suggerisce che il terapeuta deve riconoscere che il comportamento perverso è essenziale per la sopravvivenza emotiva del paziente ma anche considerare tale comportamento come qualcosa che deve essere compreso e ridimensionato. Anche al di là di considerazioni legali ed etiche, il comportamento perverso facilmente evoca nei terapeuti risposte di forte disapprovazione. I pazienti possono anche evitare di discutere il sintomo professando invece sentimenti di vergogna, imbarazzo e umiliazione. Se il paziente riesce a superare la sua iniziale resistenza a formare un'alleanza terapeutica al servizio della comprensione del sintomo perverso, allora sia paziente che terapeuta potranno iniziare a cercare i significati inconsci del sintomo e la sua funzione all'interno della personalità del paziente. La maggior parte delle parafilie opera in un contesto di relazione oggettuale al di fuori della consapevolezza del paziente. Molti individui con parafilia esperiscono le loro fantasie e il loro comportamento come essenzialmente non psicologici, e sono inconsapevoli di qualunque connessione tra il loro sintomo e stati emotivi, o tra il sintomo ed eventi della loro vita che possono accrescere il bisogno del sintomo. Molti degli sforzi del terapeuta devono pertanto rivolgersi alla spiegazione di queste connessioni. La terapia della coppia può essere cruciale per il successo del trattamento delle parafilie. Una crisi coniugale può innanzi tutto indurre il paziente a cercare assistenza, e una terapia della coppia può spesso aiutarlo a comprendere come l'attività perversa rifletta difficoltà sessuali ed emotive nella diade coniugale. Può anche alleviare nella moglie gli infondati sentimenti di colpa e di responsabilità per il comportamento del marito e può far sì che la donna senta di partecipare alla sua risoluzione piuttosto che essere responsabile della sua causa (Kentsmith, Eaton, 1978). L'esplorazione di un disaccordo coniugale può anche rivelare che la parafilia è un contenitore o un "capro espiatorio" che sposta l'attenzione da una o più aree problematiche nel matrimonio (Reid, 1989). I clinici devono pertanto essere creativi nell'utilizzare la moglie del paziente come un terapeuta aggiuntivo nei casi refrattari di parafilia. I pazienti parafiliaci che con maggiore facilità vengono ricoverati sono i pedofili e, in misura minore, gli esibizionisti, che sono semplicemente incapaci di controllare il loro comportamento se trattati a livello ambulatoriale. Molti dei problemi controtransferali descritti in precedenza sorgono anche nel trattamento ospedaliero. Il diniego del paziente rispetto alla sua perversione può portare lo staff ospedaliero a colludere con lui, focalizzandosi su altri problemi. In generale, i pazienti con parafilie sono contrari a discutere i loro problemi nelle riunioni di gruppo o nelle riunioni di comunità di un reparto ospedaliero. Tuttavia, quando i componenti dello staff accondiscendono alla richiesta di evitare le tematiche sessuali nelle riunioni di terapia, di fatto colludono con la tendenza del paziente ad attraversare l'intero periodo di degenza senza affrontare la perversione che ha portato al ricovero. Inoltre, quelli con conclamati tratti di personalità antisociali possono molto semplicemente mentire, di modo che il loro comportamento perverso non viene mai preso in esame durante il ricovero. Altri pedofili possono convincere i membri dello staff del fatto che stanno effettivamente seguendo il trattamento, costruendo tutta la sceneggiata che il caso comporta. Sembrano usare gli insight che raggiungono in psicoterapia rispetto all'origine dei loro impulsi e desideri ma segretamente non hanno alcun interesse a cambiare. "Stanno al gioco" perché il trattamento ospedaliero è di gran lunga preferibile al carcere, dove i pedofili vengono spesso violentati. Alcuni pedofili possono pertanto essere curati assai meglio in strutture di correzione in cui vengono applicati programmi specializzati per gli aggressori sessuali che comportano approcci di confronto nell'ambito di un gruppo. La comprensione psicodinamica del pz maschio o femmina che non ha alcun desiderio per il sesso, o del pz maschio che prova desiderio ma non è in grado di ottenere un'erezione, inizia con un'attenta comprensione del contesto situazionale del sintomo. Se il paziente è coinvolto in una relazione intima, il clinico deve determinare se il problema di desiderio o di eccitamento si manifesta specificamente con il partner oppure se è generalizzato a tutti i potenziali partner sessuali. Difficoltà sessuali che sono specifiche della coppia devono essere lette nel contesto delle dinamiche interpersonali della diade, mentre quelle che si manifestano con ogni partner riflettono essenzialmente problemi intrapsichici. I clinici devono ricordare, tuttavia, che i problemi del desiderio, come tutti gli altri sintomi psicologici, sono sovradeterminati. Lo studio a livello nazionale citato in precedenza (Laumann et al., 1999) ha rilevato che la presenza di relazioni problematiche, sia nel presente che nel passato, è fortemente associata a disfunzioni sessuali. Tutti i tipi di disfunzione sessuale riportati dalle donne coinvolte in questa indagine mostravano infatti una stretta associazione con infelicità e scarsa soddisfazione fisica. ed emotiva. I problemi nel raggiungere uno stato di eccitazione sessuale erano correlati in maniera significativa a vittimizzazioni sessuali dovute a contatti adulto-bambino o a rapporti sessuali forzati. I maschi che erano stati vittime di contatti adulto-bambino presentavano invece una probabilità di essere affetti da una disfunzione dell'erezione tre volte maggiore rispetto a coloro che non avevano subito abusi, e una probabilità doppia di soffrire di eiaculazione precoce e scarso desiderio sessuale rispetto a soggetti di controllo che non avevano una storia di traumi infantili. Laumann e collaboratori hanno sottolineato che in entrambi i sessi atti sessuali traumatici sembravano dare luogo a effetti duraturi e profondi sul funzionamento sessuale. Levine (1988) ha delineato tre diversi elementi del desiderio sessuale che devono funzionare in sincronia affinché vi siano un adeguato desiderio ed eccitamento: pulsione, desiderio e motivazione. La pulsione affonda le sue radici nel biologico e può essere condizionata da fattori fisici, come livelli ormonali, malattie e farmaci. L'elemento di desiderio è più intimamente associato a fattori consci cognitivi o ideativi. Ad esempio, in presenza di una normale componente pulsionale, un individuo può desiderare di non avere un rapporto sessuale per proibizioni religiose o per paura di contrarre l'AIDS. Il terzo elemento, la motivazione, è intimamente collegata a inconsci bisogni di relazione d'oggetto ed è la componente che più facilmente sarà il focus dell'intervento terapeutico. Secondo Levine il clinico deve valutare tutti e tre gli elementi, e cercare di comprendere come mai questi non siano integrati in un'unità funzionale. Numerosi fattori possono interferire con la motivazione di un individuo. Uno dei coniugi può avere una relazione extraconiugale e semplicemente non provare alcun interesse per il partner. Oppure un coniuge può sentirsi così cronicamente risentito e arrabbiato nei confronti dell'altro che i rapporti sessuali sono fuori discussione. I problemi della coppia senza rapporti sessuali sono probabilmente la causa della maggior parte dei casi di inibizione del desiderio sessuale. Anche le distorsioni transferali di un partner possono giocare un ruolo chiave nel disturbare la motivazione. In molte coppie che intraprendono una terapia sessuale o coniugale, i partner si rapportano inconsciamente all'altro come se fosse il genitore del sesso opposto. Quando ciò si verifica i rapporti sessuali possono essere inconsciamente sentiti come incestuosi, e i membri della coppia cercano quindi di padroneggiare l'ansia associata a questo tabù evitando del tutto il sesso. 311-34 Disturbi da sostanze e disturbi dell’alimentazione L'approccio degli AA al problema dell'alcolismo si è rivelato estremamente efficace nel trattamento di molti individui. Sebbene l'organizzazione promuova il modello della malattia, i suoi metodi sono rivolti a bisogni psicologici e facilitano un duraturo cambiamento strutturale della personalità (Mack, 1981). L'astinenza viene raggiunta in un contesto ínterpersonale nel quale gli alcolisti possono esperire una comunità di compagni di sofferenza che si preoccupa e si prende cura di loro. L'esperienza clinica ha tuttavia ripetutamente dimostrato che l'approccio degli AA non è adatto per tutti i pazienti che soffrono di alcolismo. La maggior parte degli esperti sarebbe d'accordo nel ritenere l'alcolismo un disturbo eterogeneo con un'eziologia multifattoriale (Donovan, 1986). Nessun tipo di terapia si rivela costantemente più efficace di tutti gli altri. L'alcolismo non è un'entità monolitica. In effetti, sarebbe più appropriato parlare di "alcolismi" (Donovan, 1986). Numerosi studi attestano che non esiste una singola "personalità alcolista" che predispone all'alcolismo i pazienti alcolisti hanno problemi relativi all'autostima, alla modulazione dell'affetto e alla capacità di prendersi cura di se stessi. Studiosi del disturbo borderline di personalità hanno notato che tra alcolisti e pazienti con disturbo borderline di personalità esistono similarità in particolare, essi condividono tratti come scarsa tolleranza dell'ansia, scarso controllò affettivo e uso della scissione come difesa predominante (vedi cap. l5). Questo legame tra alcolismo e disturbo borderline di personalità è stato ulteriormente confermato da studi empirici (Nace et al., 1983; Vaglum, Vaglum, 1985) che indicano come il 39 per cento degli alcolisti abbia una coesistente patologia borderline. Un'analisi di dodici studi su pazienti alcolisti, condotti con lo scopo specifico di verificare l'eventuale presenza di disturbi di personalità, ha rilevato che la prevalenza di comorbilità per condizioni dell'asse 2 oscillava fra il 14 e il 78 per cento (Gorton, Akhtar, 1994). Altre diagnosi che comunemente accompagnano l'alcolismo sono quelle di depressione (Weissman, Myers, 1980) e sociopatia (Schuckit et al., 1970). Un individuo può sviluppare l'alcolismo come punto d'arrivo di una complessa interazione tra carenze strutturali, predisposizione genetica, influenze familiari, contributi culturali e altre diverse variabili ambientali. Quando queste persone smettono di bere e guardano indietro allo sfacelo causato dalla loro esistenza di alcolisti, si trovano in genere ad affrontare un certo grado di depressione, che nasce dal riconoscimento doloroso di aver fatto del male ad altri (spesso coloro che rappresentavano per loro le figure più importanti). Devono anche elaborare il lutto per tutto ciò (ad esempio, relazioni, beni) che hanno perduto o distrutto a causa del loro comportamento di dipendenza. Sebbene farmaci antidepressivi possano alleviare tale depressione, la psicoterapia può fornire un aiuto nel processo di elaborazione di questi aspetti dolorosi. Anche la valutazione e la terapia del rischio suicidario devono far parte del piano terapeutico complessivo dei pazienti alcolisti. Il 25 per cento di tutti i suicidi avviene tra alcolisti e la probabilità che un alcolista si suicidi è da 60 a 120 volte più elevata rispetto a quella di un individuo non affetto da disturbi psichiatrici (Murphy Wetzel, 1990). Quando depressione e alcolismo coesistono, sembrano avere effetti additivi o sinergici che si traducono in livelli di rischio suicidario sproporzionatamente elevati (Cornelius et al., 1995; Pages et al., 1997). Un'altra implicazione dell'osservazione che la dipendenza da alcol avviene in una persona è che ogni soggetto preferirà e accetterà opzioni diverse di trattamento. Per molti alcolisti l’approccio utilizzato dagli AA non funziona a causa del loro imbarazzo all’idea di dover parlare di fronte a un gruppo. 345-48 Un considerevole numero di ricerche sostiene l’esistenza di un’associazione tra disturbo di personalità, depressione e sviluppo di una tossicodipendenza. Studi su soggetti dipendenti da sostanze stupefacenti hanno rilevato altre diagnosi psichiatriche in una percentuale compresa tra 1'80 e il 93 per cento (Khantzian, Treece, 1985; Rounsaville et al., 1982). La frequenza di comorbilità è elevata anche tra gli individui che fanno uso di cocaina. Altre indagini condotte su studenti liceali che facevano uso di droghe pesanti identificò la depressione come il più forte fattore predittivo tra tutte le variabili di personalità In confronto agli alcolisti, i tossicodipendenti presentano assai più facilmente coesistenti e significativi disturbi psichiatrici. Uno studio ha riscontrato che relazioni deteriorate con i genitori e depressione sono fattori predittivi altamente significativi per l'eventuale abuso di droghe illecite disturbi d'ansia, disturbo antisociale di personalità e disturbo da deficit di attenzione di solito precedono l'inizio dell'abuso di cocaina, mentre disturbi affettivi e alcolismo in genere si manifestano dopo l'esordio dell'abuso (Rounsaville et al., 1991). I ricercatori hanno sottolineato che un approccio unitario alla terapia dei tossicodipendenti non è adeguato perché coloro che presentano un disturbo di personalità richiedono approcci terapeutici diversi. I tossicodipendenti con disturbi di personalità sono tendenzialmente più depressi, più impulsivi, più isolati e in generale meno soddisfatti della loro vita rispetto ai tossicodipendenti che non presentano tali disturbi. I ricercatori psicoanalitici contemporanei vedono il comportamento tossicomane più come un riflesso della carenza della capacità di prendersi cura di sé che come un impulso autodistruttivo (Khantzian, 1997). Questa ridotta capacità di prendersi cura di sé è il risultato di precoci disturbi nello sviluppo che portano a un'inadeguata interiorizzazione delle figure genitoriali, lasciando il tossicodipendente incapace di autoproteggersi. Pertanto, la maggior parte dei tossicodipendenti. cronici mostra un fondamentale difetto di giudizio riguardo ai rischi che l'abuso di sostanze comporta. Ugualmente importante nella patogenesi della tossicodipendenza è l'insufficienza delle funzioni deputate alla regolazione degli affetti, al controllo degli impulsi e al mantenimento dell'autostima (Trecce, Khantzian, 1986). Questi deficit creano dei problemi corrispondenti nelle relazioni d'oggetto. L'uso di molteplici droghe pesanti é stato messo in rapporto diretto con l'incapacità del tossicodipendente di tollerare e regolare la vicinanza interpersonale (Nicholson, Trecce, 1981; Trecce, 1984). A questi problemi relazionali contribuiscono inoltre una vulnerabilità narcisistica inerente ai rischi interpersonali e l'incapacità di modulare gli affetti associati all'intimità. Dodes (1990) notava che i tossicodipendenti hanno la tendenza a sentirsi impotenti a causa di una specifica fragilità narcisistica. Il comportamento tossicodipendente riduce il senso di impotenza e di disperazione attraverso il controllo e la regolazione dei loro stati affettivi. La rabbia narcisistica e l'umiliazione impongono a queste persone di usare le droghe come strumento in grado di ristabilire una sensazione di potere. L'assunzione di una droga può pertanto essere vista come un tentativo disperato di compensare le carenze a livello di funzionamento dell'Io, autostima e problemi interpersonali correlati. specifiche sostanze vengono scelte per specifici effetti psicologici e farmacologici, a seconda dei bisogni di ciascun tossicodipendente. la cocaina sembra attenuare lo stress legato a depressione, iperattività e ipomania, mentre i narcotici sembrano ridurre i sentimenti di rabbia. la dipendenza da eroina è plurideterminata da: 1) un bisogno di contenere l'aggressività, 2) una brama di gratificazione del desiderio di una relazione simbiotica con una figura materna, 3) un desiderio di alleviare affetti depressivi. Questi individui combattono con sentimenti di inutilità, colpa, autocritica e vergogna. La loro depressione sembra intensificarsi quando cercano di avvicinarsi agli altri, così che essi si ritirano in una "beatitudine" isolata raggiunta attraverso l'eroina o altre sostanze stupefacenti che ha dimensioni sia regressive che difensive. Il nucleo depressivo dei tossicodipendenti da oppiacei è stato ulteriormente confermato da uno studio di confronto (Blatt et al., 1984a, b), che ha rilevato come i dipendenti da oppiacei siano in genere significativamente più depressi dei politossicomani, e ha identificato l'autocritica come maggiore componente di tale depressione. 349-57 L'anoressia nervosa e la bulimia nervosa sembrano essere i disturbi della nostra epoca. I mezzi di comunicazione di massa bombardano il pubblico con immagini di donne snelle che "hanno tutto". In molti paesi occidentali vi è cibo in abbondanza, precondizione necessaria per un comportamento caratterizzato da "abbuffate" alimentari. Gli individui affetti da questi disturbi tendono a essere di razza caucasica, istruiti, di sesso femminile, economicamente avvantaggiati e radicati nella cultura occidentale (Johnson et al., 1989). L'anoressia nervosa è praticamente sconosciuta nelle nazioni nelle quali la magrezza non viene considerata una virtù (Powers, 1984). Le immagini delle donne fornite dai mass media, inoltre, suggeriscono che l'apparenza esterna è assai più importante dell'identità interna. Anche se i fattori intrapsichici e biologici non dovrebbero essere minimizzati nell'eziologia e nella patogenesi dei disturbi dell'alimentazione, tali fattori chiaramente interagiscono con un particolare periodo socioculturale della civiltà occidentale nel produrre una sindrome che ne riflette la cultura. L'incidenza dell'anoressia nervosa e pressoché raddoppiata dagli anni 60, mentre la prevalenza della bulimia nervosa riscontrata tra ragazze adolescenti e giovani adulte si aggira attorno all'1 per cento (Fairburn, Beglin, 1990). Questi dati inquietanti indicano che i disturbi dell'alimentazione possono essere una soluzione sempre più comune per una varietà di fattori stressanti intrapsichici, familiari e ambientali. 357 Ciò che sul piano diagnostico caratterizza l'anoressia nervosa è in realtà una ricerca fanatica della magrezza correlata a un'opprimente paura di ingrassare. Per porre la diagnosi viene spesso usato il criterio arbitrario di una riduzione del peso corporeo al di sotto dell'85 per cento del normale valore minimo rispetto a età e altezza. L'amenorrea è un tratto preminente dell'anoressia nervosa nelle donne. Sebbene il 5-10 per cento degli individui affetti da questo disturbo sia di sesso maschile, le loro caratteristiche cliniche e psicodinamiche sono assai simili a quelle delle loro controparti femminili. La Bruch ha osservato che la preoccupazione I riguardo al cibo e al peso è una manifestazione, relativamente tardiva, emblematica di un disturbo più profondo del concetto di sé. Nella maggior parte dei casi i pazienti con anoressia nervosa hanno la ferma convinzione di essere completamente impotenti e inefficaci. La malattia spesso si manifesta in "brave bambine" che hanno passato tutta la loro vita cercando di compiacere i genitori, e diventano improvvisamente testarde e negativiste durante l'adolescenza. Il corpo viene spesso esperito come separato dal Sé, come se appartenesse ai genitori. Queste pazienti mancano di qualunque senso di autonomia, al punto da non sentirsi nemmeno capaci di tenere sotto controllo le loro funzioni corporee. La postura difensiva premorbosa dell'essere una bambina perfetta di solito nasconde un profondo senso di inutilità. L'anoressia nervosa si produce, detto con le stesse parole della Bruch (1987), come "tentativo di cura di sé, per sviluppare attraverso la disciplina del corpo un senso di individualità e di efficacia interpersonale. Le anoressiche trasformano la loro ansia e i loro problemi psicologici attraverso la manipolazione della quantità e della dimensione del cibo assunto". La Bruch ha indicato le origini evolutive dell'anoressia nervosa in una relazione disturbata tra l'infante e la madre. Specificamente, la madre sembra prendersi cura della figlia in funzione dei propri bisogni piuttosto che di quelli della bambina. Se i suoi segnali non ricevono risposte di conferma e di convalida, la bambina non può sviluppare un sano senso di sé. Si sente come un'estensione della madre, invece che come un'entità autonoma a sé stante. Il bambino non viene percepito come individuo separato, ma piuttosto come il "braccio destro" della madre. Minuchin e collaboratori hanno descritto uno schema di invischiamento nelle famiglie dei pazienti anoressici, caratterizzato da una generale assenza di confini generazionali e personali. Ciascun membro della famiglia è ipercoinvolto nella vita di tutti gli altri, al punto che nessuno esperisce un senso di identità separata al di là della matrice familiare. Anche la Selvini Palazzoli (1963) ha notato che le pazienti con anoressia nervosa non sono state in grado di separarsi psicologicamente dalla madre, col risultato di non aver mai acquisito uno stabile senso del proprio corpo. Il corpo viene pertanto percepito come se fosse abitato da un cattivo introietto materno, e il digiuno può essere un tentativo di fermare la crescita di questo oggetto interno ostile e intrusivo. Analogamente, Williams (1997) ha sottolineato che i genitori di una paziente anoressica tendono,a proiettare la loro ansia nella figlia invece di contenerla. Queste proiezioni possono essere vissute dalla bambina come corpi estranei nemici. Per proteggersi dalle esperienze non metabolizzate e dalle fantasie proiettate dai genitori, la giovane ragazza può sviluppare un sistema di difese da "vietato entrare", che si concretezza nel rifiuto del cibo. Boris ha concettualizzato l'anoressia nervosa come un'íncapacità di ricevere cose buone dagli altri a causa di un illimitato desiderio di possesso. Qualunque atto di ricevere cibo o amore mette queste pazienti direttamente a confronto col fatto che non possono possedere ciò che desiderano. La loro soluzione è di non ricevere niente da nessuno. L'invidia e l'avidità sono spesso strettamente legate nell'inconscio. La paziente invidia le cose buone possedute dalla madre - amore, compassione, nutrimento ma riceverle accrescerebbe semplicemente l'invidia. Rinunciare a esse sostiene la fantasia inconscia di rovinare ciò che è invidiato, in maniera non dissimile da quanto, nella favola di Esopo, fa la volpe con l'uva. La paziente trasmette il seguente messaggio: "Non vi è niente di buono che io possa possedere, per cui rinuncerò semplicemente a tutti i miei desideri". Tale rinuncia rende la paziente anoressica l'oggetto di desideri altrui e, nella sua fantasia, l'oggetto della loro invidia e ammirazione, perché sono "colpiti" dal suo autocontrollo. La maggior parte delle formulazioni evolutive sull'origine dell'anoressia nervosa è focalizzata sulla diade madre-figlia. Bemporad e Ratey (1985), tuttavia, hanno osservato uno schema caratteristico di coinvolgimento paterno con le figlie anoressiche. Il padre tipico era superficialmente interessato e supportivo ma abbandonava emotivamente la figlia ogni volta che aveva realmente bisogno di lui. Inoltre, molti padri di pazienti anoressiche cercano nutrimento emotivo nelle figlie - anziché darlo. Entrambi i genitori spesso provano una grande delusione rispetto al loro matrimonio, il che li porta a cercare sostegno emotivo nella figlia. La bambina anoressica dubita seriamente che i genitori o altre figure significative della sua vita possano mettere da parte, anche solo temporaneamente, i loro interessi e bisogni per soddisfare le sue esigenze di rassicurazione, conferma e rispecchiamento (Bachar et al., 1999). Può quindi incrementare progressivamente il digiuno e le restrizioni nel disperato tentativo di obbligare i genitori a prestare attenzione alla sua sofferenza e a riconoscere il suo bisogno di aiuto. Questi fattori psicodinamici sono anche accompagnati da alcuni tratti cognitivi caratteristici, tra i quali un'errata percezione della propria immagine corporea, pensiero tutto-o-nulla, pensiero magico, e pensieri e rituali ossessivo-compulsivi. I clinici che hanno in trattamento pazienti con anoressia nervosa sono d'accordo nel ritenere che gli obiettivi terapeutici non debbano essere focalizzati strettamente sull'aumento di peso (Boris, 1984a, b; Bruch, 1973, 1978, 1982, 1987; Chessíck, 1985; Dare, 1995; Hsu, 1986; Hughes, 1997; Powers, 1984). Un approccio "a due vie", sostenuto da Garner e collaboratori (1986), prevede un primo passo di ripresa dell'alímentazione per acquistare peso. Una volta raggiunto questo obiettivo, può iniziare il secondo passo dell'intervento psicoterapeutico. Le pazienti anoressiche mostrano un miglioramento più notevole quando l'approccio terapeutico comprende una combinazione di psicoterapia familiare e psicoterapia psicodinamica individuale, rispetto a quando vengono trattate semplicemente con misure educative destinate al controllo del peso ponderale. Finché non vengono presi in esame il sottostante disturbo del Sé e le connesse distorsioni delle relazioni oggettuali interne, la paziente seguirà un percorso di ripetute ricadute e di continui ricoveri ospedalieri. Anche il ricovero ospedaliero può essere un'aggiunta efficace rispetto alla psicoterapia individuale. Sebbene non vi sia unanime consenso riguardo alle indicazioni per il trattamento delle pazienti degenti, una perdita di peso del 30 per cento rispetto al normale peso corporeo è una buona regola per determinare se sia necessario il ricovero. i membri dello staff di un reparto devono prestare una particolare attenzione ai tentativi inconsci del paziente di rimettere in atto nell'ambiente ospedaliero le battaglie familiari. Devono riuscire a trasmettere il proprio interesse nei confronti della paziente e aiutarla a riacquistare peso senza però preoccuparsene eccessivamente, e senza porle richieste simili a quelle che farebbero i genitori. La paziente può essere aiutata ad affrontare la paura di perdere il controllo stabilendo pasti frequenti ma poco abbondanti, in presenza di un membro del personale infermieristico che sia disponibile a discutere con la paziente la sua ansia riguardo al mangiare. La paziente vede l'anoressia nervosa come la soluzione a un problema interno. Gli psicoterapeuti che la definiscono immediatamente come un problema che deve essere risolto riducono la loro possibilità di formare una valida alleanza terapeutica. Il comportamento associato all'anoressia nervosa suscita richieste e aspettative di cambiamento di parte dei genitori della paziente. Proprio come la paziente provoca i propri genitori rifiutandosi di mangiare, cercherà di provocare lo psicoterapeuta rifiutandosi di parlare (Mintz, 1988). All'inizio della terapia può pertanto essere utile chiarire che l'obiettivo principale del trattamento è quello di comprendere il sottostante disturbo emotivo della paziente piuttosto che il problema del rifiuto del cibo (Bruch, 1982; Chessick, 1985). secondo la Bruch (1982) una psicoterapia non è proponibile a meno che la paziente non pesi attorno ai quarantatre chili. La Bruch spiega alle sue pazienti che la loro capacità di pensare e di comunicare migliorerà se saranno in grado di portare il loro peso almeno a quel livello. la paziente è una persona autonoma che ha diritto ad avere le proprie idee riguardo alla sua malattia. È di fondamentale importanza aiutare la paziento a definire i propri stati affettivi. Le azioni e le decisioni che originano da questi sentimenti devono essere legittimate e rispettate. Il terapeuta può aiutare la paziente a esplorare varie opzioni ma dovrebbe evitare di dirle cosa fare (Chessick, 1985). Le pazienti anoressiche spesso credono che i genitori vogliano farle aumentare di peso in modo che gli altri non li considerino dei falliti (Powers, 1984). È facile che il terpeuta diventi ansioso riguardo a questioni simili. In particolare i terapeuti che lavorano all'interno di un'équipe terapeutica potranno iniziare a sentire che i colleghi giudicano negativamente il loro lavoro se le loro pazienti non aumentano di peso. Questa preoccupazione controtransferale può portare il terapeuta a cadere nella trappola di identificarsi con i genitori della paziente. La situazione ideale per la psicoterapia individuale è che un altro terapeuta si occupi del problema del peso, lasciando lo psicoterapeuta libero di esplorare le sottostanti tematiche psicologiche della paziente. Quando per il controllo del peso sia necessario il ricovero ospedaliero, lo psichiatra curante può gestire l'assunzione del cibo mentre lo psicoterapeuta continua il lavoro psicoterapeutico in ospedale. In questa cornice lo psicoterapeuta può lavorare produttivamente con l'équipe. Le pazienti tentano di attribuire al terapeuta lo stesso ruolo che conferiscono ai genitori, cercando aiuto per ottenere attenzione ma frustrando ripetutamente i loro tentativi. Spesso si mostrano volenterose e pronte a collaborare per poi sabotare il lavoro del terapeuta. Con le pazienti affette da anoressia in genere l'alleanza terapeutica è molto più tende di quanto appaia, e il terapeuta deve adattarsi alla frustrazione di sentirsi ingannato dalla paziente. Per gestire il controtransfert è utile ricordare che queste pazienti interpretano i progressi come sinonimi di crescita e separazione dalla famiglia, prospettive che sono entrambe fonte di grande inquietudine e paura. L'ansia del terapeuta è ulteriormente alimentata dal fatto che le pazienti anoressiche stanno in realtà "giocando" con la morte, e la situazione è resa ancora più frustrante in quanto frequentemente esse negano di avere desideri suicidari. Le errate percezioni della paziente riguardo al suo corpo e le credenze cognitive illogiche dovrebbero essere esplorate con la paziente in maniera non giudicante (Powers, 1984). Le distorsioni dell'immagine corporea, che spesso assumono proporzioni deliranti, possono essere particolarmente refrattarie agli sforzi educativi e terapeutici. 361-5 Le pazienti con bulimia nervosa vengono generalmente distinte da quelle con anoressia nervosa sulla base di un peso relativamente normale e della presenza di abbuffate e dell'uso di purganti. Le pazienti emaciate che si abbuffano e si purgano vengono spesso classificate come anoressiche, sottogruppo bulimico (Hsu, 1986). Secondo la Bruch le due sindromi hanno poco in comune: la rigida autodisciplina e la severa coscienza della paziente anoressica sono in netto contrasto con il comportamento impulsivo, irresponsabile e indisciplinato della persona bulimica. L'opinione della Bruch, tuttavia, non è sostenuta dai dati sempre più numerosi che indicano come tra i due disturbi esista un considerevole legame (Garner et al., 1986). Almeno il 40- 50 per cento di tutte le pazienti anoressiche è anche bulimico (Garfinkel et al., 1980; Hall et al., 1984; Hsu et al., 1979). I risultati di follow-up a lungo termine suggeriscono che con il passare del tempo l'anoressia nervosa può cedere il passo alla bulimia, mentre la modalità inversa è molto più rara (Hsu, 1991). Alla luce di queste osservazioni il DSM-IV (American Psychiatric Association, 1994) classifica l'anoressia nervosa in base alla presenza o meno di sintomi bulimici, mentre preclude la diagnosi di bulimia nervosa se la bulimia si verifica soltanto durante episodi di anoressia. Una delle ragioni per attenuare i confini diagnostici tra comportamenti anoressici e bulimici è il fatto che il quadro clinico può essere assai variato. Disturbi psichiatrici concomitanti sono comuni (Yager, 1984), e in più della metà dei casi le pazienti bulimiche possono soffrire di associati disturbi di personalità. L'anoressia e la bulimia sono essenzialmente le due facce della stessa medaglia (Mintz, 1988). la paziente bulimica può soffrire di una generalizzata incapacità di posticipare la soddisfazione degli impulsi, a causa di un lo indebolito e di un Super-io meno forte. Le abbuffate e l'uso di purganti non sono solitamente problemi di controllo degli impulsi isolati; generalmente coesistono con rapporti sessuali impulsivi e autodistruttivi e con l'abuso di molteplici sostanze. famiglia e fattori ambientali giocano un ruolo chiave nello sviluppo del disturbo. In uno studio condotto su 102 soggetti con bulimia nervosa e 204 soggetti di controllo sani (Fairburn et al., 1997), problemi tra i genitori, esperienze di abuso fisico e sessuale e autostima negativa erano tutti fattori associati con lo sviluppo della malattia. Secondo gli autori, una scarsa stima di sé potrebbe favorire un disturbo dell'alimentazione distorcendo la visione che le ragazze hanno del proprio aspetto fisico. problemi nel dialogo emotivo con i genitori e un pattern costante di conflitti tra parti contraddittorie del Sé, indubbiamente influenzato da identificazioni conflittuali con i genitori. Inoltre secondo questi autori molte pazienti bulimiche vivono una mancanza di rispetto per i propri confini e un'intrusione grossolana nella loro privacy, che si manifesta con abusi fisici o psicologici. Gli autori che hanno studiato le origini evolutive della bulimia hanno rilevato notevoli difficoltà rispetto alla separazione sia nelle pazienti che nei loro genitori. Come le madri delle pazienti anoressiche, i genitori delle bambine destinate a divenire bulimiche si rapportano spesso alle figlie come se queste fossero - estensioni di se stessi (Humphrey, Stern, 1988; Strober, Humphrey, 1987). Le figlie vengono spesso usate come oggetti-Sé per convalidare il Sé del genitore. Ciascun membro della famiglia dipende da tutti gli altri membri per mantenere un senso di coesione. Sebbene questo schema caratterizzi le famiglie delle pazienti anoressiche, nelle famiglie bulimiche predomina una modalità particolare di gestire qualità "cattive" inaccettabili. I membri della famiglia bulimica apparentemente hanno un forte bisogno che gli altri li vedano come "tutti buoni". Le qualità inaccettabili dei genitori vengono spesso proiettate nella bambina bulimica, che diviene così l'unica depositaria della "cattiveria". Identificandosi inconsciamente con queste proiezioni, essa diventa la portatrice di tutta l'avidità e impulsività della famiglia. Il risultante equilibrio omeostatico mantiene l'attenzione sulla bambina "malata" piuttosto che sui conflitti nei, o tra i, genitori. La bulimia nervosa può costituire una minaccia per la vita. Sono noti casi di pazienti che hanno alterato il loro bilancio elettrolitico fino a indurre un arresto cardiaco. Ripetuti esami ematologici di controllo dovrebbero pertanto far parte della gestione ambulatoriale di queste pazienti, con il ricovero ospedaliero come strategia di recupero. Dato che molte pazienti bulimiche soffrono anche di disturbo borderline di personalità e di disturbi affettivi maggiori, l'ospedalizzazione potrà essere necessaria anche in seguito a tentativi di suicidio o gravi automutilazioni. Il trattamento ospedaliero deve seguire un piano globale di trattamento personalizzato, oltre a perseguire il raggiungimento di un controllo dei sintomi attraverso misure come la chiusura a chiave dei bagni, l'applicazione di un normale orario dei pasti, l'assistenza psicoeducativa da parte di un dietologo o l'incoraggiamento a tenere un diario. Il ricovero spesso fornisce allo psicoterapeuta un'opportunità per comprendere meglio le relazioni oggettuali interne della paziente; pertanto, esso facilita una più sofisticata comprensione diagnostica e una più precisa pianificazione del trattamento. I terapeuti possono trovarsi a essere ripetutamente provocati ad accettare la "cattiveria" che la paziente sta cercando di espellere. Possono anche sentirsi "vomitati addosso" quando la paziente ripetutamente sputa addosso a loro tutti i loro sforzi terapeutici. La riproduzione degli schemi familiari nel trattamento ospedaliero o nella psicoterapia individuale aiuta il clinico a comprendere il ruolo della paziente all'interno del sistema familiare. Poiché la bulimia è molto spesso parte di un equilibrio omeostatico all'interno di questo sistema, è spesso necessaria una terapia della famiglia oppure un intervento sulla famiglia associato a una psicoterapia individuale. Ignorando il sistema familiare, il terapeuta corre il rischio che il miglioramento della paziente sia visto come terribilmente minaccioso dagli altri membri della famiglia. Reazioni difensive a questa minaccia comprendono un sabotaggio insidioso del trattamento della paziente bulimica, oppure lo sviluppo di una grave disfunzione in un altro membro della famiglia. Il bisogno che la famiglia ha della malattia della paziente bulimica va rispettato, e i genitori devono sentirsi "sostenuti" e considerati per evitare che interferiscano con il trattamento (Humphrey, Stern, 1988). A causa della loro intensa ambivalenza e della loro preoccupazione di turbare profondamente l'equilibrio familiare, molte pazienti bulimiche cercheranno di evitare una terapia psicodinamica intensiva. Possono considerarsi portatrici di difetti che l'esplorazione psicoterapeutica corre il rischio di mettere in evidenza (Reich, Cierpka, 1998). Incoraggiare la redazione di un diario giornaliero dell'alimentazione e sottolineare l'associazione tra certe modalità di alimentazione e determinati stati emotivi può essere un modo estremamente efficace per costruire un'alleanza terapeutica. Anche gli interventi sulla famiglia sotto forma di sostegno, educazione, ed eventualmente terapia della famiglia sono in genere necessari per rafforzare la terapia individuale. Un breve ricovero ospedaliero, gruppi di sostegno e psicoterapia di gruppo possono tutti aiutare il paziente a controllare i sintomi. Un sottogruppo significativo di pazienti bulimiche che presentano gravi patologie del carattere, tendenze suicide o propensione a gravi alterazioni dell'equilibrio elettrolitica richiederà una psicoterapia nel contesto di un prolungato ricovero ospedaliero. Queste pazienti vanificano i più diligenti sforzi dei terapeuti di strutturare le loro vite. Sembrano inclini a una evoluzione autodistruttiva che potrebbe in effetti risultare fatale in assenza di un protratto trattamento ospedaliero. 369-73 Il paziente borderline La nostra trattazione dei disturbi di personalità del gruppo B comincia dal paziente borderline, perché il disturbo di personalità borderline serve come punto di riferimento per l'intero gruppo. I disturbi di personalità narcisistico, antisociale e istrionico finiscono spesso per essere definiti in base alle loro differenze rispetto al disturbo di personalità borderline. Inoltre, quando borderline è usato nel più ampio senso di uno spettro (Meissner, 1988) o di un'organizzazione di personalità (Kernberg, 1967), tutti i disturbi di personalità del gruppo B, così come quelli del gruppo A, possono essere riassunti sotto la categoria generica di "condizioni borderline". Sfortunatamente, la crescente popolarità della diagnosi di borderline nelle ultime due decadi l'ha fatta diventare una sorta di "cestino dei rifiuti" psichiatrico - spesso usato troppo e male. I pazienti per cui sussiste una confusione diagnostica possono ricevere l'etichetta di borderline per difetto. Grinker e collaboratori-(1968) introdussero un certo rigore diagnostico rispetto alla sindrome nei primi anni '60 con le loro analisi statistiche relative a circa sessanta pazienti che erano stati ricoverati a Chicago. Un'analisi per cluster dei dati di questi pazienti suggerì che vi erano quattro sottogruppi di pazienti borderline (Tab. 15.1). Questi pazienti sembravano riempire un continuum lungo tutta la gamma dal "versante psicotico" (tipo 1) al "versante nevrotico" (tipo 4). Tra i due estremi poteva essere identificato un gruppo che presentava prevalentemente affetti negativi e difficoltà nel mantenere relazioni interpersonali stabili (tipo 2) e un altro gruppo (tipo III) caratterizzato da una perdita generalizzata di identità, con un conseguente bisogno di prendere a prestito identità da altri. Grinker e collaboratori (1968) tentarono anche di identificare i denominatori comuni nella sindrome borderline che comparivano indipendentemente dal sottotipo, individuando quattro caratteristiche chiave: 1) rabbia come affetto principale o esclusivo, 2) difficoltà nelle relazioni interpersonali, 3) assenza di una consistente identità del Sé, 4) depressione pervasiva. Uno dei più significativi contributi di questo studio empirico fu l'osservazione che la sindrome borderline andava chiaramente distinta dalla schizofrenia. Grinker e collaboratori trovarono che questi pazienti, nel tempo, non si deterioravano in una franca schizofrenia. Piuttosto, essi erano stabilmente instabili (Schmideberg, 1959) nel corso della loro malattia. Questa scoperta aiutò a confutare la convinzione di alcuni scettici che i pazienti borderline fossero in realtà schizofrenici. Molti di questi criteri sono correlati. I pazienti borderline si consumano nel tentativo di stabilire relazioni diadiche esclusive in cui non vi sia alcun rischio di abbandono. Possono esprimere il bisogno di simili relazioni con un'arroganza che travolge e aliena gli altri. Inoltre, una volta raggiunta l'intimità con un'altra persona, due tipologie di ansia vengono attivate. Da un lato, cominciano a temere di essere fagocitati dall'altro e di perdere la propria identità in questa primitiva fantasia di fusione. Dall'altro, esperiscono un'angoscia che confina nel panico in relazione all'idea di poter essere abbandonati in qualsiasi momento. Per prevenire la solitudine, possono tagliarsi i polsi o compiere altri atti autodistruttivi, nella speranza di venire salvati dalla persona a cui sono attaccati. Le distorsioni cognitive, come il pensiero quasi-psicotico (caratterizzato da transitori, circoscritti, e/o atipici strappi nell'esame di realtà), possono anche verificarsi nel contesto di relazioni interpersonali. Sono comuni percezioni quasi-deliranti di abbandoni da parte di figure amate e quando i pazienti si legano ai loro terapeuti possono verificarsi regressioni psicotiche transferali. I clinici che sono testimoni di questi caleidoscopici passaggi tra diversi stati dell'Io sono soggetti a varie e intense reazioni controtransferali, tra cui fantasie di salvezza, sentimenti di colpa, trasgressioni dei limiti professionali, rabbia e odio, ansia e terrore, e profondi sentimenti di impotenza (Gabbard, 1993; Gabbard, Wilkinson, 1994) Otto Kernberg (1967, 1975) coniò l'espressione organizzazione borderline di personalità per circoscrivere un gruppo di pazienti che mostravano caratteristici pattern di debolezza dell'Io, operazioni difensive primitive e relazioni oggettuali problematiche. Kernberg osservò in questi pazienti una varietà di sintomi, tra i quali un'ansia liberamente fluttuante, sintomi ossessivo-compulsivi, fobíe multiple, reazioni dissociative, preoccupazioni ipocondriache, sintomi di conversione, spunti paranoidi, sessualità perversa polimorfa e abuso di sostanze. Sottolineò, tuttavia, che i sintomi descrittivi non erano sufficienti per una diagnosi definitiva. Riteneva invece che la diagnosi si fondasse su una sofisticata analisi strutturale che rivelava quattro caratteristiche chiave (vedi Tab. 15.3). I. Manifestazioni non specifiche di debolezza dell'Io. Un aspetto del funzlonamento dell'io è la capacità di posticipare il soddisfacimento degli impulsi e di modulare affetti come l'ansia. Allo stesso modo, essi fanno fatica a sublimare intense pulsioni e a utilizzare la loro coscienza per guidare il comportamento. 2. Scivolamento verso processi di pensiero primario. Come Robert Knight, Kernberg notò che questi pazienti tendono a regredire a un pensiero similpsicotico per l'assenza di struttura o sotto la pressione di affetti intensi. Questi scivolamenti si verificano comunque principalmente nel contesto di una capacità generalmente conservata di valutazione della realtà. 3. Operazioni difensive specifiche. Principale operazione difensiva è la scissione, che Kernberg descrisse come un processo attivo in grado di separare introietti e affetti tra loro contraddittori (vedi cap. 2). Le operazioni di scissione nel paziente con disturbo di personalità borderline si manifestano clinicamente con queste caratteristiche: a) un'espressione alternante di comportamenti e atteggiamenti contraddittori che il paziente considera con mancanza di preoccupazione e con blando diniego; b) una divisione in compartimenti di tutte le persone che fanno parte dell'ambiente del paziente in un gruppo di "tutti buoni" e in un gruppo di "tutti cattivi", fermo restando che un dato individuo può frequentemente oscillare da uno all'altro; c) prospettive e immagini di sé (rappresentazioni di sé) contraddittorie che coesistono e si alternano nel loro predominio di giorno in giorno e di ora in ora. nel paziente borderline sono presenti rappresentazioni di sé contraddittorie Altre difese, come idealizzazione primitiva, onnipotenza e svalutazione, riflettono in modo analogo tendenze alla scissione (ad esempio, gli altri vengono considerati in termini del tutto negativi o del tutto positivi). Secondo Kernberg nell'organizzazione borderline di personalità un'altra difesa importante è l'identificazione proiettiva, in cui le rappresentazioni di sé o dell'oggetto sono scisse e proiettate negli altri nel tentativo di controllarli. 4. Relazioni d'oggetto patologiche interiorizzate. Per effetto della scissione, gli individui con organizzazione borderline di personalità non vedono negli altri un insieme di qualità positive e negative. Gli altri vengono invece suddivisi secondo polarità estreme e sono considerati, per usare le parole di un paziente, "o dei o demoni". l'incapacità di integrare rappresentazioni di sé positive e negative genera una grave diffusione d'identità. Il concetto di Kernberg di organizzazione borderline di personalità è diverso dalla caratterizzazione fenomenologica attuale, che identifica uno specifico disturbo di personalità. In altre parole, il termine che egli usa comprende molti e diversi disturbi di personalità. Secondo il suo punto di vista, i pazienti con disturbo di personalità narcisistico, antisociale, schizoide, paranoide, infantile e ciclotimico, ad esempio, sono tutti caratterizzati da una sottostante organizzazione borderline di personalità. Esistono considerevoli controversie sul fatto che il termine "borderline" debba essere applicato a un disturbo di personalità specifico o debba essere usato, come fa Kernberg, in senso più ampio per descrivere una dimensione della personalità (Gunderson, Zanarini,1987). Secondo Grinker e i suoi collaboratori (1968) la sindrome borderline comprendeva diverse sottocategorie che andavano a costituire uno spettro. Meissner (1984, 1988) classificò le condizioni borderline in maniera diversa rispetto a Grinker e collaboratori, ma anch'egli giudicò scorretto limitare l'uso del termine "borderline" a uno specifico disturbo di personalità. 429-34 Almeno tre quarti dei pazienti per cui viene posta una diagnosi di disturbo borderline di personalità (BPD) sono donne (Gunderson et al., 1991). Questo dato può essere dovuto in larga misura a fattori culturali derivanti da stereotipi legati al ruolo sessuale, poiché pazienti maschi che presentano le caratteristiche del BPD vengono spesso diagnosticati come affetti da un disturbo narcisistico o antisociale di personalità. Il BPD è di gran lunga il disturbo dell'asse 2 più frequentemente diagnosticato, con una prevalenza in popolazioni cliniche tra il 15 e il 25 per cento (Gunderson, Zanarini,1987) Il disturbo borderline di personalità di solito diventa palese nella tarda adolescenza o nella prima età adulta. Anche se gli individui borderline . possono sembrare pazienti cronici e difficili nel breve periodo, vi sono ragioni per ritenere che con la prosecuzione della terapia si possano verificare sostanziali miglioramenti. 334-7 Secondo Kernberg i pazienti borderline superano con successo la fase simbiotica descritta dalla Mahler, tanto da poter distinguere con chiarezza il Sé dall'oggetto, per fermarsi però alla fase della separazione-individuazione. , Kernberg individuò il momento cruciale di questa crisi evolutiva nella sottofase del riavvicinamento, approssimativamente tra il sedicesimo e il j trentesimo mese di vita. In questa fase il bambino teme che la madre scompaia, e a volte mostra una frenetica preoccupazione relativamente ai suoi spostamenti. Da questo punto di vista evolutivo, i pazienti borderline possono essere visti come persone che rivivono continuamente una crisi infantile precoce in cui temono che i tentativi di separarsi dalla madre provocheranno la sua scomparsa. Nella riedizione adulta di questa crisi infantile, l'individuo è incapace di tollerare periodi di solitudine e ha paura di essere abbandonato da figure per lui significative. I pazienti ! con disturbo borderline di personalità possono anche essere sopraffatti dall'angoscia di fronte a separazioni importanti da genitori o da altre persone che si prendono cura di loro. Ma mentre la maggior parte dei bambini all'età di circa tre anni raggiunge una costanza d'oggetto sufficientemente consolidata, tale da permettere una visione della madre e del Sé come oggetti interi, ciò non accade negli individui potenzialmente borderline. A quel punto, i bambini possono in genere tollerare meglio la separazione, poiché hanno interiorizzato un'immagine della madre unitaria e confortante, in grado di sostenerli nei momenti in cui lei è fisicamente assente. Privi di questa immagine interna, gli individui borderline hanno una costanza d'oggetto scarsa o assente, che contribuisce in modo significativo a determinare la loro intolleranza alla separazione e alla solitudine. Anche la formulazione di Masterson e Rinsley (1975) ha concentrato l'attenzione sulla sottofase del riavvicinamento della separazione-individuazione, mettendo però l'accento sul comportamento della madre piuttosto che sull'aggressività innata del bambino. Masterson e Rinsley trovarono che le madri dei pazienti borderline, esse stesse da loro considerate tipicamente borderline, sono altamente conflittuali rispetto alla crescita dei loro figli. Come risultato, il bambino riceve dalla madre il messaggio che il fatto di crescere e di diventare una persona indipendente provocherà la perdita dell'amore e del sostegno materno. Un corollario chiave di questo messaggio è che il restare dipendenti costituisce l'unica possibilità di mantenere il legame materno. Questa potente comunicazione materna provoca una "depressione abbandonica" ogni volta che la prospettiva della separazione o dell'autonomia si presenta al bambino. La fissazione a questo livello di frammentazione consegna il paziente borderline al sentimento che esistono soltanto due possibili scelte: puoi sentirti abbandonato e cattivo o, come Peter Pan, puoi sentirti buono solo attraverso il diniego della realtà e non crescendo mai. 438-40 la concezione di Adler (1985) del disturbo borderline di personalità è basata sul modello del deficit o dell`insufficienza". Adler identificò la. causa dell’incapacità del paziente borderline di sviluppare un oggetto interno "contenente-confortante" in una funzione materna inconsistente o insufficiente. Notevolmente influenzato dalla teoria della psicologia del Sé di Kohut (vedi cap. 2), Adler vedeva il paziente borderline come un individuo alla ricerca di funzioni di oggetto-Sé provenienti da figure esterne, a causa dell'assenza di introietti supportivi. Adler pose in rilievo il costrutto evolutivo di Selma Fraiberg (1969) in contrapposizione a quello della Mahler. Egli notò che all'incirca al diciottesimo mese di età, secondo la Fraiberg, il bambino normale è di solito capace di costituirsi un'immagine interna della figura materna anche nell'assenza fisica di tale figura. Tale capacità di "memoria evocativa", come la Fraiberg definì questa conquista cognitiva, secondo Adler è scarsamente sviluppata nel paziente borderline. In situazioni di stress, o in preda a un intenso transfert, i pazienti borderline tendono a regredire fino a perdere la capacità di richiamare alla memoria le figure importanti del loro mondo che non sono fisicamente presenti, a meno che un oggetto come una fotografia non funga da stimolo mnestico. Adler ha concettualizzato questa osservazione spiegandola nei termini di una regressione a una fase evolutiva tra l'ottavo e il diciottesimo mese, prima dello sviluppo della memoria evocativa. Il fatto che il paziente borderline manchi di un oggetto interno contenente-confortante spiega numerosi aspetti della psicopatologia borderline. Questa mancanza porta a sentimenti di vuoto e a tendenze depressive. È altresì responsabile della dipendenza adesiva comunemente osservata nei pazienti borderline. In assenza di risposte da parte di persone significative che fungano da oggetto-Sé, gli individui borderline hanno risorse interne inadeguate a sostenerli e tendono alla frammentazione del Sé. Questa dissoluzione del Sé è accompagnata da un senso di profondo vuoto, descritto da Adler come "panico da annichilimento". Infine, l'assenza di un introietto contenente-confortante induce una rabbia orale cronica nei pazienti borderline, che è in relazione con il loro sentimento di non avere avuto una figura materna emotivamente disponibile durante l'infanzia. 440-1 Tutti i modelli psicodinamici sono stati in qualche modo sfidati dalla letteratura fondata sulla ricerca empirica. Per esempio, 1'ipercoinvolgimento materno descritto nella formulazione di Masterson e Rinsley è stato messo in discussione da una serie di studi (Frank, Hoffman, 1986; Frank, Paris, 1981; Goldberg et al., 1985; Gunderson et al., 1980; Paris, Frank, 1989; Paris, Zweig-Frank, 1992; Soloff, Millward, 1983; Zweig Frank, Paris, 1991) che nel complesso suggeriscono tre conclusioni principali (Zanarini, Frankenburg, 1997): 1) i pazienti borderline di solito considerano la loro relazione materna distante, molto conflittuale o poco coinvolgente; 2) nelle famiglie dei pazienti borderline il fallimento della presenza paterna è un aspetto ancora più discriminante della relazione materna; 3) relazioni disturbate sia con la madre che con il padre possono essere più patogene oltre che più specifiche per il BPD di quanto non lo siano relazioni problematiche con un solo genitore. Questi dati suggeriscono che la trascuratezza può rappresentare un fattore eziologico più significativo dell'ipercoinvolgimento. Uno studio prospettico particolarmente accurato Gohnson et al., 1999) rilevò che la presenza nell'infanzia di comportamenti di trascuratezza da parte dei genitori era associata con un aumento dei sintomi di tipo borderline come pure di quelli correlati a diversi altri disturbi di personalità. Uno studio che ha paragonato pazienti borderhne con pazienti affetti da altre condizioni dell'asse ii, pazienti psicotici e pazienti con disturbi affettivi, ha rilevato che i pazienti borderline avevano alle spalle una percentuale significativamente più elevata di perdite e separazioni precoci. Le cifre oscillavano dal 37 al 64 per cento ed erano altamente discriminanti per BPD (Zanarini, Frankenburg, 1997). Esiste oggi un ampio supporto empirico a sostegno del concetto che l'abuso durante l'infanzia sia uno dei fattori più rilevanti nell'eziologia del disturbo L'abuso sessuale infantile sembra essere un importante fattore eziologico in circa il 60 per cento dei pazienti borderline. Sebbene pazienti di controllo affetti da altri disturbi di personalità o da depressione non riferiscano abusi sessuali con una frequenza paragonabile a quella riscontrata tra i pazienti borderline, la situazione è diversa per quanto riguarda gli abusi fisici, per i quali la prevalenza è grosso modo la stessa. Circa il 25 per cento dei pazienti borderline ha una storia di incesto genitore-figlio. D'altra parte, l'abuso sessuale non è né necessario né sufficiente per lo sviluppo di un BPD, e anche altre esperienze precoci, come comportamenti di trascuratezza da parte di agenti di cura di entrambi i sessi e la presenza di un ambiente familiare caotico o inconsistente, costituiscono significativi fattori di rischio (Zanarini et al., 1997). Questa prospettiva è stata sostenuta in uno studio prospettico condotto da Johnson e collaboratori (1999), che ha associato la presenza di sintomi borderline in età adulta con abusi sessuali o trascuratezza, ma non con abusi fisici, durante l'infanzia. Cloninger e collaboratori hanno riscontrato che i pazienti con BPD sono gli unici a presentare una forte tendenza sia alla ricerca della novità sia all'evitamento del danno. In altre parole, i pazienti borderline sono impulsivi, arrabbiati e anche estremamente ansiosi. Il modello di Cloninger suggerisce la presenza di una diatesi genetico biologica, che viene attivata da determinati fattori ambientali per creare la combinazione di una scarsa autodeterminazione e di una bassa cooperatività con un temperamento caratterizzato da un elevato evitamento del danno e da un'elevata ricerca delle novità. Figueroa e Silk (1997) hanno proposto un modello simile, in cui gli effetti del trauma interagiscono con una sottostante predisposizione a una disfunzione serotoninergica. La loro ipotesi è basata in parte sull'osservazione che i pazienti borderline hanno un livello di attività serotoninergica significativamente ridotto. Dato che la serotonina esercita un'azione inibitoria sul comportamento, l'impulsività caratteristica dei pazienti borderline può essere in parte correlata a questa alterata attività serotoninergica (Coccaro, Kavoussi, 1997; Coccaro et al., 1989; Siever, Davis, 1991). L'aumento della vulnerabilità secondaria al ridotto tono serotoninergico è accentuato dagli effetti del trauma, che determinano alterazioni anche nei livelli di cortisolo e catecolamine. L'ipersensibilità del sistema noradrenergico, correlata in parte al temperamento e in parte all'iperattività risultante dal trauma, porta a comportamenti autodistruttivi, come automutilazione, nel tentativo di ridurre gli affetti disforici e dolorosi. La possibile esistenza di un substrato biologico per il disturbo borderline di personalità è ulteriormente confermata da dati che suggeriscono la presenza di deficit neurocognitivi in questi pazienti. Andrulonis (1991) ha notato che un significativo numero di pazienti borderline mostra lievi segni di sofferenza neurologica, con un'anamnesi positiva per disturbo da deficit di attenzione/iperattività, problemi di apprendimento, scarso controllo degli impulsi e disturbi della condotta. Studi neuropsicologici riportano che i pazienti borderline presentano in genere un numero di segni di deficit neuropsicologici significativamente superiore alla norma, ma che alcuni di questi problemi possono essere molto lievi e divenire evidenti soltanto quando individui affetti da BPD sono messi a confronto con soggetti di controllo sani (O'Leary, Cowdry, 1994; Swirsky-Sacchetti et al., 1993; vanReekum et al., 1993). Almeno uno studio ha anche riscontrato in pazienti con BPD una percentuale di trauma cranico prima della diagnosi significativamente più elevata rispetto a soggetti di controllo (Streeter et al., 1995). Studi sulle famiglie hanno rilevato che il BPD è relativamente più comune tra i parenti di primo grado dei pazienti borderline di quanto non lo sia tra soggetti di controllo (Zanarini, Frankenburg, 1997). Tutti questi fattori influenzano anche la capacità del bambino di legarsi alla madre o a chi si prende principalmente cura di lui. Come discusso nel capitolo 2, secondo la teoria dell'attaccamento il legame che si crea tra il bambino e l'agente di cura può riflettersi, in età adulta, in atteggiamenti nei confronti dell'attaccamento che possono essere classificati in base a quattro categorie generali: 1) sicuro/autonomo, 2) distanziante, 3) preoccupato e 4) non risolto/disorganizzato. I pazienti affetti da BPD tendono a essere classificati come preoccupati o non risolti/disorganizzati. Come risposta all'abuso e all'abbandono i bambini che crescendo sviluppano un BPD possono difensivamente distruggere i processi mentali necessari per definire pensieri e sentimenti in se stessi e negli altri. Questa disattivazione della mentalizzazione impedisce lo sviluppo della funzione riflessiva che consente la comprensione della dimensione interiore (vedi cap. 2). La perdita della sensazione di potere e di un senso di sé coeso che ne deriva porta tali pazienti a disconoscere la padronanza dei propri corpi e delle proprie azioni (Fonagy, Target, 1995). Nel complesso questi dati indicano che il BPD ha una eziologia multifattoriale. Zanarini e Frankenburg (1997) postulano tre fattori principali. Il primo è un ambiente familiare traumatico e caotico, che determina separazioni precoci, disaccordo emozionale, comportamenti di rifiuto e trascuratezza nei confronti del bambino, insensibilità rispetto ai suoi sentimenti e bisogni, e traumi di diversa entità. Il secondo è un temperamento costituzionalmente vulnerabile. Il terzo fattore è correlato a eventi scatenanti, come il tentativo di stabilire una relazione intima, il fatto di andare a vivere da soli, abusi sessuali o altre esperienze traumatiche, ognuno dei quali può agire da catalizzatore attivando la sintomatologia della condizione borderline. Certe tipologie di temperamento su base genetica possono accrescere la probabilità di eventi di vita negativi, così che tra effetti di geni e ambiente si verifica un'interazione progressiva nello sviluppo del BPD (Paris, 1998).
Psicopatologia - Gabbard

Inviato:
30/11/2014, 15:08
da Royalsapphire
Una conclusione è che ciascun paziente borderline può avere un personale percorso eziologico che coinvolge in diversa misura questi tre fattori eziologici generali. Alcune delle prospettive contraddittorie espresse nelle teorie psicodinamiche possono riflettere differenti esperienze evolutive e diverse popolazioni di pazienti borderline. Ad esempio, i pazienti che hanno esperito una precoce perdita o che sono stati trascurati durante l'infanzia possono non essere in grado di sviluppare un introietto contenenteconfortante, come descritto da Adler (1985). Il lavoro di Zweig-Frank e Paris (1991) indica che altri pazienti, soggetti durante l'infanzia a un ipercontrollo sia da parte della madre che del padre, possono soffrire per ansie abbandoniche simili a quelle descritte da Masterson e Rinsley (1975) e Kernberg (1975). Ricerche controllate hanno anche documentato l'esistenza di una forte correlazione tra i temi della separazione-individuazione e la psicopatologia borderline (Dolan et al., 1992). 441-6 Uno dei problemi principali nella psicoterapia di individui borderline è costituito dalla fragilità dell'alleanza terapeutica Questi pazienti hanno una notevole difficoltà a considerare il terapeuta come una figura che li aiuta lavorando in collaborazione con loro per raggiungere degli obiettivi riconosciuti da entrambi. Mantenere la flessibilità. Un atteggiamento terapeutico flessibile è necessario per un trattamento ottimale dei pazienti affetti da BPD. Come regola generale, i pazienti borderline di alto livello con una forza dell'Io e una mentalità psicologica più sviluppate potranno trarre maggiore vantaggio da una psicoterapia orientata in senso espressivo, mentre i pazienti più vicini al confine psicotico avranno bisogno di un'enfasi supportiva. Nella maggior parte dei casi è necessario un atteggiamento flessibile da parte del terapeuta che, utilizzando interventi interpretativi e non, dovrà di volta in volta adeguarsi al tipo di relazione che si instaura fra lui e il paziente. Attraverso il suo comportamento, il paziente cerca sottilmente di imporre determinate modalità di risposta e di interazione con gli altri. I terapeuti devono permettersi una sufficiente flessibilità per rispondere spontaneamente al tipo di relazione d'oggetto proposto dal paziente. In altre parole, il terapeuta partecipa a una "danza" basata su una musica specifica che proviene dall'interno del paziente, e che fornisce una notevole serie di informazioni sulle particolari difficoltà che il paziente incontra nelle relazioni interpersonali al di fuori della situazione transferale-controtransferale. Tale risposta deve essere naturalmente modulata e limitata, e il terapeuta deve cercare di mantenere un atteggiamento riflessivo rispetto a questa "danza". Stabilire le condizioni che rendono possibile la psicoterapica. A causa della natura caotica della vita del paziente borderline, una certa stabilità deve essere imposta da fonti esterne sin dall'inizio della terapia. Nelle consultazioni preliminari e nel corso della terapia stessa, lo psicoterapeuta deve definire e ridefinire che cosa la terapia comporta e in che modo differisce da altri tipi di relazione. Gli argomenti che dovrebbero essere presi in considerazione includono chiari accordi sul pagamento delle parcelle, la definizione di un programma di appuntamenti accettabile, la necessità di concludere le sedute puntualmente anche se il paziente può desiderare di prolungarle e una politica esplicita sulle conseguenze degli appuntamenti mancati. Inoltre, con un paziente borderline a rischio di suicidio, il terapeuta può aver bisogno di chiarire che in una situazione di rischio suicidario acuto gli sarebbe impossibile prevenire la messa in atto degli impulsi del paziente e che potrebbe presentarsi la necessità di un ricovero. Con un paziente che fa uso di sostanze il terapeuta può insistere sulla partecipazione a gruppi di auto-aiuto come condizione per la terapia. Quando esistono chiare indicazioni per una farmacoterapia, il terapeuta deve sottolineare che l'assunzione dei farmaci prescritti è una componente essenziale di tutto il piano terapeutico. Oltre a stabilire le condizioni che renderanno possibile la psicoterapia, il terapeuta deve anche comunicare i propri limiti al paziente. Questa comunicazione è spesso in disaccordo con le aspettative del paziente, che vede il terapeuta come un salvatore onnipotente. Questo dialogo porterà quindi direttamente a una discussione su ciò che la terapia è o non è. Kernberg ha sostenuto l'opportunità di stabilire un "contratto" con i1 paziente nella fase delle consultazioni che precedono la terapia (Kernberg et al,1989). Come parte della definizione di questo contratto, il terapeuta deve chiarire che un coinvolgimento nella vita del paziente al di fuori delle sedute non rientra nei compiti dello psicoterapeuta. Di conseguenza, il terapeuta non si aspetta di ricevere telefonate tra una seduta e l'altra e ribadisce i limiti della sua disponibilità. Tuttavia, questo approccio può interferire con lo sviluppo di un investimento stabile sul terapeuta, in particolare se le condizioni del "contratto" appaiono insostenibili per il paziente. Come ha sottolineato Gunderson (1996), il paziente può avere ricorrenti reazioni di panico a causa di un insufficiente sviluppo della memoria evocativa e può sentire il bisogno di chiamare di tanto in tanto il terapeuta al fine di sviluppare una rappresentazione stabile che possa essere interiorizzata. Secondo Gunderson il terapeuta dovrebbe discutere della sua disponibilità tra una seduta e l'altra soltanto dopo che il paziente inizia a fare domande a tale proposito. Egli suggeriva, e io concordo con lui, che ai pazienti dovrebbe essere comunicato che il terapeuta desidera essere contattato in caso di emergenza. Questa posizione evita un inizio avverso del processo terapeutico e spesso fa sì che il paziente si senta capito e "tenuto insieme" in senso winnicottiano. Se si verificano delle telefonate tra le sedute, Gunderson raccomanda che le stesse telefonate rappresentino il focus esplorativo del lavoro terapeutico. Appena il terapeuta comincia a riconoscere la paura che il paziente ha della solitudine e il suo significato evolutivo, in quest'ultimo può essere facilitato lo sviluppo di introietti contenenti-confortanti, come ha descritto Adler. Se le telefonate diventano eccessive, possono essere imposti dei limiti chiari mentre si esplorano intanto il senso e il significato dei contatti tra le sedute. Lasciarsi trasformare nell'oggetto cattivo. Una delle sfide più difficili nella psicoterapia dei pazienti borderline è quella di riuscire a tollerare e a contenere l'intensa rabbia del paziente, la sua aggressività e il suo odio. È importante ricordare che questi pazienti hanno interiorizzato un introietto di odio e forse di abuso, che stanno cercando disperatamente di esternalizzare attraverso l'identificazione proiettiva nelle dimensioni del transfert-controtransfert della diade. I pazienti borderline sono alla ricerca di un "oggetto sufficientemente cattivo" (Rosen, 1993). Paradossalmente, i pazienti trovano prevedibile, familiare e persino confortante il fatto di ricreare una relazione oggettuale interna sadomasochistica di derivazione infantile con il terapeuta. Se il terapeuta resiste a questa trasformazione, i pazienti possono assumere atteggiamenti ancora più provocatori, tentando di trasformare il terapeuta con impegno anche maggiore (Fonagy, 1998). I terapeuti che cercano di arginare la loro crescente aggressività possono sforzarsi di rispondere con pazienza sempre maggiore agli attacchi verbali dei pazienti. Alternativamente, il terapeuta può sottilmente sottrarsi a un investimento emozionale verso il paziente, sperando consciamente o inconsciamente che il paziente abbandoni la terapia e trovi qualcun altro da tormentare. Un'altra più sconcertante possibilità è che il terapeuta cominci a fare commenti ostili o sarcastici, o che abbia addirittura esplosioni di rabbia nei confronti del paziente. Lasciarsi trasformare nell'oggetto cattivo non significa che il terapeuta debba perdere completamente il senso del decoro professionale. Piuttosto richiede che il terapeuta funzioni come un contenitore, che accetta le proiezioni e cerca di comprenderle e di contenerle al posto del paziente fino a che quest'ultimo non sia di nuovo in grado di riappropriarsi di tali aspetti proiettati di sé, "lo stato della mente ottimale per i terapeuti si realizza quando si lasciano ‘risucchiare’ nel mondo del paziente mantenendo nello stesso tempo la capacità di osservare ciò che sta accadendo davanti ai loro occhi. In un simile stato, i terapeuti stanno effettivamente ‘pensando i propri pensieri’, anche se sono in qualche modo sotto l'influenza del paziente". Spesso pazienti borderline fanno capire al terapeuta che saranno spinti al suicidio a causa delle sue manchevolezze (Maltsberger, 1999). Accuse del genere alimentano i dubbi dei terapeuti e attivano le loro ansie di abbandono, al punto che in situazioni di questo tipo i terapeuti possono tentare di dimostrare la loro capacità di prendersi cura dei pazienti attraverso misure eroiche tese a salvarli. Come risultato, il paziente può arrivare a esercitare un controllo onnipotente sul terapeuta - ciò che Maltsberger (1999) ha definito sottomissione coercitiva. In questo scenario il terapeuta si assume la completa responsabilità per la sopravvivenza del paziente, invece di lasciare che egli si faccia carico della maggior parte delle responsabilità rispetto alla sua vita o alla sua morte, condizione imprescindibile se si vuole che alla fine il paziente stia meglio. Promuovere una funzione riflessiva. Un obiettivo generale nella psicoterapia dei pazienti con BPD è quello di aiutarli a recuperare una funzione riflessiva, così che possano incominciare a pensare al mondo interno proprio e altrui. Con pazienti che non sono in grado di mentalizzare interpretare il significato delle loro espressioni comportamentali può essere prematuro. Può essere invece molto più utile aiutare tali, pazienti a elaborare i contenuti emozionali che possono avere innescato un certo comportamento. Un altro modo per favorire lo sviluppo di capacità mentalizzanti è quello di seguire e commentare costantemente i cambiamenti nei sentimenti espressi dai pazienti, così che essi possano alla fine interiorizzare le osservazioni del terapeuta sui loro contenuti interiori. La funzione riflessiva può essere incoraggiata anche aiutando il paziente a pensare alle conseguenze dei suoi comportamenti autodistruttivi (Waldinger, 1987). Molti dei comportamenti autodistruttivi dei pazienti borderline sono messi in atto impulsivamente, senza assolutamente tenere in considerazione le loro eventuali conseguenze. Per mezzo di ripetute domande sui possibili effetti negativi di tali azioni, il terapeuta può far sì che questi comportamenti divengano meno gratificanti agli occhi del paziente. Delimitare i confini quando è necessario. Molti pazienti borderline esperiscono i normali limiti professionali come una crudele e punitiva deprivazione da parte del terapeuta. Possono richiedere dimostrazioni più con crete del suo interesse per loro, come abbracci, prolungamenti delle sedute, sconti sull'onorario ed elasticità di orario (Gabbard, Wilkinson, 1994). Terapeuti che provano sentimenti di colpa rispetto al fatto di dover stabilire dei limiti professionali con i loro pazienti borderline possono incominciare a superarli nel nome della flessibilità o della prevenzione del suicidio. Più i pazienti ricevono gratificazioni, più diventano insaziabili. Gran parte della difficoltà è legata al fatto che il terapeuta può sentirsi crudele e sadico nel momento in cui pone opportunamente dei limiti ai comportamenti del paziente. Paradossalmente, comunque, molti pazienti - che chiedono una maggiore libertà possono peggiorare quando questa viene loro concessa. Il suicidio è un pericolo sempre presente con individui borderline, e i terapeuti devono essere pronti a ricoverare i loro pazienti nel momento in cui gli impulsi suicidari diventano incontrollabili. I terapeuti spesso si ritrovano nella insostenibile posizione di tentare eroicamente di trattare questi pazienti mantenendo contatti continui con loro. Un terapeuta finì per parlare al telefono con una paziente borderline per un'ora ogni notte per evitare che lei si suicidasse. Stabilire e mantenere l'alleanza terapeutica. Come notato in precedenza, l'alleanza terapeutica rappresenta un costrutto sfuggevole nella psicoterapia dei pazienti borderline. A causa delle relazioni d'oggetto interne caotiche del paziente, nel corso della terapia il terapeuta viene spesso trasformato in un avversario o in un salvatore idealizzato. Se il processo terapeutico diventa particolarmente difficile è opportuno che il terapeuta riporti il paziente sul terreno degli obiettivi comuni rispetto alla psicoterapia. Un messaggio ricorrente per il paziente deve essere quello che la terapia non è un obbligo. È un percorso evolutivo scelto dal paziente per lavorare su obiettivi specifici che possono generare sofferenza. I pazienti spesso perdono di vista questi obiettivi; il fatto di riesaminarli periodicamente aiuta i pazienti a ricordare che il terapeuta è un alleato che sta lavorando insieme a loro. Aiutare il paziente a riappropriarsi degli aspetti del Sé che sono stati denegati o proiettati. Dato che la scissione e l'identificazione proiettiva sono meccanismi di difesa primari nei pazienti con BPD, un senso di incompletezza o frammentazione è un fenomeno cardine nella psicopatologia borderline. I pazienti possono disconoscere comportamenti avuti un mese prima come se qualcun altro ne fosse responsabile. Questa mancanza di continuità del Sé emerge anche dai cambiamenti sostanziali nelle modalità con cui di settimana in settimana i pazienti si presentano al terapeuta. Il compito del terapeuta è quello di collegare questi aspetti frammentati del Sé, e di interpretare le ansie sottostanti connesse con la riappropriazione e l'integrazione delle disparate rappresentazioni di sé in un'unità coerente. Monitorare i sentimenti controtransferali. L'importanza di prestare una particolare attenzione al controtransfert era implicita in tutta questa discussione sulla psicoterapia dei pazienti borderline. Contenere le parti proiettate del paziente e riflettere sulla natura di queste proiezioni aiuterà il terapeuta a comprendere il mondo interno del paziente (Gabbard, Wilkinson, 1994). Inoltre, attraverso un continuo monitoraggio dei propri sentimenti è possibile prevenire agiti controtransferali. Ciascun terapeuta ha dei limiti personali rispetto a quanto astio o rabbia è in grado di tollerare. Se il terapeuta controlla costantemente i suoi sentimenti controtransferali, questo limite può essere gestito costruttivamente piuttosto che distruttivamente. Ad esempio, un terapeuta potrebbe utilizzare in senso terapeutico i sentimenti controtransferali dicendo al paziente: "Sento che lei sta cercando di farmi arrabbiare invece di permettermi di aiutarla. Vediamo se riusciamo a capire che cosa sta succedendo". Alternativamente, il terapeuta può decidere di porre dei limiti alle barriere verbali del paziente basate su reazioni controtransferali, dicendo qualcosa come: "Veramente sento di non poter lavorare in modo produttivo se lei continua a urlare contro di me. Penso sia importante per lei cercare di controllare la sua rabbia, così che possa esprimerla senza gridare". I terapeuti devono essere franchi e spontanei con i pazienti borderline, o finiranno solo per incrementare l'invidia che i pazienti nutrono verso di loro, visti come divinità sostanzialmente non umane (Searles, 1986). 454-67 Il trattamento ospedaliero è un momento essenziale nel lavoro con i pazienti borderline. Esteriorizzando nell'ambiente ospedaliero il loro caos interiore, i pazienti borderline possono minare la compattezza dello staff curante. Alcuni diventano pazienti "speciali", che creano seri problemi controtransferali correlati alla scissione e all'identificazione proiettiva (Burnham, 1966; Gabbard, 1986; Maín, 1957). Altri sono particolarmente colmi di odio e attaccano con intenso livore tutti coloro che cercano di aiutarli (Gabbard, 1989b), generando nei membri dello staff terapeutico una sensazione di inutilità. Altri ancora possono presentare un'opposizione passiva e rifiutarsi di partecipare a ogni aspetto del programma terapeutico (Gabbard, 1989a). Sebbene questi pazienti possano sembrare refrattari alla terapia, alcuni possono alla fine essere curati attraverso un'attenzione meticolosa alle loro dinamiche individuali e al controtransfert dello staff terapeutico. Alcuni clinici pensano che per i pazienti borderline non si dovrebbe ricorrere a ricoveri ospedalieri perché l'ospedalizzazione induce regressione e dipendenza. Questa convinzione non è sostenuta da alcun dato rigoroso e convincente; in compenso, almeno uno studio controllato ha dimostrato che il trattamento ospedaliero può rivelarsi molto utile per, pazienti con gravi disturbi di personalità. Il paziente che richiede una breve ospedalizzazione nel corso di una psicoterapia si trova di solito in una crisi che comporta una regressione psicotica, un comportamento autodistruttivo o un tentativo di suicidio. I terapeuti del reparto devono riuscire a comunicare a tali pazienti che essi sono in grado di controllare i loro impulsi, nonostante affermino il contrario. Sebbene forme di controllo esterne, come misure di sorveglianza e farmaci antipsicotici, possano rendersi talora necessarie, l'accento deve essere posto sul fatto di aiutare questi pazienti ad assumersi la responsabilità del proprio autocontrollo. L'Io indebolito del paziente può essere sostenuto da un piano terapeutico solido e coerente caratterizzato da una precisa programmazione, dalla chiara esplicitazione delle conseguenze degli agiti impulsivi e da regolari incontri individuali e di gruppo con i membri dello staff e con gli altri pazienti. Normalmente il paziente borderline appena ricoverato si aspetta che i componenti del personale infermieristico siano a sua disposizione per interminabili colloqui individuali. Se gli infermieri si prestano a gratificare tali richieste, classicamente il paziente peggiora in maniera direttamente proporzionale alla durata di queste sedute di "terapia" individuale. I pazienti borderline in genere rispondono molto meglio al trattamento quando il personale infermieristico è in grado di organizzare brevi incontri programmati che non devono superare i cinque-dieci minuti. 1 membri del personale del reparto e la stessa struttura ospedaliera funzionano come lo ausiliari per i pazienti borderline. Piuttosto che impegnarsi in un lavoro di esplorazione o di interpretazione, l'unità operativa può aiutare i pazienti a identificare gli eventi che scatenano le loro crisi, a procrastinare la scarica degli impulsi cercando delle alternative, ad anticipare le conseguenze delle loro azioni, e a chiarire le loro relazioni oggettuali interne (come descritto nel cap. 6). Un'altra funzione dell'ospedalizzazione breve è quella di consentire una comprensione più precisa del mondo interno del paziente. Infine, il personale del reparto può spesso aiutare lo psicoterapeuta a capire la natura di una crisi o di un'impasse verificatesi nel corso della psicoterapia. Oltre ad affrontare ogni processo di scissione (vedi cap. 6), lo staff del reparto può aiutare il terapeuta convalidando la sua competenza e il suo valore come clinico (Adler, 1984). All'interno dello staff del reparto deve anche esistere un'efficace comunicazione reciproca. Tutto ciò che il paziente dice a un singolo membro dell'équipe terapeutica deve essere condiviso con gli altri durante le riunioni di reparto. Inoltre, clinici e infermieri devono essere capaci di dire ripetutamente "no" al paziente in maniera ferma ma con tatto, dimostrando il proprio interesse nei suoi confronti. In caso contrario, il paziente può non essere in grado di integrare il fatto che le figure "buone" che si prendono cura di lui sono le stesse che gli impongono misure restrittive (interventi "cattivi"). Questa integrazione di rappresentazioni interne del Sé e dell'oggetto è un altro scopo primario del trattamento ospedaliero a lungo termine. Le restrizioni prescritte a un paziente devono sempre basarsi su una comprensione empatica del bisogno di quel dato paziente di limiti imposti all'esterno, piuttosto che su un tentativo in qualche modo sadico di controllarlo, che rappresenta di fatto il modo in cui il paziente vive di solito queste restrizioni. Il comportamento suicidario e automutilante è spesso un problema significativo nell'ospedalizzazione a lungo termine; con simili comportamenti i pazienti borderline tentano di controllare l'intero personale terapeutico, esattamente come hanno fatto al di fuori dell'ospedale le loro famiglie e le persone care. I membri del personale devono ricordare che ciascun paziente è in ultima analisi responsabile del controllo di tali comportamenti e che realisticamente nessuno può evitare che un paziente commetta un suicidio. I pazienti borderline spesso si infliggono tagli superficiali con graffette, lattine di bibite, lampadine e altri oggetti che sono di solito reperibili anche in ospedale. Anche se il danno reale causato da queste ferite superficiali può essere minimo, i membri dello staff terapeutico dovrebbero esaminare attentamente le origini di un tale comportamento automutilante. È correlato a episodi di depersonalizzazione o di dissociazione? È presente una storia di abuso sessuale infantile? È opportuno che il paziente si sottoponga a una terapia con fluoxetina? Il comportamento è di tipo essenzialmente manipolatorio, teso a ottenere attenzione da parte dei membri del personale del reparto? Il paziente borderline con croniche tendenze al suicidio può suscitare intensi sentimenti controtransferali tra i membri dello staff, che percepiscono l'aspetto manipolatorio di tali tentativi e di tali atti e che pertanto possono reagire alle minacce di suicidio del paziente con una preoccupazione sempre minore. Il personale ospedaliero deve tenere a mente che persone che hanno già tentato il suicidio sono 140 volte più a rischio di commettere suicidio rispetto a individui che non lo hanno mai tentato (Tuckman, Youngman, 1963), e che all'incirca il 10-20 per cento di tutti coloro che tentano il suicidio di fatto finisce per uccidersi. 470-2 Le modifiche terapeutiche del mondo oggettuale interno del paziente borderline richiedono in genere un processo psicoterapico intensivo individuale. Lavorare con la famiglia è comunque spesso un essenziale complemento nell'ambito dell'intero piano di trattamento. L'uso formalizzato della terapia della famiglia è di gran lunga meno comune rispetto a uno o più interventi sulla famiglia nel corso del trattamento (Brown, 1987). Il trattamento ospedaliero, ad esempio, fornisce ai clinici l'opportunità di incontrarsi con la famiglia del paziente e di comprendere in che misura le interazioni familiari si sovrappongano o contrastino con la riproposizione del mondo interno del paziente nell'ambiente ospedaliero per mezzo della scissione e dell'identificazione proiettiva (vedi cap. 6). Nella psicoterapia ambulatoriale, il processo individuale può essere minato da operazioni controterapeutiche da parte di familiari che si sentono minacciati da ogni cambiamento nelle condizioni del paziente. Interventi sulla famiglia o, nei casi gravi, una terapia della famiglia, possono dunque essere necessari per un trattamento individuale di successo. Il primo passo in un intervento sulla famiglia è quello di individuare il ruolo giocato dalle interazioni familiari nella patogenesi e nel mantenimento della sintomatologia del paziente borderline. Come descritto nel capitolo 5, la scissione e l'identificazione proiettiva sono meccanismi estremamente comuni che servono a mantenere una omeostasi patologica nel sistema familiare. Ad esempio, un genitore può sbarazzarsi delle cattive rappresentazioni del Sé e dell'oggetto e proiettarle in un figlio giovane o adolescente, che in seguito si identifica con queste proiezioni divenendo il membro portatore di sintomi della famiglia. ricerche empiriche indicano che i genitori dei pazienti borderline sono più spesso noncuranti che ipercoinvolti. I genitori negligenti di questi pazienti tendono à essere essi stessi bisognosi di supporto e pertanto spesso non sono in grado di fornire ai loro figli una guida sotto forma di regole o di "struttura". Nelle famiglie in cui 1'ipercoinvolgimento è un pattern dominante, gli interventi devono rispettare il bisogno che ciascun membro della famiglia ha degli altri. Gli stessi genitori possono essere affetti da una psicopatologia borderline e possono essere terribilmente spaventati dalla prospettiva di "perdere" il figlio borderline nel corso del trattamento. I clinici devono tenere in seria considerazione la possibilità che un miglioramento significativo nel paziente provochi un grave scompenso in un genitore, che si ritroverà nel panico dopo aver percepito la separazione (Brown, 1987). In simili circostanze il terapeuta dovrebbe aiutare la famiglia a elaborare i dilemmi generati dai cambiamenti che si sono verificati nel paziente e nell'intero sistema familiare. Un altro principio cruciale nel lavoro con le famiglie dei pazienti con BPD è quello di evitare di colludere con la denigrazione del paziente nei confronti dei genitori, come se il racconto di ogni efferatezza fosse completamente affidabile. Anche la psicoterapia di gruppo può essere un utile complemento alla psicoterapia individuale dei pazienti borderline. Come hanno notato Ganzarain (1980) e Horwitz (1977), tutti i gruppi tendono a impiegare le difese borderline della scissione e dell'identificazione proiettiva. La psicoterapia di gruppo offre all'individuo borderline l'opportunità di comprendere queste difese nel loro accadere nell'ambito del contesto gruppale. i pazienti borderline in psicoterapia di gruppo hanno bisogno di una concomitante psicoterapia individuale (Day, Semrad, 1971; Horwitz, 1977; Hulse, 1958; Slavson, 1964; Spotnitz, 1957). La diluizione del transfert nella psicoterapia di gruppo ha effetti positivi significativi sia per il paziente borderline sia per il terapeuta. La rabbia intensa che viene di solito mobilizzata nei pazienti borderline quando sono frustrati nel corso del trattamento può essere così diluita e diretta verso altre figure oltre che sul terapeuta individuale. Similmente le intense reazioni controtransferali nei confronti dei pazienti borderline possono venire smorzate dalla presenza di altre persone. Horwitz (1977) ha fatto notare che gli psicoterapeuti individuali possono fornire un'importante funzione supportiva quando l'ansia del paziente borderline si intensifica in risposta al confronto a cui il paziente è sottoposto nel setting di gruppo. Il terapeuta individuale e il terapeuta di gruppo dovrebbero essere in teoria persone diverse i pazienti borderline sembrano accettare più volentieri il confronto e l'interpretazione su tali tratti dai loro compagni del gruppo psicoterapeutico piuttosto che dal terapeuta. Possono anche accettare più facilmente le interpretazioni del loro terapeuta quando sono parte di un tema centrato sul gruppo, rispetto ad analoghe interpretazioni proposte in un contesto individuale. Nonostante i vantaggi del lavoro in un contesto di gruppo, i terapeuti incontreranno alcune difficoltà specifiche nella psicoterapia di gruppo dei pazienti borderline. Tali pazienti possono facilmente diventare capri espiatori a causa della loro psicopatologia più primitiva e per la loro maggiore tendenza a esprimere affetti in maniera diretta. Quando si verificano simili situazioni può essere necessario che il terapeuta supporti il paziente borderline. Inoltre, i sentimenti di privazione dei pazienti borderline possono intensificarsi a causa della competizione con il gruppo per le attenzioni del terapeuta. Infine, i pazienti borderline tendono a mantenere una certa distanza nella psicoterapia di gruppo a causa del loro attaccamento primario al terapeuta individuale. 474-6 Il paziente narcisista Una certa quantità di amor proprio è non solo normale ma anche auspicabile. Il punto lungo il continuum del rispetto di sé dove il narcisismo sano si tramuta in narcisismo patologico non è però così facile da identificare. Un'altra fonte di confusione è il fatto che certi comportamenti possono essere patologicamente narcisistici in un individuo mentre in un altro sono semplicemente una manifestazione di una sana autostima. Immaginiamo, ad esempio, un ragazzo di quindici anni che si pone di fronte allo specchio asciugandosi i capelli per quarantacinque minuti per essere sicuro di avere ogni capello perfettamente a posto. La maggior parte di noi osservando questa immagine sorriderebbe, e concluderebbe che una vanità di questo genere è del tutto normale per un giovane adolescente. Pensiamo ora a un uomo di trent'anni che passa la stessa quantità di tempo ogni mattina di fronte allo specchio con un asciugacapelli. Il quadro è un po' più sconcertante, poiché un assorbimento su di sé di tal genere non è normale per un uomo di questa età. Una tragedia che affligge queste persone é la loro incapacità di amare. Nelle relazioni interpersonali sane si possono individuare alcuni tratti fondamentali, come l'empatia e la preoccupazione per i sentimenti dell'altro, un genuino interesse per le idee altrui, la capacità di tollerare l'ambivalenza nelle relazioni di lunga durata senza pervenire a una rinuncia, e la capacità di riconoscere il proprio contributo nei conflitti interpersonalí. Gli individui che hanno relazioni interpersonali caratterizzate da queste qualità possono servirsi a volte degli altri per gratificare i propri bisogni, ma ciò si verifica in un più ampio contesto di rapporti connotati da sensibilità e interesse nei confronti delle altre persone, e non rappresenta uno stile pervasivo di porsi in relazione con gli altri. Al contrario, l'individuo con un disturbo narcisistico di personalità si accosta agli altri trattandoli come oggetti da usare e abbandonare secondo i suoi bisogni, incurante dei loro sentimenti. Gli altri non sono vissuti come persone che hanno un'esistenza separata o esigenze specifiche. Il soggetto con disturbo narcisistico di personalità spesso interrompe una relazione dopo un breve periodo di tempo, di solito quando l'altro incomincia a porre richieste relative ai suoi bisogni. 483-5 Le descrizioni dei pazienti narcisisti presentate dai vari autori possono essere concettualizzate inscrivendole tra i due poli di un continuum basato su un tipico stile di relazioni interpersonali. Da un punto di vista descrittivo, i due estremi opposti di questo continuum possono essere definiti come "narcisista inconsapevole" e "narcisista ipervigile". I tipi inconsapevoli sembrano non avere alcun tipo di consapevolezza del loro impatto sugli altri. Parlano come se si rivolgessero a un vasto pubblico, stabilendo raramente un contatto visivo e guardando di solito oltre le teste di quelli che stanno attorno a loro. Parlano "al cospetto" degli altri, non "con" gli altri. Sono ignari del fatto che sono noiosi e che di conseguenza alcuni abbandoneranno la conversazione per cercare compagnia altrove. Mostrano un evidente bisogno di essere al centro dell'attenzione, e i loro discorsi sono ricchi di riferimenti ai loro successi. Sono insensibili ai bisogni delle altre persone, fino al punto di non permettere che altri contribuiscano alla conversazione. Vengono spesso percepiti come se "avessero un trasmettitore ma non un ricevitore". Il tipo inconsapevole di disturbo narcisistico di personalità in generale corrisponde al quadro clinico descritto dai criteri del DSM 4. Gli aspetti narcisistíci del tipo ipervigile, d'altra parte, si manifestano con modalità del tutto differenti. Questi individui sono estremamente sensibili al modo in cui gli altri reagiscono nei loro confronti. La loro attenzione è quindi costantemente diretta verso gli altri, contrariamente alla concentrazione su di sé del narcisista inconsapevole. Come il paziente paranoide, ascoltano gli altri attentamente alla ricerca della pur minima reazione critica, e tendono a sentirsi offesi di continuo. Questi pazienti sono timidi e inibiti al punto da farsi piccoli piccoli. Evitano di mettersi in luce perché sono convinti che saranno rifiutati e umiliati. Nel nucleo del loro mondo interno vi è un profondo senso di vergogna connesso al loro segreto desiderio di esibirsi con modalità grandiose. Nella psicopatologia degli individui con narcisismo patologico hanno un ruolo centrale i, sentimenti di umiliazione e di penosa esposizione che derivano dal confronto con i limiti delle proprie capacità o dal riconoscimento di bisogni non soddisfatti, e molte delle difese che tali individui sviluppano sono dirette a evitare una consapevolezza dei sentimenti associati a queste esperienze. Sebbene entrambi i tipi lottino per mantenere la loro stima di sé, le modalità con cui si confrontano con questo problema sono estremamente diverse. Il narcisista inconsapevole tenta di impressionare gli altri con le sue qualità e di preservarsi nel contempo dalla ferita narcisistica eludendo le loro risposte. Il narcisista ipervigile tenta di mantenere la sua stima di sé evitando le situazioni di vulnerabilità e studiando attentamente gli altri per "apparire" come si deve. 486-8 Kohut (1971, 1977, 1984) credeva che gli individui narcisisticamente disturbati si fossero arrestati da un punto di vista evolutivo a uno stadio in cui hanno bisogno di specifiche risposte dalle persone del loro ambiente per mantenere un Sé coeso. In mancanza di tali risposte, questi individui tendono alla frammentazione del Sé. Kohut spiegava questo stato di cose come il risultato di fallimenti empatici dei genitori. In particolare i genitori non avevano risposto alle manifestazioni di esibizionismo del bambino, adeguate rispetto alla sua fase di sviluppo, con validazione e ammirazione, non avevano offerto esperienze gemellari, e non avevano fornito al bambino un modello degno di idealizzazione. Queste carenze si manifestano nella tendenza del paziente a formare un transfert speculare, gemellare o idealizzante. Secondo Kohut, lungo il corso della nostra vita noi abbiamo bisogno di risposte di tipo oggetto-Sé da parte di coloro che ci circondano. In altre parole, a un certo livello noi tutti trattiamo gli altri non come individui separati ma come fonti di gratificazione per il Sé. Il bisogno delle funzioni confortanti, validanti degli oggetti-Sé non si esaurisce mai. Il fine del trattamento è aiutare il paziente a superare il bisogno di oggetti-Sé arcaici e ad acquisire la capacità di usare oggetti-Sé più maturi e appropriati. Kernberg distingueva il disturbo narcisistico di personalità dalla personalità borderline sulla base del Sé grandioso del narcisista, integrato ma patologico. I pazienti con disturbo narcisistico di personalità si identificano nelle loro idealizzate immagini di sé al fine di denegare la loro dipendenza dagli oggetti esterni (altre persone) e dalle immagini interne di questi oggetti. Nello stesso tempo, essi negano gli aspetti inaccettabili delle proprie immagini di sé proiettandoli negli altri. mentre i pazienti borderline tendono ad avere rappresentazioni di sé alterne, che li fanno apparire diversi di giorno in giorno, i pazienti narcisisti hanno un livello di funzionamento più regolare e coerente fondato su un Sé patologico integrato. Kohut concettualizzò il Sé narcisistico come un "normale" Sé arcaico che è semplicemente stato congelato nel suo sviluppo. In altre parole, considerava l'individuo narcisista come un bambino nel corpo di un adulto. Al contrario, Kernberg (1974a, b) vedeva il Sé di questi pazienti come una struttura altamente patologica e priva di somiglianza con il normale sviluppo del Sé del bambino. Sottolineò che l'espressione esibizionistica del bambino è affascinante e tenera, e non ha niente a che fare con l'avidità e le pretese del Sé patologico del narcisista. Un'altra differenza nella loro concezione del Sé si riferisce alla sua funzione difensiva. Kohut considerava il Sé narcisista sostanzialmente non difensivo (cioè un Sé che viene semplicemente bloccato nel corso del suo normale sviluppo). Kernberg considerava invece il Sé patologicamente grandioso come una difesa contro l'investimento negli altri, e in particolare contro la dipendenza dagli altri. Questa caratteristica può manifestarsi come una pseudoautosufficienza, attraverso la quale il paziente nega qualsiasi bisogno di accadimento e contemporaneamente tenta di impressionare gli altri e di ottenerne l'approvazione. I pazienti narcisisti frequentemente sostengono, ad esempio, di non avere nessuna reazione in occasione delle vacanze dei loro terapeuti. Se il paziente è maschio, può presentare una sindrome da "Don Giovanni", per cui seduce sistematicamente le donne che incontra per poi scaricarle nel momento in cui l'idealizzazione nei loro confronti si traduce in svalutazione. Considerandole soltanto delle "conquiste", non ha nessuna capacità di empatizzare con la loro esperienza interna. Un paziente di questo tipo in genere dimostra uno scarso interesse per ciò che dicono gli altri, a meno che non si tratti di commenti lusinghieri. Sebbene questi pazienti siano molto più comunemente di sesso maschile, anche soggetti di sesso femminile possono soffrire di una simile patologia narcisistica. 489-94 Per Kohut l'empatia era il punto chiave della tecnica (Ornstein, 1974b, 1998). Il terapeuta deve empatizzare con il paziente per cercare di riattivare una fallita relazione genitoriale L'accento di Kohut sulla necessità di empatizzare con il paziente, come vittima delle deficienze empatiche di altri, non implica una tecnica prevalentemente supportiva. Egli ha sottolineato che l'analista o il terapeuta dovrebbero interpretare - invece di gratificare attivamente - il bisogno del paziente di essere confortato (Kohut, 1984). Un intervento tipico dovrebbe suonare così: "Il fatto di non essere trattati come sentiamo di meritare può essere doloroso". Kernberg riteneva che le persone con disturbo narcisistico di personalità fossero tra i pazienti più difficili da trattare in quanto gran parte dei loro sforzi mira a far fallire il terapeuta. Perché la terapia e il terapeuta risultino efficaci, questi pazienti devono confrontarsi con intensi sentimenti di invidia verso colui che ha qualità positive che a essi mancano. Il paziente usa difensivamente la svalutazione e il controllo onnipotente per tenere a distanza il terapeuta. Secondo Kernberg perché il trattamento possa continuare queste manovre difensive devono essere affrontate continuamente. In evidente contrasto con i genitori mancanti di empatia, alcuni genitori di pazienti narcisisti tendono a essere palesemente indulgenti, e sembrano incoraggiare la grandiosità attraverso un modello di eccessivo rispecchiamento. Esibiscono i loro figli con ammirazione e approvazione, facendoli sentire realmente speciali e particolarmente dotati. Quando questi bambini cresceranno, saranno ripetutamente sconvolti dal fatto che gli altri non sempre reagiscono come i loro genitori. In altri casi, l'incesto madre-figlio o le sue varianti possono causare un quadro narcisistico del tipo ipervigile (Gabbard, Twemlow, 1994). 495- 501 nel trattamento dei pazienti narcisisti sorgono prevedibili problemi controtransferali, Alcuni sono di tale grandezza e gravità da minare irrevocabilmente la situazione terapeutica. Il terapeuta coinvolto nel transfert idealizzante di un paziente narcisista può compiacersi di godere di un calore e di un amore così intenso da portarlo a colludere con il desiderio del paziente di escludere l'odio e la rabbia dalla terapia. Un'evoluzione frequente nel trattamento dei pazienti narcisisti è che essi inizialmente idealizzeranno il loro attuale terapeuta mentre svaluteranno tutti quelli che hanno precedentemente incontrato. Invece di considerare tale processo come una manovra difensiva, i terapeuti che desiderano essere idealizzati possono accettarlo semplicemente come espressione del fatto che essi possiedono pregi che questi colleghi non avevano. Le tematiche narcisistiche non sono di esclusiva pertinenza del disturbo narcisistico di personalità, ma sono presenti in tutti i pazienti e in tutti i terapeuti. I terapeuti che non possono riconoscere e accettare i propri bisogni narcisistici, e dunque utilizzarli per rendere il trattamento più efficace, possono invece disconoscerli ed esteriorizzarli. Queste difese contribuiscono alla creazione di una visione erronea del paziente, che viene considerato come l'unico membro della diade paziente-terapeuta che presenta segni di narcisismo. Un altro problema controtransferale che sorge regolarmente nel trattamento di pazienti narcisisti è la noia, legata di solito all'impressione che il paziente ignori la presenza del terapeuta o non ne sia consapevole. Il terapeuta può trovarsi a dover tollerare per lunghi periodi di tempo la sensazione di essere usato dal paziente come una cassa di risonanza. Questo pattern è particolarmente frequente con i pazienti inconsapevoli, che parlano come se fossero di fronte a un vasto pubblico, senza considerare il terapeuta come una persona separata con pensieri e sentimenti propri. Questi pazienti generano un forte odio controtransferale, che può indurre commenti vendicativi o decisioni sbagliate rispetto alla gestione del paziente, nel tentativo di rendergli la pariglia. Anche se come terapeuti siamo in grado di contenere una certa quota di maltrattamenti, tutti abbiamo un limite che soltanto noi possiamo determinare. Quando questa linea è superata, il terapeuta può trovarsi suo malgrado nella necessità di confrontarsi energicamente con il disprezzo del paziente sottolineando come tale barriera stia distruggendo la possibilità del paziente di fruire di un trattamento efficace. 501-4 La psicoterapia dinamica di gruppo per i disturbi narcisistici di personalità può essere molto difficile se costituisce l'unico trattamento (Azima, 1983; Horner, 1975; Wong, 1979, 1980; Yalom, 1985). I pazienti narcisisti inconsapevoli possono godere all'idea di avere un pubblico nella psicoterapia di gruppo, ma possono anche risentirsi per il fatto che gli altri assorbono parte del tempo e dell'attenzione del terapeuta. Il paziente narcisista ipervigile può invece sentirsi ferito anche solo di fronte alla proposta di una terapia di gruppo. Questo suggerimento viene visto come un rifiuto o come un segno del fatto che il terapeuta non prova interesse per lui. La maggior parte dei pazienti narcisisti considererà la psicoterapia di gruppo come una situazione in cui la loro eccezionalità e la loro unicità verrà trascurata. Quando entrano a far parte di una psicoterapia di gruppo, i pazienti narcisisti monopolizzano spesso le discussioni o assumono il ruolo di "assistente del medico" facendo osservazioni sui problemi degli altri ma negando i propri (Wong, 1979). Nonostante i problemi intrinseci del setting di gruppo per i pazienti narcisisti, questo approccio terapeutico presenta chiaramente alcuni vantaggi. In un gruppo, i pazienti narcisisti devono accettare il fatto che gli altri hanno dei bisogni e che non possono aspettarsi di essere costantemente al centro dell'attenzione. Possono inoltre beneficiare del feedback che i membri del gruppo forniscono relativamente all'impatto dei loro tratti di carattere sugli altri. la psicoterapia di gruppo può servire a diluire transfert intensamente negativi. Questo principio è certamente applicabile ai pazienti narcisisti, e gli altri membri del gruppo sono spesso d'aiuto nel sottolineare le distorsioni insite nella svalutazione o nell'idealizzazione del terapeuta. Nello stesso modo, anche le reazioni controtransferali che sono così problematiche nel trattamento dei pazienti narcisisti possono essere diluite nella terapia di gruppo (Wong, 1979). È comunque auspicabile avere soltanto un paziente narcisista per volta in un gruppo eterogeneo, considerato l'impatto travolgente che questi pazienti possono avere sugli altri. 504-5 I pazienti narcisisti giovani spesso si lamentano della qualità delle loro relazioni intime. Possono avere avuto ripetute infatuazioni che sono state brevi e insoddisfacenti. Dopo l'entusiasmo iniziale la relazione si consuma, l'idealizzazione del partner lascia spazio alla svalutazione o alla noia ed essi finiscono col mettersi alla ricerca di nuovi partner in grado di soddisfare i loro bisogni di ammirazione, affermazione, amore incondizionato e perfetta armonia. Questo modo di spremere gli altri per lasciarseli poi alle spalle svuotati con il passare del tempo può rivelarsi faticoso. Al di là dell'apparenza, spesso c'è il timore di essere svergognato e umiliato dal partner (per usare i termini della psicologia del Sé, la paura di una frammentazione del Sé). Un marito narcisista può, per esempio, accusare la moglie di tentare deliberatamente di umiliarlo, invece di ammettere di avere dei problemi dovuti al fatto di essere eccessivamente vulnerabile, dipendente e particolarmente bisognoso di risposte da oggetto-Sé, come il rispecchiamento, da parte della moglie. Questo stesso marito può arrivare alla fine a uno stato di rabbia narcisistica cronica, per cui mantiene verso la moglie un risentimento e un'amarezza inguaribili perché non si sente trattato nel modo che ritiene gli sia dovuto. Molti pazienti narcisisti non invecchiano bene. Le loro fantasie grandiose di una giovinezza e bellezza eterne sono fatte a pezzi dalle vicissitudini dell'invecchiamento. Per provare la loro giovinezza e il loro vigore, possono cercare freneticamente relazioni extraconiugali con partner la cui età sia la metà della loro Gran parte del piacere della media età e della vecchiaia è legato a soddisfazioni indirette derivate dai successi di persone più giovani, spesso dei propri figli (Kernberg, 1974b). Questi sentimenti possono portare per la prima volta in terapia i pazienti quando hanno già passato i quarant'anni. Di fronte alla sensazione di aver perso qualcosa e con il sentimento che la loro vita sia una corsa sbagliata, essi possono alla fine decidere di intraprendere una terapia. Si ritrovano spesso da soli, senza nessuna relazione che li sostenga e con la lacerante sensazione di non essere amati. I pazienti narcisisti costituiscono una grande sfida per i terapeuti. Kernberg (1974b) affermava che gli sforzi terapeutici sono in ogni caso giustificati, poiché, anche se coronati da un successo solo parziale, possono aiutare ad attenuare le sofferenze della seconda metà della vita. Se grazie alla terapia i pazienti narcisisti raggiungono un certo grado di empatia, riescono almeno in parte a sostituire la loro invidia con l'ammirazione e incominciano ad accettare gli altri come individui separati con i loro propri bisogni, allora potranno essere capaci di evitare che la loro vita si concluda in un'amara solitudine. 506-8 I tre disturbi di personalità classificati nel gruppo C del DSM-IV (American Psychiatric Association, 1994) - ossessivo-compulsivo, evitante e dipendente -sono raggruppati insieme perché le persone che soffrono di questi disturbi hanno generalmente in comune quale caratteristica preminente l'ansia o la paura. La distinzione tra disturbo (o nevrosi) ossessivo-compulsivo e disturbo ossessivo-compulsivo di personalità è basata sulla differenza tra sintomi e tratti di carattere duraturi. Come descritto nel capitolo 9, il paziente che soffre di disturbo ossessivo-compulsivo è tormentato da pensieri ricorrenti dal contenuto spiacevole ed è spinto a mettere in atto comportamentirituali. Queste manifestazioni sintomatiche sono egodistoniche, nel senso che il paziente le riconosce come problematiche e di solita desidera liberarsene. Al contrario, i tratti che costituiscono la diagnosi di disturbo ossessivo-compulsivo di personalità secondo il DSM-IV sono schemi di comportamento duraturi ed egosintonici. Tali tratti raramente causano disagio ai pazienti e possono anche essere considerati come altamente adattivi. In effetti, studi condotti su medici, per esempio, suggeriscono che certe caratteristiche di tipo ossessivo-compulsivo contribuiscono in maniera significativa al loro successo professionale (Gabbar d,1985 Krakowski, 1982; Vaillant et al., 1972). La rigorosa devozione al lavoro tipica del soggetto ossessivo-compulsivo permette di raggiungere un successo rilevante non solo nella medicina, ma anche in altre professioni in cui l'attenzione al dettaglio è essenziale. Tuttavia, la riuscita nella sfera lavorativa è spesso ottenuta a un prezzo elevato; i familiari e i partner spesso trovano difficile vivere con questi individui, e frequentemente li spingono a chiedere una consultazione psichiatrica. Sebbene le distinzioni tra il disturbo ossessivo-compulsivo e il disturbo ossessivocompulsivo di personalità tracciate nel DSM-4 siano chiare e utili, sul grado di sovrapposizione tra queste due entità diagnostiche esiste qualche controversia. Sintomi di tipo ossessivo-compulsivo sono stati riscontrati anche come eventi transitori nel corso di un trattamento psicoanalitico di pazienti con disturbo ossessivo-compulsivo di personalità (Munich, 1986). Tuttavia, studi empirici indicano che un'ampia gamma di disturbi di personalità può manifestarsi in pazienti con disturbo ossessivo compulsivo. Altre ricerche hanno rilevato che il disturbo ossessivo-compulsivo di personalità è significativamente più diffuso tra i pazienti con disturbo ossessivo-compulsivo rispetto a quelli con disturbo da attacchi di panico o con un disturbo depressivo maggiore (Diaferia et al., 1997), e che i sintomi ossessivi sono associati più frequentemente con tratti di disturbo ossessivo-compulsivo di personalità piuttosto che con tratti di altri disturbi di personalità (Rosen, Tallis, 1995). Nonostante l'incertezza rispetto alla possibile correlazione tra le due condizioni, il disturbo ossessivo-compulsivo di personalità e il disturbo ossessivo-compulsivo sono di solito presentati separatamente in quanto le implicazioni terapeutiche per i due disturbi sono decisamente diverse. 569-71 Gli individui con disturbo ossessivo-compulsivo di personalità soffrono di una notevole mancanza di fiducia in se stessi. Da bambini la loro esperienza è stata spesso quella di non essere sufficientemente valorizzati o amati dai genitori. In alcuni casi tale percezione può essere correlata a una reale distanza o freddezza delle figure genitoriali. mentre in altri questi bambini possono semplicemente aver richiesto rassicurazione e affetto in misura superiore alla norma per provare una sensazione di approvazione genitoriale. Il trattamento psicodinamico di questi pazienti rivela un forte ma inappagato desiderio nostalgico di dipendenza e una riserva di rabbia nei confronti dei genitori, colpevoli di non essere stati emotivamente più disponibili. Poiché i pazienti ossessivo-compulsivi trovano sia la rabbia che la dipendenza consciamente inaccettabili, si difendono da questi sentimenti con difese come formazione reattiva e isolamento dell'affetto. Nel tentativo di negare ogni forma di dipendenza, molti individui ossessivo-compulsivi affrontano grandi fatiche per dimostrare la loro completa autonomia e il loro "inflessibile individualismo". Allo stesso modo, si sforzano di acquisire un completo controllo su ogni forma di rabbia, e possono anche apparire accondiscendenti e ossequiosi per non dare l'impressione di nutrire sentimenti di rabbia. Le relazioni intime pongono un problema significativo al paziente ossessivo-compulsivo. L'intimità fa sorgere la possibilità di essere travolti da intensi desideri di essere amati, con il concomitante potenziale di frustrazione connesso a questi desideri, che può dare luogo a sentimenti di odio, risentimento e vendetta. Le sensazioni generate dalle relazioni di intimità sono minacciose perché possono "far perdere il controllo", una delle paure fondamentali dell'individuo ossessivo-compulsivo. Le persone più vicine frequentemente si lamentano del fatto che l'ossessivo-compulsivo esercita un controllo eccessivo. Tali relazioni vanno spesso incontro a situazioni di stallo o impasse, in quanto le persone ossessivo-compulsive si rifiutano di ammettere che qualcun altro potrebbe avere un modo migliore di fare le cose. Questo bisogno di controllare gli altri origina dalla sensazione fondamentale che le sorgenti esterne di affetto siano effimere e possano scomparire da un momento all'altro. Da qualche parte in ogni ossessivo compulsivo c'è un bambino che non si sente amato. La scarsa stima di sé connessa a questa sensazione infantile di non essere valorizzato induce questi individui a ritenere che gli altri preferirebbero non avere a che fare con loro. A questa paura di perdere gli altri possono inoltre contribuire l'alto livello di aggressività e gli intensi desideri distruttivi che sono in agguato nell'inconscio dell'ossessivo-compulsivo. Questi pazienti spesso temono che la loro distruttività possa allontanare gli altri o provocare una controaggressione, una proiezione della loro stessa rabbia. Nonostante i loro sforzi di essere rispettosi, premurosi e condiscendenti, la paura di poter allontanare gli altri spesso è giustificata. Il comportamento ossessivo-compulsivo tende a irritare e a esasperare coloro che vi vengono in contatto. La persona che manifesta tale comportamento può invece essere percepita in maniera molto diversa a seconda del rapporto di potere che caratterizza la relazione (Josephs, 1992). Ai subordinati gli individui con disturbo ossessivo-compulsivo di personalità appaiono come dominanti, ipercritici e controllanti, mentre ai loro superiori possono sembrare falsamente suadenti e ossequiosi. Paradossalmente, la vera approvazione e il vero amore che questi individui ricercano sono quindi messi a rischio dai loro stessi comportamenti, ed essi si sentono costantemente non apprezzati nonostante cerchino disperatamente di ottenere la tanto desiderata approvazione degli altri. Le persone ossessivo-compulsive sono anche caratterizzate da una ricerca della perfezione. Sembrano nutrire il segreto convincimento che se saranno in grado di raggiungere uno stato di perfezione trascendente, allora potranno finalmente ricevere dai genitori l'approvazione e la stima che non hanno avuto nell'infanzia. Questi bambini spesso crescono con la convinzione di non essersi sforzati e impegnati a sufficienza, e da adulti sentono cronicamente di "non fare abbastanza". Il genitore che sembra costantemente insoddisfatto è interiorizzato come un Super-io che si aspetta sempre di più dal paziente. Molti individui ossessivo-compulsivi diventano lavoro-dipendenti perché sono spinti inconsciamente dalla convinzione che l'amore e l'approvazione possono essere ottenuti solo attraverso i sforzi eroici tesi a raggiungere livelli straordinari nella sfera professionale. L'ironia in questa ricerca della perfezione, comunque, è che le persone ossessivo-compulsive raramente sembrano soddisfatte dei loro successi. gli individui ossessivo-compulsivi cercano di essere perfettamente razionali e logici in tutto ciò che fanno. Temono ogni situazione emotivamente non controllata, e la loro meccanica tendenza a essere totalmente privi di emozioni può spingere quelli che li circondano ad allontanarsi. Inoltre, il loro pensiero è logico soltanto entro certi ambiti ristretti, e i loro schemi di pensiero possono essere descritti come rigidi e dogmatici (Shapiro, 1965). Da un punto di vista dinamico, queste caratteristiche possono essere interpretate come compensatorie rispetto alla mancanza di fiducia in se stesso e all'ambivalenza che affliggono il soggetto ossessivo-compulsivo. In contrasto con lo stile cognitivo del paziente isterico, quello del paziente ossessivocompulsivo implica una estrema attenzione al dettaglio I soggetti ossessivo-compulsivi investono una enorme quantità di energia per mantenere i loro rigidi stili cognitivi e attentivi: assolutamente nulla di ciò che fanno è senza sforzo. Andare in vacanza, o semplicemente rilassarsi, sono attività che generalmente non esercitano alcuna attrattiva per il vero ossessivo-compulsivo. Sebbene molti di questi individui siano professionalmente affermati, alcuni si rendono conto che il loro stile caratteriale danneggia la loro capacità di raggiungere il successo nel lavoro. I soggetti ossessivo-compulsivo possono rimuginare all'infinito su piccole decisioni, esasperando coloro che li circondano. Spesso si perdono in dettagli perdendo di vista il loro obiettivo principale. La loro indecisione può essere dinamicamente correlata a profondi sentimenti di dubbio su se stessi. Possono sentire che il rischio di commettere un errore è così grande da precludere una decisione definitiva in un senso o nell'altro. Allo stesso modo, il timore che il risultato finale di un progetto possa non essere perfetto può contribuire alla loro indecisione. Molti soggetti ossessivo-compulsivo sono straordinariamente abili verbalmente ma incontrano notevoli difficoltà psicologiche nello scrivere a causa di questa paura. Questi pazienti sono sempre spinti da supervisori interni che ordinano in merito a ciò che essi "dovrebbero" o "devono" fare. Da un punto di vista dinamico, hanno una scarsa autonomia rispetto alle ingiunzioni del loro Super-io. Si comportano così come fanno perché devono, senza alcun riguardo al modo in cui il loro comportamento si ripercuote sugli altri. Il Super-io ipertrofico del paziente ossessivo-compulsivo è rigido nelle sue richieste di perfezione. Quando queste richieste non sono soddisfatte per un lungo periodo di tempo, può emergere una depressione. Questo nesso psicodinamico tra carattere ossessivocompulsivo e depressione è stato osservato dai clinici già da molti anni. Il soggetto ossessivo-compulsivo può essere ad alto rischio di depressione verso la mezza età, quando i sogni idealistici della giovinezza sono stati infranti dalla realtà del tempo che fugge. A questo punto del loro ciclo vitale tali pazienti possono diventare potenziali suicidi e avere bisogno di un ricovero, nonostante una lunga storia di funzionamento ragionevolmente buono nel contesto lavorativo. I pazienti con un disturbo ossessivo-compulsivo di personalità hanno frequentemente la sensazione di non essere apprezzati e di conseguenza si sentono feriti e arrabbiati. La mancanza di approvazione li porta a torturarsi e a dubitare di se stessi. Tale insicurezza deve essere tenuta nascosta ai superiori, poiché gli individui con un disturbo ossessivo compulsivo di personalità temono l'umiliazione e la vergogna associate al fatto che altri riconoscano questa loro scarsa fiducia in se stessi. Sono spesso convinti che gli altri li vedranno come deboli e lamentosi. Accanto a questo aspetto del senso di sé privato esiste la ferma convinzione della propria superiorità morale rispetto a coloro che ricoprono una posizione subalterna. 571-5 In contrasto con la natura refrattaria del disturbo ossessivo-compulsivo, il disturbo di personalità ossessivo-compulsivo migliora spesso notevolmente con la psicoanalisi o la psicoterapia individuale a enfasi espressiva. tali miglioramenti sono a largo raggio, e riguardano sia i sintomi del disturbo di personalità sia ansia, depressione, problemi interpersonali e funzionamento in generale. Per i pazienti con disturbo ossessivo-compulsivo di personalità può dimostrarsi efficace anche una psicoterapia dinamica di gruppo. Nella psicoterapia individuale e in quella di gruppo i problemi terapeutici che possono insorgere sono comunque analoghi, e richiedono approcci simili. Per cercare di gestire la sensazione di essere minacciato, l'individuo ossessivo-compulsivo può svalutare tutti gli insight del terapeuta definendoli come "niente di nuovo". I pazienti possono essere inizialmente riluttanti ad ammettere che il terapeuta stia dicendo qualcosa di cui non sono consapevoli (Salzman, 1980). Questa resistenza può essere compresa come una delle tipiche operazioni difensive che si manifestano nel processo psicoterapeutico. Tali difese includono isolamento dell'affetto, intellettualizzazione, annullamento retroattivo, formazione reattiva e spostamento. L'isolamento dell'affetto può presentarsi come una mancanza di consapevolezza rispetto a qualsiasi sentimento provato nei confronti del terapeuta, in particolare per quanto riguarda rabbia e senso di dipendenza. Il paziente può parlare a lungo di fatti relativi a situazioni passate e presenti senza manifestare alcuna apparente reazione emotiva a questi eventi. Gli ossessivo-compulsivi rispondono alla minaccia costituita da un intenso affetto anche attraverso la loro tortuosità ossessiva, che funge da cortina di fumo per mascherare i loro veri sentimenti, o più precisamente da nube anestetizzante che induce negli altri il sonno. Mentre il paziente divaga allontanandosi sempre di più dall'argomento originale, il terapeuta può perdere il filo che lega le associazioni del paziente e incominciare a "spegnere i collegamenti" con la persona che ha di fronte. Nel corso di una psicoterapia lo schema tortuoso del discorso tipico del soggetto ossessivocompulsivo si concretizza nel cancellare di frequente i pensieri o i desideri che sono stati appena verbalizzati. Inoltre, una iperinclusività del pensiero induce il paziente a raccontare eventi secondari che portano il discorso sempre più lontano dal tema principale della seduta. Molti pazienti ossessivo-compulsivi tenteranno di diventare "pazienti perfetti". Possono tentare di riprodurre esattamente ciò che pensano il terapeuta voglia ascoltare, con la fantasia inconscia di riuscire a ottenere finalmente l'amore e la stima che sentono di non avere avuto da bambini. Poiché sono certi che ogni espressione di rabbia provocherà una disapprovazione, possono consciamente non provare alcun sentimento di rabbia mentre inconsciamente la esprimono monopolizzando completamente la seduta. Altri pazienti ossessivo-compulsivi manifesteranno invece la loro resistenza ricreando nella relazione di transfert con il terapeuta la lotta di potere con i genitori. Una strategia efficace nel trattamento psicoterapeutico dei pazienti con struttura di carattere ossessivo-compulsivo è quella di superare la fumosa difesa delle parole per cercare di accedere direttamente ai sentimenti, Il processo terapeutico sarà spesso ostacolato dalla ricerca di fatti da parte del paziente, che in questo modo tenta di evitare i sentimenti Quando il paziente rimugina continuamente su dettagli apparentemente irrilevanti, il terapeuta può interrompere tali elucubrazioni e riportare il paziente al tema centrale o all'argomento con cui aveva iniziato la seduta. La psicoterapia di gruppo è spesso molto efficace per affrontare questo tipo di problemi, perché il paziente può accettare simili feedback da altri componenti del gruppo senza che vengano evocati i conflitti di potere che accompagnano gli interventi del terapeuta. questi pazienti devono accettare la loro umanità, e il fatto che i loro tentativi di ignorare i sentimenti di rabbia, odio, piacere, dipendenza e così via sono destinati a fallire. Devono essere integrati come parte dell'esperienza di sé dell'individuo piuttosto che essere repressi, negati, rimossi o disconosciuti come appartenenti a qualcun altro. Il terapeuta può periodicamente ricorrere a interventi di confronto sulle aspettative irrealistiche che questi pazienti spesso nutrono riguardo a se stessi. Quando i pazienti ossessivo-compulsivi riescono finalmente a provare e a esprimere una rabbia non mascherata nei confronti del terapeuta, imparano che essa è molto meno distruttiva di quanto pensassero. Il terapeuta è una figura coerente e stabile, presente settimana dopo settimana e chiaramente non danneggiata dalle loro espressioni di rabbia. Nello stesso tempo i pazienti scoprono che la loro rabbia non li trasforma necessariamente in mostri distruttivi. I pazienti con un disturbo ossessivo-compulsivo di personalità tendono a essere tormentati da "pensieri criminosi". Nel loro inconscio c'è poca differenza tra un pensiero rabbioso e dare un pugno sul naso a qualcuno. I pazienti con un disturbo ossessivo-compulsivo di personalità tendono a essere tormentati da "pensieri criminosi". Nel loro inconscio c'è poca differenza tra un pensiero rabbioso e dare un pugno sul naso a qualcuno. Cercare di modificare il Super-io del paziente nel corso di una terapia dinamica o di una psicoanalisi significa almeno in parte aiutarlo a capire che gli impulsi, i sentimenti o i pensieri aggressivi semplicemente non sono equivalenti alle azioni. Il paziente alla fine apprende che pensieri e sentimenti non sono soggetti agli stessi principi morali dei comportamenti distruttivi. Inoltre, l'accettazione della propria vita interiore riduce anche l'ansia. Per il paziente ossessivo-compulsivo i sentimenti sessuali sono spesso altrettanto inaccettabili dei sentimenti di rabbia o di dipendenza. Evitando di assumere una posizione giudicante il terapeuta permette al paziente di capire finalmente che tali proibizioni sono interne, non esterne. Interventi che riconoscono la paura di questi pazienti rispetto alla possibilità che gli altri scoprano i loro impulsi sadici, i loro desideri di sottomissione e la loro insicurezza pervasiva possono contribuire a creare un ambiente accogliente in cui gli aspetti più oscuri della psiche possono essere esplorati. 576-83 Questo controverso disturbo è stato proposto per caratterizzare un gruppo di individui con ritiro sociale distinti dai pazienti schizoidi. il paziente evitante, diversamente dal paziente schizoide, desidera delle strette relazioni interpersonali ma ne è anche spaventato. Questi individui evitano i rapporti e le occasioni sociali poiché temono l'umiliazione connessa con il fallimento e il dolore connesso con il rifiuto. Il loro desiderio di relazioni può non essere immediatamente evidente a causa del loro modo di presentarsi timido e schivo. Il disturbo evitante di personalità viene quindi caratterizzato come una nevrosi del carattere in contrasto con il disturbo schízoide di personalità che riflette un'organizzazione più primitiva, organizzazione che alcuni autori considerano all'interno dello spettro borderline. Il disturbo raramente costituisce la principale o l'unica diagnosi nella pratica clinica (Gunderson, 1988). Più spesso si tratta di una diagnosi che viene posta insieme a quella di un altro disturbo di personalità o a una diagnosi sull'asse 1. 583-4 Il trattamento psicoterapeutico e psicoanalitico di pazienti con tali preoccupazioni spesso tuttavia identifica la vergogna come un'esperienza affettiva centrale. Vergogna ed espressione del Sé sono intimamente connesse. In generale ciò che i pazienti evitanti temono è ogni situazione in cui si trovano costretti a rivelare aspetti di sé che li rendono vulnerabili. Mentre la colpa implica la paura di essere puniti per avere violato alcune regole interne, la vergogna è più strettamente correlata a una valutazione del Sé come in qualche modo inadeguato, non corrispondente a uno standard interno. Gli individui affetti da questo disturbo possono sentire che le situazioni sociali devono essere evitate perché fanno in modo che le loro inadeguatezze siano esposte alla vista di tutti. Possono vergognarsi di molti e diversi aspetti del Sé; ad esempio, possono percepire se stessi come deboli, incapaci di competere, fisicamente o mentalmente inadeguati, disordinati, disgustosi, incapaci di controllare le funzioni corporee o esibizionisti (Wurmser, 1981). Il termine vergogna deriva etimologicamente dal verbo "nascondere" (Nathanson, 1987), e il paziente evitante spesso si ritira dalle relazioni interpersonali e dalle situazioni sociali a causa del desiderio di "nascondersi" dall'affetto molto sgradevole della vergogna. La vergogna non può essere riduzionisticamente connessa a un momento evolutivo della vita del bambino, ma sembra invece derivare da molte differenti esperienze evolutive in varie età. La teoria dell'attaccamento può contribuire in maniera significativa alla nostra comprensione dei pazienti evitanti. Gli individui con uno stile di attaccamento evitante di solito da bambini si sono sentiti rifiutati dai genitori o da coloro che dovevano prendersi cura di loro, e pertanto in età adulta hanno paura di sviluppare relazioni d'amore (Connors, 1997). Hanno spesso la sensazione che i loro bisogni evolutivi fossero eccessivi o inappropriati, e soffrono per la mancanza di adeguate risposte da parte dell'oggetto-Sé (Miliora, 1998). 585-6 Questi individui non sono capaci di prendere decisioni da soli, sono insolitamente sottomessi, hanno sempre bisogno di rassicurazioni e non sono in grado di funzionare in maniera soddisfacente se qualcun altro non si prende cura di loro. La diagnosi di disturbo dipendente di personalità, come quella di disturbo evitante di personalità, viene raramente posta come diagnosi principale o esclusiva. Vari studi hanno dimostrato l'esistenza di alte percentuali di comorbilità per i pazienti che soffrono di questo disturbo. Tra le condizioni déll'asse 1 frequentemente associate con il disturbo dipendente di personalità vi sono depressione maggiore, disturbo bipolare, alcuni disturbi d'ansia e disturbi dell'alimentazione. I pazienti borderline reagiscono all'abbandono con rabbia e manipolazione, mentre quelli dipendenti diventano sottomessi e adesivi (Hirschfeld et al., 1991). Inoltre, l'intensità e l'instabilità che caratterizzano le relazioni del paziente borderline non si riscontrano nelle relazioni degli individui con disturbo dipendente di personalità. 589-90 Uno studio empirico (Head et al., 1991) ha riscontrato che le famiglie di individui con disturbo dipendente di personalità erano caratterizzate da una ridotta espressività e da un elevato controllo, contrariamente alle famiglie in un gruppo clinico di controllo e in un gruppo normale di controllo. Un altro studio sull'ambiente familiare precoce (Baker et al., 1996) ha rilevato che le famiglie di pazienti con un disturbo dipendente di personalità offrivano una scarsa indipendenza e un elevato controllo. Un attaccamento insicuro è un segno caratteristico del disturbo dipendente di personalità, e studi condotti su individui affetti da tale disturbo (West et al., 1994) hanno riscontrato in questi pazienti un pattern di attaccamento invischiato. Molti pazienti sono cresciuti con genitori che in un modo o nell'altro hanno comunicato che l'indipendenza era piena di pericoli. Possono essere stati sottilmente spinti a mantenersi legati ai loro genitori, che sembravano rifiutarli in risposta a tutti i loro tentativi di raggiungere una maggiore autonomia. La motivazione principale dei pazienti con disturbo dipendente di personalità è quella di ottenere e mantenere relazioni rassicuranti e supportive. Per raggiungere tale obiettivo possono impegnarsi in comportamenti attivi e assertivi che risultano del tutto adattivi. il paziente dipendente cerca persone che si prendano cura di lui a causa di ansie più profonde. L’aggrapparsi agli altri dei pz dipendenti spesso maschera l’aggressività. La persona che costituisce l’oggetto dell’attaccamento del pz dipendente può percepire le richieste di quest’ultimo come ostili e tormentose. 591-2 La psicoterapia dei pazienti con disturbo dipendente di personalità presenta sin dall'inizio un dilemma terapeutico: affinché questi pazienti superino i loro problemi di dipendenza, devono prima sviluppare una dipendenza nei confronti del terapeuta. Spesso questo problema viene elaborato in una forma specifica di resistenza, per cui il paziente vede la dipendenza dal terapeuta come una meta in sé invece di considerarla come mezzo per raggiungere una meta. Dopo qualche tempo questi pazienti possono dimenticare la natura della sofferenza che li ha condotti in terapia, e il loro unico scopo diventa il mantenimento del loro attaccamento al terapeuta. Temendo la fine della terapia, possono ripetutamente ricordare al terapeuta quanto si sentano spaventati per essere sicuri che essa continui. Se il terapeuta pone in evidenza qualche miglioramento, il paziente può paradossalmente peggiorare, poiché il pensiero del miglioramento è identificato con la fine della terapia. Una regola pratica nel trattare i pazienti dipendenti è quella di ricordare che ciò che dicono di volere probabilmente non è ciò di cui hanno bisogno. Tenteranno di far sì che il terapeuta dica loro che cosa devono fare, permettendo che la loro dipendenza continui, e colluda con il loro evitare di prendere decisioni o di affermare i propri desideri. Il terapeuta deve sentirsi sereno nel frustrare queste tendenze e nel promuovere invece l'indipendenza di pensiero e di azione del paziente. Deve riuscire a trasmettere che l'ansia prodotta da tale frustrazione è tollerabile e anche produttiva, in quanto può portare ad associazioni sulle origini della dipendenza e delle paure ad essa associate. Un'altra comune evoluzione transferale consiste nell'idealizzazione del terapeuta (Perry, 1995). Il paziente può cominciare a considerare il terapeuta come "colui che sa tutto", e dunque desiderare di trasferire su di lui tutte le responsabilità per le decisioni importanti. Spesso i pazienti hanno i la fantasia che la soluzione di tutti i loro problemi sia diventare esattamente come il terapeuta. Questo desiderio di aggirare il difficile compito di trovare un senso autentico di sé separato dal terapeuta ha bisogno di essere interpretato e confrontato man mano che la terapia progredisce. Il paziente può persino cercare di ostacolare il raggiungimento degli obiettivi terapeutici per dimostrare che non può pensare o funzionare indipendentemente dal terapeuta.