succhianime

non una poesia, più un racconto breve di quand'ero giovane

La Setta Dei Poeti Estinti.
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succhianime

Messaggioda andrea444 » 21/07/2017, 13:50



Quello che non riesco a ricordare è il momento esatto in cui tutto è cominciato.
Forse è normale. Nessuno ricorda l'uscita dal tunnel che conduce alla vita, alla prima immagine che catturano gli occhi.
Probabilmente è meglio così.
Ma non sono le pareti vaginali che scorrono, o le mani di lattice e i camici verdi che continuano a sfuggirmi.
Il vero problema è il nero.
Il nero che mi separa da quel mondo a colori in cui so di aver vissuto. Il nero che ha inghiottito tutto in un solo boccone e ha risparmiato me, inspiegabilmente.
Era quello che volevo il nero. Questo è tutto quello che riesco a ricordare: l'odio per i colori e le forme, la brama del nero e la trasformazione nell'ombra.
Invece il nero mi ha risparmiato.
Forse è presto per dirlo perché ovunque mi trovi, non si tratta di un luogo particolarmente illuminato.
Il buio avanza.
Il buio avanza ma non è ancora in grado di inghiottirmi.
Riesco ancora a muovermi e percepire i confini del mio corpo, a vedere ciò che doveva dissolversi in una nebbia sempre più scura.
Qualcosa sta andando storto.




Dove sono capitato?
Il silenzio è sconvolgente. Solo sfrigolii elettrici che mi attraversano cervello segnalano la presenza di qualcosa di vivo in me.
Sono immobile, avvolto nel buio incerto, pietrificato dalla paura.
Mi muovo piano, come un'ombra disintegrata dall'improvvisa mancanza di luce. I piedi nudi affondano in una sostanza melmosa, forse fango, ma non sporca, è un corpo unico, molle.
Provo a toccarla. La superficie è liscia e non si può raccogliere. Le dita affondano con relativa facilità.
Muovo qualche passo e la consistenza varia. In alcuni punti affondo fino al ginocchio, in altri riesco a galleggiare.
Gesticolo nel vuoto alla ricerca di qualcosa. Un alito di aria calda mi accarezza la pelle.
Riesco a percepire solo il battito accelerato del cuore e il flusso di sangue pompato nelle arterie che scivola lontano.
I piedi che affondano nella sostanza non emettono alcun rumore, l'aria calda che mi avvolge silente. Sfioro una superficie con i polpastrelli. Le estremità del corpo si sono allontanate troppo.
Estremità decisamente estreme, ancora collegate da sottili filamenti misteriosi.
Nonostante il distacco ne amplificano le percezioni.
La punta delle dita carezza miliardi di microscopici forellini.
Sembra roccia vulcanica.
Dove c***o sono capitato?
Riesco a percepire ogni micro concavità e convessità che percorrono i recettori tattili.
Curiosi e disorientati.
Il buio non m'impedisce di osservare l'oscurità nascosta nelle rientranze più profonde che sfuma nel grigio scuro delle protuberanze.
Cosa stai aspettando?
Assorbimi….



Mi avvicino a quelle che sembrano le pareti di una grotta. I fili che uniscono il corpo alle dita si accorciano. Anche i piedi sono troppo in basso, come risucchiati da forze oscure.
Sono un mostro deforme.
La sostanza li avvolge e preme. Ad ogni passo fatico a liberarli per avanzare.
Sento il sangue che scorre nei vasi e i nervi che fremono attorcigliati alle ossa.
Sono uno scheletro attraversato da capillari rossi e blu.
La parete lavica ha un odore acre di zolfo che mi attraversa e si espande negli organi.
Tento di abbracciarla ma, anche se le falangi riprendono la fuga dallo scheletro, alla fine desistono tanto è vasta la dimensione.
I piedi continuano a scendere seppelliti di sostanza.
Scomposizione.
Sto perdendo contatto con le estremità del corpo ma riesco a muoverle, come se l’amputazione subita non abbia impedito al cervello di inviare impulsi.
Code di lucertola mozzate.
Premo sulla roccia. Cresce nuova pelle che ricopre il viso e parte del busto.
Penetra i pori, si trasforma nei microfilamenti di meduse invisibili che si allungano aderendo alle pareti interne dei canalicoli.
I tentacoli mi tirano nella roccia con inaudita violenza.
Deframmentazione.
Penetro nella roccia scomponendomi in miliardi di particelle. Scivolo all’interno di gallerie tortuose che a tratti mi comprimono togliendomi il fiato.
Un barlume di atmosfera puntiforme si avvicina, le sfere si ingrandiscono e, quando raggiungono l’uscita dai pori della roccia, formano il riflesso di un nuovo antro.



Ricompattazione.
Le molecole del mio corpo si catapultano nella nuova grotta.
Si sono ricomposte, mi hanno ricreato restituendo una forma approssimativa.
Parte dell'epidermide che si è ricreata è rimasta incastrata nei canali della roccia e mi trattiene, interrompe il salto nel buio formando nuovi filamenti sottili, elastici e collosi.
Tentacoli.
Resto sospeso nel vuoto solo per un istante, quanto basta per scorgere i riflessi di un liquido che dal basso si diffondono nell'ambiente.
La pelle mi tira indietro con uno strattone violento. I fili di carne si accorciano, alcuni si spezzano. Ho la parte posteriore del corpo appiccicata alla parete, dalla nuca ai talloni. Non capisco quanto sia distante il liquido.
I riflessi sono rossi e si muovono nell'ombra.
Danza di eritrociti.
I sottili tentacoli, prolungamento della cute, si ritirano veloci.
Vacillo. Un tepore lieve sale dal basso, il liquido è caldo.
La pelle abbandona la roccia e mi stacco dalla parete. Ma non cado, non del tutto.
Solo i piedi si allontanano, scendono perpendicolari verso l'ignoto.
Elasticità antalgica.
Penetrano nel liquido, lo attraversano e sono inglobati dalla superficie sottostante.
Il calore circonda i filamenti, le vene e i nervi che ancora mi uniscono alle estremità sprofondate. Sale e mi percorre fino a invadere gli occhi.
Sono risucchiato verso il liquido. Lentamente. Strisciando sulla parete, depositando epitelio, sangue e siero.
Scia organica.
Il corpo torna alle solite dimensioni. Sono immerso fino alla gola e un odore forte di ferro e ruggire avvolge l'ambiente.
Sono sprofondato in un lago di sangue e non riesco a spostarmi. Non percepisco il corpo, posso solo muovere la testa.
Periscopio cranico.
La sento leggera, come una boa senz’ancora cullata dal mare.
Galleggia sulla superficie nella direzione del mio sguardo.
L'antro è aperto. Scorgo la minuscola galleria da dove probabilmente viene alimentata la pozza di sangue.
Scivolo verso il passaggio sotterraneo tra pareti chiazzate di croste e sangue rappreso.
Luci scarlatte in galleria.
Lo spazio per attraversarlo è appena sufficiente a non farmi raschiare il cranio contro la roccia.
Al fondo del tunnel intravedo nuovi riflessi rossastri. Lo specchio di sangue prende vita e mi spinge verso l'uscita.
Dov'è finito il mio corpo?
Vorrei fermarmi, stare lontano dal luogo in cui mi sta trascinando la corrente ma non ho le mani per potermi appare alla roccia, né i piedi da puntellare sulla base del condotto.
Ghigliottina interrotta.
Al fondo del tunnel il corso di sangue termina in una cascata. Sento il rumore del liquido che si infrange al suolo.
Mentre mi avvicino all'ignoto il calore aumenta.

Rotolo all’interno di nuovo antro affondando tra le sostanze organiche in decomposizione. L'odore di morte che invade la grotta si alterna alla puzza di marcio che sale dai corpi mozzati su cui sono appoggiato.
Lentamente il mio corpo si ricompone. Sento le ossa delle spalle che si riformano, gli omeri che articolano e crescono fino al gomito.
La spina dorsale si rinnova vertebra dopo vertebra. Le costole circondano nuovamente gli organi vitali. Il radio e l'ulna si saldano, vanno a formare il gomito e continuano a crescere sviluppando le ossa della mano.
Ossa vive tra carne morta.
Della parte scheletrica inferiore nessuna traccia.
Sulla superficie del mio nuovo scheletro parziale attecchiscono vasi sanguigni e nervi che si attorcigliano come l'edera sui tralicci.
Finalmente posso tentare di sollevarmi.
Punto le falangi sulle carni putride che formano il pavimento. I tessuti sono molli e si perforano facilmente sprigionando gas fetidi.
Belsen was a gas.
Resto appoggiato sulle ossa dell'avambraccio come un turista che prende il sole, ma non ci sono raggi e, anche se ci fossero, non ho la pelle.
Mi sforzo di osservare l'ambiente che mi circonda. Gli occhi ruotano indipendenti sporgendo dalle orbite. Ovunque scorgo cadaveri amputati appiccicati alle pareti. Arti putrefatti, sanguinanti, paiono pulsare tenui segnali di vita.
Una vita alternativa.
Le carni si gonfiano, alcuni tessuti si spaccano liberando una polpa molliccia che si spappola sul tappeto di cadaveri sezionati.
L'odore è insopportabile ma un soffio costante di aria calda riesce a rarefare la puzza di marcio.
Mi nuovo verso la brezza roteando i bulbi oculari. Le cavità orbitali si sono spostate sulle tempie. Posso osservare le pareti putrescenti alla mia destra e alla mia sinistra.
Un camaleonte all'obitorio.
I messaggi che giungono al cervello sono una serie di fotografie che si sovrappongano fulminee. Non ho il tempo di elaborare le informazioni, mi sembra di osservare quelle piccole scatole in cui, facendo scorrere la rotellina, si succedono le fotografie dei luoghi più importanti delle città in questione.
Ma un occhio osserva i paesaggi di una scatola e l'altro quelli di un’ altra.
Le rotelle ruotano a ritmi vorticosi e le immagini differiscono poco: solo cadaveri parziali.
Nuovi gadget horror.
La confusione che invade la materia grigia mi scalda il cranio, gli sfrigolii gli aumentano alternati a brividi che percorrono a spirale i neuroni.
Il cervello frigge. Avverto la formazione di bollicine scoppiettanti, spalanco la bocca ma non riesco a gridare.
L'unica soluzione è chiudere gli occhi e non riaprirli mai più.
Occhi in camicia.
Affondo il viso nella carne molle squarciando la pancia di un cadavere. Spingo il cranio tra gli intestini. I liquami mi avvolgono la testa, si appiccicano agli occhi e appannano la visuale fermando il turbinio di flash che mi stava rosolando il cervello.
Procedo con la testa immersa nelle carni spappolando corpi, attraversando stomaci e tessuti sfatti.
Macelleria umana avariata.
Gli occhi bruciano e lacrimano a contatto con sostanze acide. Le cavità ossee che li accolgono tornano al loro luogo di origine.
Sollevo la testa umida e gocciolante alla disperata ricerca di ossigeno.
Le pareti di corpi convergono in un nuovo varco che conduce ad altri luoghi misteriosi. Solo adesso realizzo che la tappezzeria di organismi ha una caratteristica comune: mancano le teste.
A nessun corpo, anche il meno orrendamente mutilato, è stata risparmiata la decapitazione.
Ghigliottina connection.
Dal seno di una figura femminile deforme gocciola latte denso. Resto a distanza dalle stille e protendo la lingua.
Carne sottile si srotola camaleontica, attratta dalla sostanza biancastra e bramosa di assaporarla.
Ha un gusto acidulo, le papille bruciano. Ritiro la lingua percependo un ultimo retrogusto lievemente frizzante.
Mutazioni e degustazioni.
La grotta comincia a girare, prima lentamente, poi a ritmi convulsi.
Dove sono?
E come diavolo ci sono capitato?
Mi sforzo di ricordare ma all'oscurità iniziale si somma altro buio, come se la mia vita fosse cominciata proprio lì.
Ma se fossi nato in quel momento non potrei sapere niente di tutto ciò che mi circonda, come il neonato che apre gli occhi per la prima volta. Invece riconosco la roccia, il sangue, la composizione dei corpi che mi circondano. Sapevo che il seno può contenere del latte, da qualche parte dovrò averlo imparato.
Congetture allarmanti.
Mi volto sdraiandomi sulla spina dorsale. Il soffitto di morte non fa più alcun effetto.
Abbandono lo sguardo, libero i pensieri.
Un flash illumina la grotta, cancellando per un istante tutte le assurdità che la caratterizzano. Sul soffitto compare un'immagine bidimensionale in bianco e nero, ma si trasforma subito e acquisisce la terza dimensione.
Vedo alberi e un prato. Sembrano molto vicini, forse troppo. Mi sembra di essere la comparsa di un film.



Gocce di sangue che cadono dall'alto mi colpiscono la fronte in sequenza e mi riportano alla grotta. Ricerco la concentrazione per estraniarmi da quel luogo.
Torno sul set.



Quello che sembrava un parco si è popolato di persone in festa. Uomini, donne e bambini giocano e si divertono sulle altalene intorno ai tavoli. I loro corpi sono integri e ben vestiti ma sono tutti decapitati.
Il vento mi solleva e trasporta sempre più vicino.
Osservo la scena dall'alto.
Tra gli organismi festanti scorgo una figura scura che attraversa il parco noncurante. Sguardo basso e mani in tasca percorre il sentiero in silenzio.
L'uomo nero.
Sembra triste, un'anima afflitta da brutti pensieri.
La festa di gente si colora senza accorgersi di lui, che a sua volta li ignora restando un'ombra che cammina.
Dopo un battito di ciglia rientro nella grotta.



Sto fluttuando a mezz'aria cullato dalla brezza calda.
Ricresco.
Si stanno formando le anche, le teste dei femori si sagomano all'interno delle rispettive cavità. Crescono le ossa lunghe e si completa la parte inferiore dello scheletro.
Mi muovo lentamente risucchiato dal vento. I cadaveri scorrono, poi il buio.




Al fondo del parco, vicino a una recinzione arrugginita, regna il disordine. Piante e cespugli incolti nascondono rifiuti d'ogni genere. È la direzione che sta prendendo l'ombra.
Pare voglia nascondersi da quelle persone che neanche per un istante si sono accorte di lui.
Non hanno occhi né anima, impossibile comprendere.
Ha uno straccio in tasca, lo porta al viso e tira forte dal naso. Resta immobile, lo straccio gli scivola dalle mano.
Etere. Riesco a sentire l'odore, è qualcosa che conosco, qualcosa che ho provato.
Paura e delirio.
Calano le tenebre ma i contorni dell'uomo restano netti.
È bloccato nello stesso punto, si è ingobbito ed è malfermo sulle gambe. Muove le braccia lentamente a mezz'aria, come un cieco che cerca qualcosa.
Procede a piccoli passi incerti, barcolla, si trascina per qualche metro verso l'angolo più nascosto. Dai movimenti intuisco una fatica immane nel sollevare i piedi. Suole di piombo lo ancorano al suolo.
Le gambe piegate si muovono incerte in una sequenza di passi interrotti.
Sembra un corpo di gomma che si allunga e si accorcia a ogni movimento.
Invertebrato.
Riesco a percepire la consistenza dei suoi muscoli. Sono molli e privi di forze, come se tra le ossa e la pelle ci fosse solo grasso.
Le braccia seguono il ritmo delle gambe rendendo l'andatura molleggiata.
Io so perché si muove in quel modo, come se stesse nuotando in stazione eretta. È l'unico sistema che ha per riuscire a procedere senza stramazzare a terra. Le braccia sono come l'asta che usa l'equilibrista quando cammina sulla fune sospesa.
Acrobata al confine.
Perché sono così profondamente in empatia con lui?
È come se fossi io a barcollare nell'oscurità, occhi semichiusi e un sottile rivolo di saliva a lato della bocca.
Invece io sono…dove sono?



Nella grotta, in un passaggio buio trasportato dal vento caldo.
Rallento e scendo dolcemente, scivolo su una superficie morbida. Provo a muovermi ma non vedo niente.
Piccoli ossicini si sviluppano dal calcagno conficcandosi nel terreno. Sono appuntiti e penetrano in profondità rendendo difficoltosa la camminata.
Procedo a piccoli passi singhiozzanti, gesticolando alla ricerca di qualsiasi cosa.
Labirinto notturno.



Raggiunto l'angolo più occultato del parco, allunga le mani verso un albero. La corteccia è un mosaico di cartoncini colorati.
Abbraccia il tronco, lo annusa e lecca la sostanza. I rami sono privi di foglie ma ricchi di gemme. Ne stacca un paio e le inghiotte, poi si sdraia sotto la pianta.
Le radici sbucano dalla terra, lo imprigionano, ma sembra non accorgersi di nulla.
Un cane si avvicina, lo annusa, gratta la terra, morde le radici e le spezza liberandolo dall'intreccio. Alza la zampa e gli spruzza uno zampillo di urina sul viso.
Pioggia dorata.
Quando riapre gli occhi si accendono i lampioni del parco, come grandi aureole sparse nel buio.



Ci sono dei bagliori nel buio. Il nero è ancora incompleto.
Sono sopra di me, abbastanza lontani, ma preferisco strisciare.
Luminosità singhiozzanti rivelano forme che non riesco a riconoscere. Solo candele sparse sospese nel nulla, attaccate a qualcosa di familiare.
Il lato nascosto della ghigliottina.
Teste mozzate, cosparse dalla cera di candele infinite.
Occhi rivoltati, privi d’iride e pupilla, bianchi e lucidi come perle, mi osservavano minacciosi. Maledetto bianco.
Vorrei estrarli uno a uno, spappolarli tra le dita e spegnere le candele che ancora disturbano il nero. Ma ho paura.
Ho paura del bianco.
Posso solo annullare la vista e procedere nel tunnel dei decapitati alla ricerca dell'oscurità assoluta.



Il tipo striscia sul sentiero del parco. Gli alberi si flettono, sembrano proteggerlo, forse rinchiuderlo.
Pioviggina. Le foglie raccolgono il velo d'acqua e liberano gocce compatte che lo colpiscono ovunque.
Sottile pioviggine al di sopra.
Pioggia pesante al di sotto.
E la luce fioca dei lampioni che filtra ostinatamente tra i rami.
Non si perde d'animo. Striscia senza alcuna meta. Forse si allontana da qualcosa o qualcuno.



Ecco le lacrime. Sapevo che mi avrebbero colpito.
Piangono a dirotto queste fottute teste di c***o. E il silenzio che regna trasforma la potenziale disperazione in squallida abitudine.
Mi trascino nella melma intrisa di pianto. Striscio anch'io.
Le gocce scivolano sul cranio liscio, scorrono in rigagnoli che sfociano tra le labbra.
Sono lacrime insapori.
Il riassunto di ciò che mi sono lasciato alle spalle.
Perlomeno di ciò che sto tentando di cancellare.
Ma è inutile soffocare la vista. Il bianco attraversa le palpebre, vuole essere presente tutti i costi.
E allora guardiamo. Guardiamo questi testoni mozzati, rinsecchiti e violentati da una candela conficcata nel cervello.
Hanno la bocca aperta.
La bocca aperta e gli occhi bianchi. L'ultimo lamento e il buio.
Terrore silente.
Gli occhi che girano per incontrare il nero non dovrebbero mostrare il bianco.
Gli alberi rimpiccioliscono, mutano forma, acquisiscono sembianze umane.
Si tengono per mano infiocchettati in grembiuli colorati. Due file ordinate di cespugli di carne. Continua a strisciare sul sentiero oscuro.
Solo file di bambini che danzano. Ripetono sequenze di movimenti. Ricordano le sigle dei cartoni animati giapponesi.
I bambini cantano. Emettono un suono acuto spezzato.
Nel breve intervallo ridono. Risate sinistre di anime possedute.
I bambini e il terrore.
Ha paura ma li osserva. E riconosce i volti di vecchi compagni d'asilo.
Avanza ancora e i bambini crescono, sono i compagni di scuola in grembiule nero e cestino con la merenda.
Si commuove.
Piange.



Intorno a me solo teste adulte. Inespressive. Irriconoscibili. Morte.
Vorrei incontrare volti amici ormai scomparsi prima di raggiungere il nero.
Il buco si avvicina mentre mi lascio alle spalle morti estranei.
Vorrei essere accompagnato dal sorriso di un vecchio compagno, dalla carezza di un amore trascorso.
Mi commuovo.
Piango.



Ecco i vecchi compagni del liceo. Lo salutano e scompaiono.
Scie di colori mescolati sbiadiscono alle sue spalle.
Il suono spezzato è sempre più forte. Lo rincorre. Deve fare presto.
Il nero è lì davanti, poco distante, inglobato in una sfera di nebbia densa.



Il fango trema. C'è qualcosa in questo luogo. E mi cerca.
Avverto il grido intermittente echeggiare tra le gallerie. Rimbalza tra le pareti del cranio, le perfora. Vuole strapparmi dal nero, impedirmi di raggiungerlo.
È l'urlo di battaglia del bianco.
Io non lo voglio il bianco.
È così facile che si sporchi.



Eccolo il nero. Una palla d'inchiostro solido pronta dilatarsi.
Il tipo è stanco. Sorride. Affonda le dita nel buio seguito dagli sguardi increduli di figure ormai dimenticate.
Un lampo blu, poi uno bianco.
Intermittenza continua.
Grida e affonda le braccia nel nero, si trascina. Manca così poco.
Aiutano per dio! succhialo dentro di te e poni fine al suo martirio.
Ma i fantasmi bianchi lo stanno inseguendo.
Sono veloci, gli sono già addosso.
Eccolo il bianco. Mi ha raggiunto proprio adesso che comincio ad amputarmi nell'oscurità.
Sento il morso dei vampiri candidi che affonda nelle caviglie.
Mi voltano. Il nero si allontana.
Le teste mozzate hanno rigirato gli occhi. Una fila infinita di iridi colorate mi osserva con stupore.
I camici bianchi mi trascinano verso i colori. Vedo Arlecchino che si moltiplica nell'atmosfera. Nessun cielo, nessuna grotta, solo infinite figure geometriche disgustosamente colorate che mi tappezzano la vista.
Ho sempre odiato Arlecchino.
Preferivo Balanzone.



Eccoli i colori. Lo circondano, si moltiplicano. Lottano contro il nero che avvolge il suo corpo.
Il bianco coordina.
È lui il sovrano e i colori obbediscono come schiavi senz'anima.
Il bianco è ansioso, trepidante, inequivocabilmente votato al comando.
È obbligato a giocare d'anticipo, manipolando e decidendo il destino dei colori.
Il nero è calmo, paziente, perfettamente conscio della sua forza.
Non ha bisogno di muovere i colori. Li denigra, così come sbeffeggia gli inutili sforzi del bianco.
Il nero sa che alla fine, presto o tardi, nessuno avrà scampo.
Tornano i lampi blu e il grido acuto.
Ora capisco: è una sirena.



Sono bloccato, inerme, senza possibilità di fuga.
Il bianco dirige le operazioni. I colori mi violentano.
Scie luminose scorrono veloci. Filigrane trasparenti s'intrufolano nel corpo e lo percorrono silenziose.
Ma il nero resiste. Placido come la notte nel deserto mi protegge, mi nasconde, scherma la mia pelle dagli attacchi dei serpenti colorati.
Avverto delle voci mescolate alla sirena.
Il bianco ha paura. Avverte la sconfitta imminente.
L'ho sempre detto: il bianco non dura.



Quello sono io.
Sdraiato sulla lettiga dell'ambulanza, privo di conoscenza.
Il bianco mi ha intubato, punto, monitorato.
È in affanno, il bianco.
L'ombra nebulosa che mi circonda non accenna ad assottigliarsi.
Il rivelatore di vita è interrotto da pause di morte sempre più lunghe.
Mi penetro. Torno negli antri del mio corpo.



Scivolo sul torrente scarlatto.
Scorre lentamente, scosso da onde prive della solita spinta, onde disperate, moribonde.
Attraverso pareti molli. Tessuti organici appassiscono, soffocano lentamente senza la possibilità di respirare le consuete quantità di ossigeno.
Percorro filamenti attraversati da scariche elettriche.
Il contorno frigge. Vampate di calore sbriciolano i peduncoli.
Resta solo fine sabbia grigia. Sfrigola, cuoce, irrigidisce in meravigliosi cristalli neri.
Gli impulsi elettrici sono fottuti.
Vermi bluastri si diramano disperati sulla superficie levigata.
Sono respinti, riflessi.
Interruzione.



Sono fuori.
Il bianco è in agitazione. I colori sbiadiscono, il nero si espande.
Suoni e rumori sono sempre più fievoli.
Parole sparse, fasi concitate.
Il bianco non si arrende.
Mi elettrizza. Rimbalzo sulla lettiga.
Silenzio.
Silenzio e risucchio.
Un lento ritorno alle origini.



Rientro, e finalmente sono al buio.
Mi sento pesante, continuo a scendere.
Alto e basso sono solo sensazioni.
Però sto scendendo, non era previsto.
E come in un'immersione infinita, la pressione si dilata.
Sto per implodere nel nero, affinché si espanda ancora.
È una sensazione terrificante.
Prego.



Demone del male, che sei il mio custode
brucia, distruggi, annienta me.
Che ti fui affidato dalla crudeltà infernale
amen
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