
Quando una costellazione di tratti della personalità è troppo rigida rispetto all’ambiente e alla cultura dell’individuo, al punto da compromettere seriamente il suo funzionamento sociale, lavorativo e relazionale e da produrre, nel soggetto, una grave sofferenza e un marcato disagio la probabilità che si configuri un disturbo della personalità è elevata. I disturbi della personalità possono dunque essere considerati esagerazioni o distorsioni degli stili di personalità e dei tratti sottostanti. L’OMS definisce un disturbo della personalità come un “grave disturbo della costituzione caratteriologica e delle tendenze comportamentali dell’individuo quasi sempre associato a conflitti sociali e personali”. Solo quando l’intero funzionamento dell’individuo è condizionato da certe caratteristiche
estreme e pervasive si può parlare di disturbo della personalità.
Personalità
La personalità è una modalità strutturata di pensiero, sentimento e comportamento che caratterizza il tipo di adattamento e lo stile di vita di un soggetto e che risulta da fattori temperamentali, dello sviluppo e dell’esperienza sociale. Pur conservando significativi elementi di continuità la personalità non è fissa e immutabile e si evolve attraverso le situazioni che formano la storia dell’individuo. Il significato del termine personalità va riferito sia ad un criterio di “comunanza” (un insieme di caratteristiche, disposizioni, modi di agire comuni a diversi individui) sia ad un criterio di “singolarità” (che ci guida a riconoscere le combinazioni di tratti, atteggiamenti e comportamenti che distinguono una persona rispetto alle altre).
Carattere
Il concetto di carattere, originariamente riferito alle caratteristiche distintive che potevano intendersi come “marchio” per la persona, va inteso come quella combinazione di componenti psichiche individuali che riflette gli elementi di base dell’organizzazione e dello
stile della personalità di un dato soggetto,ovvero, il complesso delle caratteristiche individuali e delle disposizioni psichiche che distingue un soggetto dall’altro. La nozione di carattere tende ad accentuare gli aspetti di valore e conformità rispetto agli standard sociali attesi (“buon carattere”, “cattivo carattere”). La distinzione terminologica e concettuale tra carattere e personalità rimane comunque ambigua, soprattutto perché non poggia su criteri oggettivi e dipende dalla teoria scientifica di riferimento.
Temperamento
Il concetto di temperamento sottende l’ipotesi di un’influenza biologica ereditaria sulla personalità. Temperamento e personalità sono considerati indipendenti ma non opposti dal momento che le dimensioni della personalità si sviluppano sulla base dei tratti temperamentali.
APPROFONDIMENTO
I termini temperamento, carattere e personalità sono entrati a far parte del linguaggio comune al punto tale che il loro reale significato, come costrutto psicologico, è andato perso o fortemente distorto. Ad esempio, capita abbastanza frequentemente che di fronte a qualche difficoltà nel cambiare modo di pensare o di agire si evochi il concetto di carattere come qualcosa di immodificabile ed innato: “il carattere non lo puoi cambiare, se uno nasce tondo non diventa quadrato”; o nel caso della fine di una relazione interpersonale si dica “avevamo caratteri incompatibili”. Inoltre è frequente sentire parlare di persone con un temperamento calmo, o aggressivo o irascibile, ecc. lasciando intendere che il temperamento è una modalità relazionale valutabile moralmente ed eticamente. Infine si può sentire definire la personalità forte o debole, dominante o succube, espansiva, introversa ecc. Tutti questi modi di dire e di definire la realtà confondono i piani della scienza e del pensiero comune, mescolando tra loro elementi che hanno una base teorica e quelli che sono solo una descrizione ingenua di elementi facilmente visibili. Proviamo quindi a chiarire e specificare alcune differenze.
Il concetto di temperamento è molto antico, dobbiamo, infatti, a Ippocrate (460-370 a.C.) la sua prima formulazione. Per il medico greco, la predominanza di uno dei quattro umori corporei (sangue, flemma, bile gialla, bile nera) costituiva la manifestazione di quattro tipologie di temperamento: sanguigno, flemmatico, collerico e melanconico. L’idea di Ippocrate fu poi ripresa ed ampliata da Galeno (130-200 d.C.), che distingueva tra spiriti vitali (nei vasi sanguigni) e spiriti animali (da cui dipende il sistema nervoso). Questo tipo di formulazione, spiegava come le caratteristiche fisiologiche fossero responsabili delle diverse manifestazioni comportamentali osservabili negli uomini, l’equilibrio tra i fluidi corporei dava quindi vita a persone sane, morali e intelligenti, mentre il loro squilibrio portava alla malattia, l’amoralità ed alla follia. Le idee di Ippocrate ed Galeno furono dominanti nel Rinascimento e si tramutarono, dalla fine del ottocento, in una correlazione tra caratteristiche fisiognomiche e manifestazioni comportamentali, nel tentativo di classificare diversi tipi di persone e prevederne le azioni. I maggiori esponenti di questa revisione della teoria ippo-galenica costituiscono la corrente dei costituzionalisti. Possiamo, ad esempio, ricordare Lombroso (1835-1909), il quale era convito che i tratti somatici fossero lo specchio della personalità e che dalla loro misurazione si potesse distinguere, tra le altre cose, tra i delinquenti ed i cittadini onesti, tra i “mattoidi” ed i sani di mente. Anche altri autori, in era più moderna, si sono spinti a classificare gli uomini in base alle caratteristiche fisiche e dedurne da esse caratteristiche psicologiche. Queste teorie, cosi come quelle astrologiche che declinano il temperamento in funzione dell’ influenza degli astri (persone gioviali – da Giove – saturnini – da Saturno – lunatici – dalla Luna- o marziali – da Marte), sono oggi riconosciute come prive di ogni fondamento scientifico, ma il loro dilagare nella psicologia del senso comune le rende ancora utilizzate. Purtroppo c’è sempre qualche nostalgico del medioevo pronto a definirti in base al giorno di nascita o guardando attentamente una tua fotografia.
Oggi la psicologia definisce temperamento:
“insieme di disposizioni comportamentali presenti sin dalla nascita le cui caratteristiche definiscono le differenze individuali nella risposta all’ambiente. Il temperamento riflette dunque una variabilità biologica” (Lingiardi, 1996:118).
In questi termini, si ristabilisce la dimensione genetica e biologica del temperamento, e si pone l’accento su un numero di risposte adattive all’ambiente presenti al momento della nascita. Ogni neonato reagisce a certi stimoli, mentre ne ignora altri, l’intensità e la frequenza di tali risposte definiscono il temperamento. Una ricerca di Cloninger (1993) indica gli aspetti: “ricerca del nuovo”, “evitamento del dolore”, “dipendenza dalla ricompensa” come elementi che combinati tra di loro danno vita a diversi tipi di temperamento. Come si può facilmente notare, tali caratteristiche non hanno in sé una valutazione morale o culturale del temperamento (come lo sono buono, cattivo, socievole o timido), ma sono legate alla neurochimica del cervello, e nello specifico, rispettivamente alla attività dopaminergica, serotoninergica e noradrenergica.
Se è abbastanza chiara la definizione di temperamento, più complessa è quella di carattere e personalità ed è quasi impossibile distingue tra i due termini. Non solo nel linguaggio comune, infatti, ma spesso anche nella letteratura psicologica i due costrutti si sono sovrapposti. Freud, Jung, ed i primi psicoanalisti, ad esempio, utilizzarono il termine carattere, mentre oggi si preferisce parlare di personalità. Entrambi i termini suggeriscono un’integrazione del substrato biologico (il temperamento) con l’ambiente psicologico e sociale. La personalità/carattere è quindi una modalità strutturata di pensare, sentire e comportarsi, risultante dall’interazione dell’ambiente sul proprio patrimonio genetico e culturale, ed è pertanto modificabile perché costruita dall’esperienza e dall’adattamento tra i propri bisogni e desideri e la realtà esterna.
Esistono molti modelli teorici di classificazione di personalità, il più universalmente riconosciuto dalla psicologia e psichiatria moderna è quello presente nel DSM-IV che individua 10 tipi di organizzazioni di personalità: paranoica, schizoide, schizotipica, istrionica, narcisista, antisociale, borderline, dipendente, evitante, ossessiva-compulsiva. La terminologia che indica questi diversi tipi di personalità è nato al solo scopo di descrivere delle modalità di essere, senza che a queste venisse data una accezione positiva o negativa, ma purtroppo il suo dilagare nel linguaggio quotidiano l’ha resa satura di significati negativi, tanto che viene associata costantemente alla psicopatologia. Al contrario, questi tipi di personalità esistono su un continuum che va dalla normalità alla patologia. Ad esempio, un individuo che loda apertamente le sue capacità, tende a ricercare l’ammirazione e la fiducia degli altri, è suscettibile alle critiche, aspira al successo ed al potere, può rientrare nel quadro di una personalità di tipo narcisistico. Queste caratteristiche, se presenti in modo limitato, possono ritrovarsi in individui perfettamente “sani” come segno di una elevata autostima. Se sono presenti in modo massiccio e rigido, senza possibilità di essere riviste o modificate, e se l’individuo che le possiede non tiene più conto della realtà circostante, né delle reali capacità interne, ed arriva a credersi superiore a tutti gli altri, più furbo, più intelligente, più ricco, o più bello di chiunque altro, al di sopra della legge e della morale, siamo di fronte ad un disturbo di personalità narcisistico. Sebbene sia estremamente difficile, se non impossibile e probabilmente nocivo, passare da un tipo di organizzazione della personalità ad un altro, il cambiamento all’interno dello stesso continuum è realizzabile.
In conclusione, possiamo definire il temperamento la componente biologica e genetica della personalità e considerare quest’ultima come la somma delle principali strategie di adattamento all’ambiente, quest’ultime sono basate sia su comportamenti esterni sia su processi inconsci che mediano tra impulsi e desideri e realtà circostante. Talvolta, come nei disturbi di personalità, tali strategie, che sono state utili in certe circostanze particolari o che sono state apprese e rinforzate dall’approvazione altrui, si rivelano non più efficaci o capaci di adattarsi ai cambiamenti esterni e diventano, pertanto, disfunzionali.
La personalità, non è quindi qualcosa di innato, né immodificabile, ne valutabile in termini di forza/debolezza, o giusto/sbagliato, è più opportuno definirla in termini di funzionale/non funzionale o adattiva/disadattiva. L’idea che si nasce in un certo modo e che il proprio modo di essere e di interagire con gli altri dipenda da fattori non controllabili (il fato, il destino, gli astri, i geni) è spesso usata come giustificazione alla difficoltà del cambiamento; questa idea crea aree di non pensabilità, di mancanza di pensiero e riflessione su se stessi, amputando le proprie capacità di crescita e di consapevolezza.
Il DSM-V supera la controversia su quale tipo di diagnosi, dimensionale o categoriale, meglio catturi le caratteristiche dei DP, proponendo un modello ibrido che coniuga la possibilità di misurare il Funzionamento della Personalitàcon lo studio descrittivo dei disturbi.Nello specifico, il Funzionamento della Personalità viene valutato prendendo in considerazione due domini: il dominio del séche si riflette nelle dimensioni dell’identità e dell’auto-determinazione e il dominio interpersonale che comprende le dimensioni dell’empatia e dell’intimità.Per identità si intende l’esperienza di sé come essere unico, con chiari confini tra sé e gli altri, stabilità dell’autostima e accuratezza nell'auto-valutarsi; capacità e abilità di regolare varie esperienze emotive.Per autodeterminazione si intende: la capacità di perseguire obiettivi coerenti e significativi sia a breve termine che esistenziali, di utilizzare standard di comportamenti interni costruttivi e prosociali, di riflettere su sè stessi in maniera produttiva. Per empatia si intende: la comprensione e l'apprezzamento delle esperienze e delle motivazioni altrui, la tolleranza di prospettive diverse, la comprensione degli effetti del proprio comportamento sugli altri.Per intimità si intende: profondità e durata di relazioni interpersonali gratificanti, desiderio e capacità di vicinanza, reciprocità. In ciascuna di queste dimensioni il paziente può essere valutato su una scala da 0, (corrispondente all’assenza di deficit) a 4 (che indica, invece, una compromissione estrema).
Modelli teorici dei disturbi di personalitàLa teoria interpersonale prevede che lo sviluppo della personalità dipenda dal tipo di esperienze relazionali avvenute nei primi anni di vita. La persona assumerebbe un comportamento interpersonale disfunzionale non perché non sa come interagire con gli altri che ha di fronte in un dato momento, ma semplicemente perché mette in atto uno o più comportamenti che hanno avuto luogo all’interno di una relazione di attaccamento problematica (con i genitori ad esempio).La teoria cognitiva considera i DP come il risultato dell’interazione tra la predisposizione genetica a certi tratti di personalità e le esperienze di vita precoci. Così, ad esempio, un paziente ossessivo potrebbe aver avuto da bambino la predisposizione innata a raggiungere la perfezione; ma i significati che quel bambino attribuirà alle sue esperienze infantili, specialmente a quelle negative e traumatiche, contribuiranno ad accentuare l’espressione di quell'inclinazione innata.Ne consegue che travisamenti, difetti di percezione e distorsioni cognitive, ovvero modalità di pensiero disfunzionali, daranno luogo a risposte, emotive e comportamentali, chiaramente disadattive e che errori sistematici e persistenti nell’elaborazione dell’informazione contribuiranno al mantenimento del disturbo.Il modello metacognitivo interpersonaleindividua alcuni elementi fondamentali caratteristici dei DP:insieme complesso di stati mentali problematici (emozioni, pensieri, ricordi, processi cognitivi di elaborazione dell’informazione) che tendono a caratterizzare l’esperienza interna di tali pazienti;scarse abilità metacognitive (ovvero scarsa capacità di riflettere sui propri processi di pensiero) che includono: difficoltà nel riconoscere e nel descrivere le proprie emozioni ed i propri pensieri e nello stabilire nessi di causa-effetto tra eventi, pensieri, emozioni e comportamenti (deficit di autoriflessività); difficoltà ad assumere una distanza critica dalle proprie convinzioni disfunzionali e ad osservarle da un’altra prospettiva (deficit di differenziazione); difficoltà a leggere la mente altrui o ad abbandonare il proprio punto di vista per comprendere meglio cosa guida gli altri ad agire, sentire, pensare in un determinato modo (deficit di decentramento); difficoltà ad adottare una visione d’insieme delle diverse rappresentazioni di Sé e dell’Altro che entrano in gioco al mutare delle relazioni sociali (deficit d’integrazione);presenza di schemi interpersonali (rappresentazioni di Sé, dell’Altro e della relazione) rigidi e disfunzionali che ostacolano i rapporti con le altre persone;instaurarsi di cicli interpersonali patogeni per i quali il paziente con DP parte da una rappresentazione di Sè ("non posso essere amato") e interagisce con gli altri avendo in testa delle aspettative negative ("nessuno mi amerà"). Questo fà sì che i suoi comportamenti siano viziati da questi pregiudizi tanto da determinare negli altri proprio quelle reazioni e quei comportamenti (ad esempio di distanza o di rifiuto) che il soggetto si aspettava. Questo ciclo interpersonale convince definitivamente il paziente della veridicità e validità degli schemi che ha di sè e degli altri e perpetua il disturbo facendogli instaurare cicli interpersonali simili in tutte le circostanze della vita.;difficoltà a raccogliere gli indicatori interni (emozioni, desideri, punti di vista) ed utilizzarli come guida nell’azione (deficit di agentività).
Dott. Alessandro Monno